In Italia, perché all’estero il “Prometeo, tragedia dell’ascolto” viene regolarmente messo in scena : negli ultimi tre anni ad Amsterdam, Zurigo, Darmstadt, Duisburg, Parigi, Lucerna. Rimozione, oblio, pigrizia, automatismi degli enti lirici italiani, va a sapere. Certo, non è un lavoro facile, né da eseguire né da ascoltare: «Gigi, insieme a Massimo Cacciari, ci lavorò dieci anni», continua Nuria, «in archivio abbiamo 14 risme di fotocopie dei lavori preparatori. Pensava Prometeo come figura della sofferenza. Umana, lui che uomo non era ma Titano. Di chi lavora in fabbrica in condizioni pesanti, di popoli costretti sotto regimi oppressivi e fascisti. Tenendo aperta sempre una chance di riscatto. Questo, non una tessera di partito, significava per Gigi essere politicamente impegnato».
Una simile lettura del mito di Prometeo, origine in Esiodo, Eschilo, Platone, «sovverte la violenza impositiva dei vari Prometei della tradizione», sta scritto in un appunto di Nono. È vero. Prometeo, il Titano che ruba il fuoco agli dei per darlo agli uomini e Zeus punisce incatenandolo a una roccia dove un’aquila gli squarcia il petto e gli mangia il fegato, è per noi l’assalto al cielo, la ribellione contro la Necessità, l’appropriarsi del mondo grazie alla tecnica, insomma la Modernità stessa: la rivoluzione industriale, il capitalismo, i soviet più l’elettrificazione, fino all’atomica, Internet, gli smartphone. Lo è da Goethe, Herder, Byron, Shelley in poi (ma la moglie Mary, lo sguardo più lungo, in “Frankenstein o il nuovo Prometeo” dà voce alla paura per la manipolazione della natura).
Per Marx, «la dichiarazione di Prometeo, “detto francamente, io odio tutti gli dei”, è la sua sentenza contro tutti gli dei celesti e terreni che non riconoscono come divinità suprema l’autocoscienza umana»: sentenza, non solo ribellione. Su corde diverse il mito lo declineranno Leopardi, Gide, Pavese, un giovanissimo Camus in Algeria lo metterà in scena da Eschilo come una tragedia dionisiaca, d è i sui trampoli, maschere da mucca, trombe e chitarre, e dieci anni dopo ne farà il perno di una riflessione sul conflitto fra macchina e arte, tecnica e libertà.

Ma nessuna di queste riletture risulta radicale quanto il ribaltamento attuato da Nono e Cacciari, sulla scorta di Walter Benjamin, della mistica ebraica e di quella di Eckhart. «La nostra, di Gigi e mia, fu una reazione all’immagine banalmente prometeica di Prometeo», ricorda Cacciari, fra l’80 e l’84 estensore del testo; «il rigetto di un titanismo sciocco, laddove l’etimo di Titano è invece tensione della ricerca, dell’esperimento, del viaggio.
Di una rappresentazione dell’eroe confuso col superuomo di un Nietzsche a sua volta grossolanamente frainteso, laddove invece Übermensch è l’Oltreuomo, superamento dell’uomo attuale: quest’ultimo sì prometeico, potenza e prepotenza dell’elemento tecnico, economico e anche scientifico». Se non si ha chiaro questo, «non si capisce nulla di una partitura tutta intessuta di silenzi, pause, meditazione, l’opposto del Prometeo di Scrjabin o del “Così parlò Zarathustra” di Strauss».
Altri interrogativi suscita però la riproposizione del Prometeo. Cosa rimane dell’uomo prometeico, immagine che ha forgiato e strutturato la Modernità, se ormai, a dar retta all’ultimo Heidegger, è la tecnica a definire i fini e l’uomo è diventato mero suo strumento? Del Prometeo che agli uomini dona sì il fuoco ma anche l’arte sua di “colui che prima riflette”, cioè di prevedere e progettare? Lapidaria la risposta di Umberto Galimberti: «I greci, che avevano il senso del limite, avevano incatenato Prometeo, noi lo abbiamo scatenato, la tecnica s’è proiettata al di là di ogni misura. Prometeo dona agli uomini la virtù del prevedere: ma oggi noi, come comunità scientifica, abbiamo una capacità di fare enormemente superiore alla nostra capacità di prevedere. È tragico. Ci muoviamo come a mosca cieca». In sintesi: Prometeo siamo noi, il disastro di una Modernità che ci ha portato sul cammino della distruzione.

