Il racconto choc di Andrey e gli altri omosessuali in fuga dal Paese dove vengono seviziati e uccisi (sotto gli occhi complici della Russia): «Urli di dolore che ti scoppia la gola, ti senti cadere, e poi ricomincia»
La tecnica si chiama “zvonok Putinu”, nel gergo dei servizi di sicurezza russi. Vuol dire “telefonata a Putin”. Consiste in una dinamo che fa passare scariche elettriche nel corpo del prigioniero, di solito attraverso il lobo dell’orecchio. Alle botte coi tubi di gomma si resiste: «Ti mordi le mani fino a sanguinare ma ce la puoi fare». L’elettricità è un’altra cosa. «Vedi che iniziano a girare la manovella, e sai che arriverà, e quando arriva il tuo corpo inizia a tremare, sai cos’è perché ci sei già passato, ma non capisci più cosa succede, urli di dolore che ti scoppia la gola, ti senti cadere, e poi ricomincia».
A raccontare è Andrey, ma il suo vero nome è un altro. Era stato arrestato perché gay, spiega. Volevano che denunciasse i suoi amici. I carnefici l’hanno liberato dopo un paio di settimane, consegnandolo alla famiglia con la raccomandazione che ci pensassero loro a finire d’ammazzarlo. Lo “ubiystvo chesti”, il delitto d’onore, è ancora diffuso e impunito in Cecenia. Dove «i gay non esistono»: parola di Alvi Karimov, portavoce del presidente Ramzan Kadirov. «Se esistessero, ci penserebbero i loro familiari a mandarli là da dove non si torna».
Andrey dalla Cecenia è riuscito a scappare. Ora è a Mosca, in una safe house - un appartamento segreto e per quanto possibile protetto - dell’organizzazione umanitaria Lgbt Network (Lgbtn).
Dalla fine di marzo in 80 hanno contattato il numero verde istituito da Lgbtn per chi vuol essere aiutato a fuggire dalla repubblica caucasica. Una quarantina sono stati salvati. Qualcuno è già all’estero. Gli altri aspettano visti che tardano ad arrivare. Nella safe house di Andrey c’è anche Mikhail (anche questo nome di fantasia). Ha un sussulto a ogni macchina che passa. «Abbiamo paura a rimanere qui perche “loro” possono venire in qualsiasi momento, e portarci via per ammazzarci da qualche parte», dice all’Espresso. «Nessuno troverebbe mai i cadaveri». Conta le gocce del medicinale che fa cadere nel bicchiere. «E dire che non avevo mai preso neanche un’ aspirina». Mikhail da quando è arrivato qui è sotto psicofarmaci. Almeno dorme. «Loro potrebbero anche infiltrare qualcuno tra noi, per sapere chi siamo e dove siamo: potrebbero mandare un “provokator”», dice. Usa il termine che in Russia e dintorni significa doppiezza, spionaggio e tradimento, almeno fin dalla fondazione dell’Okhrana, il Kgb al tempo degli zar. Nella safe house le pause sono lunghe e la paura è vera. Questa è gente coi nervi a pezzi. Sanno solo che vogliono andare il più lontano possibile dalla Cecenia e dalla Russia, al più presto.
La paura dei fuggitivi è giustificata. I killer inviati dalla Cecenia hanno spesso agito indisturbati a Mosca. Il presunto assassino del leader d’opposizione Boris Nemtsov, ucciso due anni fa a due passi dal Cremlino, è un ex ufficiale della sicurezza di Kadirov. «Abbiamo richiesto i visti a diversi Paesi», spiega Olga Borovna, responsabile di Lgbn nella capitale russa. L’Italia non è fra questi. «Funzionari dell’ambasciata tedesca sono venuti qui nella safe house, e hanno parlato con le vittime. Ma per ora non abbiamo saputo niente, né da loro né da altri».
Contattata dall’Espresso, l’ambasciata di Germania a Mosca ha risposto che non rilascia informazioni su singoli casi consolari (ma questo caso è “singolo”?). Però ci fan capire che la procedura è avviata. «I visti sono il primo passo per un’ azione penale internazionale per crimini contro l’umanità», annuncia il presidente di Lgbtn, Igor Kochetkov, raggiunto per telefono a San Pietroburgo. Anche se la Cecenia fa parte della Federazione Russa, «Mosca di fatto non la controlla, l’unica legge cecena è Ramzan Kadirov: solo davanti a un tribunale internazionale si potrà aver giustizia», sostiene Kochektov.
