L'Occidente alza confini, fili spinati. E così i suoi valori costitutivi tornano in discussione e ai politici viene richiesta la rappresentazione pubblica del grande risentimento universale. Ma gli anticorpi per reagire esistono

Illustrazione di Giuseppe Fadda
Open/close, d’accordo. Ma adesso che questa nuova misura del mondo ha sostituito i meridiani e i paralleli del passato ci siamo chiesti come cambiano le mappe che regolano la nostra vita e le relazioni con gli altri, mentre ci permettono di leggere la realtà?

Ci accorgiamo improvvisamente che la fisica influenza la metafisica, gli spazi che si restringono ubbidendo alla crisi modificano la nostra scala di valori e i giudizi di merito. Nella società aperta in cui ci stavamo abituando a vivere, il cosmopolitismo sembrava una seconda natura: con le sue lingue franche, la moneta comune, il cibo fusion e universale, la musica condivisa su Spotify, i ragazzi dell’unica tribù di Erasmus, i voli low cost per abbattere il costo della distanza, le strade dello shopping uguali in tutte le capitali, una squadra di calcio per cui fare il tifo a Madrid o a Manchester o a Monaco, come a Torino a Napoli o a Milano.

Nella società che si rinchiude tornano i confini e anzi le barriere, rispuntano i muri e i fili spinati, la terra e gli spazi diventano dominanti, la fissità è sicurezza, la paura nasce da tutto quello che si muove, soprattutto in casa nostra, perché è paura della diversità, perdita di uniformità, nella percezione di smarrire riferimenti tradizionali, omogenei, costanti, di veder sbiadire la coesione comunitaria di fili biografici tra loro intrecciati in una esperienza comune di vissuto, di condivisione, di scambio. L’unità di luogo è il nuovo valore geopolitico in un mondo che si rimpicciolisce ostile, fin sull’uscio sbarrato di casa.
Editoriale
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È uno smarrimento di destino, come se l’ondata migratoria unita alla crisi del lavoro e alla minaccia terroristica - le tre emergenze del contemporaneo - avessero portato a galla tutte le fragilità della fase, e tutte insieme. Le solitudini fisiche, individuali, chiuse nel grande tinello italiano si sommano alle solitudini sociali nella piazza pubblica, i pensionamenti anticipati, i licenziamenti in mezza età, il limbo eterno della cassa integrazione, la precarietà che impedisce ai ragazzi l’ingresso autonomo nell’età adulta. La solitudine culturale cancella ogni vecchia appartenenza di classe, di ceto, di gruppo sociale riconosciuto e organizzato.

La solitudine politica è il risultato di tutto questo, con la mancanza di un canale di rappresentanza che funzioni, trasmetta riconoscimento, e sappia trasformare i problemi individuali in fenomeni collettivi, capaci di scavarsi un percorso di coscienza e di rilevanza, fino a pretendere una risposta pubblica. Scopriamo così che la vera solitudine è l’incertezza di sé, la sensazione di essere finiti fuori da ogni orizzonte di tutela, con i problemi che ci sovrastano, il mondo fuori controllo, il “tilt” di ogni sistema di governo, e infine - estrema bestemmia - con la sterilità dello stesso meccanismo democratico, talmente improduttivo da risultare estraneo.
Politica
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Nulla dura abbastanza a lungo da essere pienamente acquisito, diceva Bauman. Sotto il battito continuo dell’onda post-moderna resistono solo i risentimenti, le emozioni, come nelle fasi di decadenza quando si vive nella percezione di un fine d’epoca, saltano i criteri che incardinavano il sistema, si avanza l’irrazionale, il pensiero antiscientifico, l’eresia che nega il mondo così com’è, promettendo la salvezza e la redenzione soltanto nell’altrove. Che sembra fuori dal sistema, a portata di mano, ma in realtà è fuori dalla politica, in una dimensione parallela e magica raggiungibile solo dopo un azzeramento culturale di ciò che ci siamo costruiti faticosamente nel quadro della modernità democratica, istituzioni, partiti, valori, tradizioni, storia comune.

Al politico non vengono più richiesti progetti, programmi, ideologie, un’idea, un’ipotesi del mondo, ma una rappresentazione pubblica del grande risentimento universale, una capacità costante di essere contro, quasi un giuramento da setta che si traduce in una prova continua di alterità, di diversità, di discontinuità. Nella società aperta l’esperienza e la conoscenza erano garanzia di competenza, indispensabile per assicurare la rotta del grande viaggio. Nella società che si chiude non conta dove vai, ma da dove vieni: la competenza è associata a una cultura castale, dunque è sospetta, l’esperienza accomuna alle élite, e va rigettata, la conoscenza confina con il tecnicismo, quindi è contaminata, perché tutto questo sapere sa di confisca perenne del comando ai danni della suprema spontaneità popolare, un inganno scientifico, in realtà una dottrina camuffata del potere.