E tuttavia. Torniamo al mito, come lo racconta Platone nel “Protagora”. Gli dei incaricano Prometeo ed Epimeteo di distribuire alle specie mortali qualità e facoltà come a ciascuna si conviene. Ci penso io! dice Epimeteo, il fratello scemo, “colui che riflette dopo” e sposo di Pandora le lascerà aprire il vaso spargendo sulla terra malanni e sventure; e dà al leone la forza, alla gazzella la velocità e così via. Quando arriva all’uomo, non ha più nulla per lui. Che resta «nudo, scalzo, privo di giaciglio e di armi». Prometeo ruba allora a Efesto e Atena «il sapere tecnico insieme con il fuoco».
Scrive così, Platone: èntechnos sophìa. L’uomo potrà così sopravvivere. Qua in genere la lettura in modalità Bignami si ferma.
Errore, attacca Adriana Cavarero (al suo pensiero tra femminismo, differenza e Hannah Arendt studiosi di mezzo mondo dedicano a metà giugno una tre-giorni a Brighton): «Prosegue Platone, per bocca di Protagora, che gli uomini ebbero in dono la tecnica “ma non l’arte politica, di cui quella della guerra è parte, difesa nell’Acropolis dai temibili guardiani di Zeus”. La politica, il dono mancato, che dunque prometeica non è, resta da allora nello spazio oscuro di ciò che non è dato, luogo temibile e spaventoso perché include la violenza e la guerra.
La tecnica, al contrario, il dono di Prometeo, l’operare, “work” per Arendt, crea il mondo umano e modifica continuamente il nostro abitare». Ti aspettavi da Cavarero un affondo contro il titanismo macho e protervo (leggere Eschilo) di Prometeo. Invece: «Mi annoia il mantra heideggeriano di demonizzazione della tecnica come dono avvelenato o amaro destino. Internet ha reinventato il nostro modo di vivere e di pensare, straordinariamente prometeiche sono state le ultime decadi, imprevedibili e ancora impensati i prossimi sviluppi, apertura di inedite potenzialità».
La domanda fin qui inevasa riguarda la libertà umana. Tanto più ora che la Rete definisce i paradigmi stessi dell’esistenza individuale e collettiva, i “coders” di Zuckerberg scompongono l’individuo in preferenze e inclinazioni e lo rendono merce digitale vendibile un tanto a clic, e in una sorta di imbuto cognitivo gli algoritmi che presiedono ai “like” mi indirizzano verso ciò che già so e penso. Cosa ne è della libertà dell’individuo che si forgia il proprio destino e rifiuta di assoggettarsi alla Necessità, snodo della visione di Prometeo del Moderno? Il tema è scivolato nell’inattualità proprio oggi che nuove forme di sudditanza compaiono nel quotidiano e altre di schiavitù, feroci e arcaiche, ritornano in Medio Oriente e altrove? Come per la Arendt, per Adriana Cavarero «la vera libertà è quella politica, nel mito il luogo del dono mancato e del grande rischio. Ma nell’ambito della libertà inattesa stanno appieno il sapere tecnico e le sue creazioni».
Riprendiamo allora il filo di Nono e Cacciari. Ritorna più volte nel testo Ananke, la Necessità. «Non di ribellione si deve parlare», spiega Cacciari, «ma dell’affrontarla faccia a faccia, la Necessità, senza pensare di oltrepassarla o trasgredirla. Fuori da ogni apologia superomista della libertà. È Eschilo: il “Prometeo incatenato” è parte di una trilogia per il resto perduta, che si chiudeva nel “Prometeo liberato” con il riconoscimento della Necessità e l’accordarsi ad essa. Contro il Prometeo d’accatto del “siamo liberi, non c’è destino, avanti popolo”, Prometeo oggi è chi sa ascoltare, accogliere, dialogare».
E la libertà irriverente, irridente, finanche spudorata del Prometeo della Modernità? Come in Buñuel non ne rimane che il fantasma? Fosse invece, Prometeo, di nuovo l’azzardo dell’assalto al cielo? Ieri l’Acropolis di Zeus, oggi, per dire, Marte. L’Elon Musk di Space-X che forse ascolta solo i suoi demoni ma, fatti i soldi con Paypal virtualizzando il denaro e investito nell’avventura di Tesla, vuole ora mandare uomini in carne e ossa su Marte in dieci anni e colonizzare il pianeta. Tecnologia da inventare (l’entechnos sophìa) e business model (l’arte di riflettere prima). Col rischio dello scacco, del fallimento. Ma quale Titano scommette solo sul sicuro?