Le cifre sono quelle di una persecuzione sistematica e organizzata dall’alto. Negli ultimi tre mesi, oltre 100 persone sono state detenute illegalmente e in molti casi torturate in sei diversi centri di reclusione nella repubblica caucasica perché omosessuali o presunte tali, secondo il giornale indipendente russo Novaya Gazeta, che ha «prove certe» di quattro uccisioni e sta cercando riscontri su altre morti sospette. Secondo il Cremlino, invece, «non ci sono prove».
Parlando con Vladimir Putin di fronte alle telecamere della televisione di Stato russa, Kadirov ha definito «false e provocatorie le notizie sui presunti fatti» e le «presunte detenzioni». Ma ha fatto il nome di un “presunto” detenuto per omosessualità di cui nessuno era al corrente a parte tre giornalisti, che non lo avevano mai pubblicato. Putin non ha insistito per chiarimenti. La Novaya Gazeta ha passato documentazione e informazioni della sua inchiesta al Comitato investigativo federale (Sledcom), che dipende direttamente dalla Presidenza. Si stanno leggendo le carte. Non risulta sia stata ancora aperta un’indagine.
Da quella stanza urla continue Oltre alla “telefonata a Putin”, tra gli strumenti di tortura utilizzati in Cecenia sui gay c’è la “sedia”. È una sedia elettrica fai da te: fili collegati ai braccioli, e altri fili attaccati sul corpo della vittima. Andrey e altre nove persone che non si conoscevano tra loro, sentite separatamente, hanno descritto la “sedia” del centro di detenzione di via Kadirov numero 99, ad Argun. Nel carcere segreto oltre ai “colpevoli” di omosessualità c’erano anche persone prese per terrorismo o per droga, dicono i testimoni. Le urla di chi veniva torturato erano continue. La “telefonata” e la “sedia”, le tecniche preferite. Come lo furono per i miliziani ceceni leali a Mosca durante le due guerre contro i separatisti combattute tra il 1994 e il 2009, registrarono i rapporti di alcune organizzazioni in difesa dei diritti umani, tra cui Human Rights Watch (in particolare in un suo briefing del novembre 2006). Molti di quei miliziani oggi sono ufficiali dei servizi di Ramzan Kadirov.
Picchiato e derubato dai militari Mikhail in prigione non ce l’hanno mai portato. Niente telefonate e niente sedie. È stato picchiato e taglieggiato perché si è fidato di un “provokator” in un giorno che maledirà per tutta la vita. «Sai com’è», racconta, « quando non sei il tipo che prende rischi e non sei abituato a queste cose, ma eccoti in macchina con una persona che hai trovato su Vkontakte (il Facebook russo, ndr) e lui ti sta portando alla sua dacia? Sai, quando hai un po’ di timore ma anche tante aspettative? Bene, nella foresta tra i due villaggi lui svolta per una strada sterrata in mezzo agli alberi. “Ma dove vai?”, gli dico. Lui guarda avanti e non risponde. Come se non ci fossi. Allora mi spavento. La macchina si ferma in una radura e ci sono tre militari in divisa nera. Mi tirano giù dal sedile, e arriva il primo calcio. Mi pestano per dieci minuti, forse 15. Mi urlano che sono un pederasta schifoso, e che gente come me in Cecenia non deve esistere. Uno riprende tutto col telefonino. Poi resto raggomitolato nel fango e spero solo che non arrivino altre botte. Loro guardano le foto e i contatti nel mio cellulare. Mi gridano in faccia che devo dargli 200mila rubli sennò mettono tutta la mia storia e le mie foto su internet. Io ho qualcosa di rotto nella bocca, non posso parlare».
Casi di estorsione da parte delle forze di polizia nei confronti di persone omosessuali sono frequenti, secondo le testimonianze raccolte da Lgbtn. Non solo in Cecenia ma anche nelle repubbliche federate confinanti di Inguscezia e Daghestan. Il fatto è che a Groznyj ora anche i casi iniziati come semplice taglieggiamento sembrano esser diventati parte di un piano strutturato.
«Sì, certo che ho pagato», racconta Mikhail nella safe house. «Ho venduto lo smartphone, il computer e altre cose che avevo, e per un po’ non ho speso niente dello stipendio. Ho messo insieme i soldi e ho pagato. No, non ho parlato con nessuno di cos’era successo. A casa ho detto che avevo fatto a botte. Appena sono uscito dall’ospedale, ho cancellato numero di telefono e account sui social. Fine di ogni contatto. All’ospedale poi ho dovuto tornarci per operarmi per le fratture alle ossa del viso. Mi hanno messo una protesi, ma non si vede. Il problema non è fisico. È che quel giorno mi hanno fatto a pezzi dentro». E la cosa non era finita lì. Perché un mesetto fa a casa di Mikhail è arrivata la polizia. Lui era fuggito dalla Cecenia, pochi giorni prima. «I poliziotti hanno detto a mia madre che sono gay. Non lo sapeva. Da noi è tabù. Le hanno chiesto i nomi dei miei amici, l’hanno minacciata. L’ho convinta ad andarsene per un po’ altrove. Quando la sento sto attento a quel che dico. Meno sa e meno è in pericolo. Eppoi cerco di dirle che va tutto bene, che non corro rischi. Così è un po’ più tranquilla. No, non parliamo della mia omosessualità».
Obbligati a sposare una donna Mikhail in Cecenia ha una persona molto vicina che non riesce più a contattare. Nessuno l’ha più visto da un mese. «Sono molto angosciato», dice. «Certo che vorrei rivedere lui, e mia madre. Tornare un giorno in Cecenia? Non posso pensarci. È che non so davvero che fare. Quanto alla Cecenia, dovete capire i problemi di una doppia vita. Ti piacciono gli uomini ma devi stare con una ragazza e i tuoi genitori poi ti chiedono di sposarla. E tutta la vita devi vivere per forza con una donna, con una persona che non ti piace - facendo finta. In Cecenia è così. È molto difficile avere una doppia vita». Mikhail è molto giovane e nessuno gli aveva ancora fatto domande, ma se a trent’anni non hai una fidanzata o una moglie, in Cecenia fai scandalo.
«È una società estremamente tradizionale, fondata sui clan», spiega Alexey Malashenko direttore del programma Islam, religioni e Caucaso al think tank Carnegie di Mosca. «Non è una questione di religione: la religione viene usata da Kadirov per mantenersi saldamente al potere, qualche presa di posizione semi-fondamentalista serve a tener buoni alcuni clan». Ma perché le leggi russe in Cecenia non valgono? «Perché Putin è ostaggio di Kadirov e Kadirov è ostaggio di Putin», risponde Malashenko. «La Cecenia senza i soldi di Mosca non può sopravvivere, e Mosca ha bisogno che la Cecenia sia pacificata. Gli equilibri che evitano una nuova guerra di secessione li può garantire solo Kadirov. In cambio, il leader ceceno pretende l’assoluta immunità. Ecco perché le leggi russe in Cecenia non valgono».
La polizia e i servizi segreti federali di fatto non sono in grado di operare in Cecenia. Ma secondo l’autrice dell’inchiesta che ha portato alla luce i pogrom contro gli uomini gay, Ramzan Kadirov potrebbe aver osato troppo: «Ha oltrepassato i limiti», dice all’Espresso Elena Milashina. «Quando solo la Novaya Gazeta e qualche organizzazione umanitaria scrivevano della Cecenia, Kadirov poteva fare quel che voleva. Ma da quando la Cecenia è al centro dell’attenzione in Russia e nel mondo, le cose sono cambiate. Specialmente dopo l’uccisione di Nemtsov, per il Cremlino Kadirov è diventato un problema». Elena Milashina si occupa della Cecenia dal 12 anni, da quando la sua compagna di scrivania Anna Politkovskaya fu ammazzata perché si occupava troppo di Cecenia.
In questo momento vive in un luogo segreto e sta per la maggior parte del tempo fuori dalla Russia, secondo un protocollo di sicurezza elaborato dal direttore del suo giornale. Nessuna protezione dallo Stato, in Russia non si fa. Continua a incontrare le sue fonti cecene, all’estero. Troppo pericoloso. Sta preparando una nuova inchiesta che riguarda violazioni dei diritti umani. «Sì, c’è un rischio», ammette. «Ma i giornalisti vanno e vengono, e la gente che abita in Cecenia resta. Sono loro ad essere davvero in pericolo. E io vado avanti».