L’uomo nuovo della post-politica viene dal nulla, è cittadino allo stato puro, senza qualificazioni e senza altra qualità che la sua medietà neutra, ugualmente lontano da ogni storia e da qualsiasi ideale precedente, pronto a dare oggi forma al grande risentimento pubblico, domani a prendere la forma politica che i tempi, le circostanze e le convenienze decideranno. Tu oggi voti la rabbia, per definizione senza struttura, e non sai che conformazione prenderà domani: in realtà deleghi tutto all’improvvisazione estemporanea dei leader. Ma intanto l’incompetenza è prova di verginità politica, l’ignoranza è la conferma della genuinità. Il mondo nuovo comincia da qui, così si costruisce l’altrove.

Il luogo mitologico da cui l’antipolitica dà l’assalto al potere è dunque un deserto di tradizioni, dove inaridiscono al nuovo sole ideali, valori, conquiste, costruzioni, fatiche, elaborazioni, idee, frutto delle lotte politiche e sociali di un secolo: e naturalmente frutto anche dei tradimenti, delle inadempienze, dei ritardi, delle menzogne e delle infedeltà di una politica tradizionale indebolita da se stessa, fino all’esaurimento.

Questo giacimento di esperienza e di storia, di successi e di inganni viene azzerato, perché solo il deserto realizza la tabula rasa dalla quale può nascere l’antipolitica, senza vincoli, senza storia, senza memoria, fino a celebrare il supremo inganno, la neutralità tra destra e sinistra, come se fossero puri siti archeologici e non depositi vivi - anche se evidentemente malandati - di passioni legate a vicende umane individuali e collettive, criteri di interpretazione del mondo, opzioni culturali. Come se fosse possibile mantenersi neutri di fronte ai valori e agli ideali che hanno nutrito il campo della democrazia, della libertà, dell’Occidente, rendendo riconoscibili l’uno all’altro - nella scelta culturale di fondo, a destra o a sinistra - i cittadini e i loro rappresentanti. Fuori da questo orizzonte resta soltanto l’istinto senza storia che si fa politica.

Questo spaesamento fideistico segna in realtà la fine dell’affidamento alla politica, che aveva accompagnato il lungo dopoguerra di pace in cui abbiamo vissuto. Debole o forte, sospetta, lontana o troppo vicina, la politica sedeva comunque a capotavola nella società contemporanea, governava il mazzo di carte che distribuiva alle parti in gioco. L’abuso di potere ha consumato il ruolo.

La separazione, la cooptazione e l’autoconservazione hanno fatto il resto. La fine sacrosanta delle ideologie che hanno imprigionato il Novecento ha fatto crollare anche ogni impalcatura di pensiero, ogni identità culturale, qualsiasi senso di appartenenza che vada oltre il contingente e l’effimero. Sembra che le idee non servano più alla politica, rassegnata a vivere nell’interpretazione del presente, senza tradizioni e senza proiezioni, come se il suo mondo fosse cominciato ieri e dovesse finire domani. Il risultato è l’uniformità culturale di un indistinto democratico che ha introiettato il senso di colpa della crisi invece di provare a governarla. Anzi ha fatto di più, ed è il suo peccato capitale: ha delegato alla crisi la riconfigurazione del sociale, tagli, fratture, nuove esclusioni, disuguaglianze, nuove soggettività, senza un disegno autonomo di società, senza un progetto di contrasto, senza l’embrione di un pensiero alternativo, nemmeno un’obiezione culturale.

È in questo vuoto residuale che cresce il vuoto organizzato dell’antipolitica, la promessa del nulla populista. Una psicopolitica che seduce invece di proibire, che si propone di punire invece di trasformare, che convoca il cittadino a manifestare la sua rabbia con un click davanti al computer dove l’informazione viaggia fuori dal contesto cognitivo, mentre ogni diversità e qualsiasi difformità vengono cancellate perché increspano il flusso controllato che scende dall’alto verso il basso. Davanti al blog di Grillo che maledice chiunque, con anatemi da setta religiosa, come davanti a un comizio di Salvini che promette le ruspe e se le tatua sulla felpa, più che politici ci troviamo di fronte fornitori di psicopolitica che ci trasformano in consumatori del risentimento e della paura, in ogni caso spettatori, comunque non protagonisti.

Gli anticorpi esistono, basta saperlo. Per contrastare la presunta spontaneità della crisi bisogna ricordare che il welfare ha costituzionalizzato la lotta di classe per quasi un secolo, garantendo garanzie sociali minime come diritto del cittadino e non come beneficenza: oggi scopriamo che il suo deperimento ha indebolito il vincolo di cittadinanza, non solo il livello di vita dei più deboli, degli scartati. Bisogna dare una sovranità effettiva agli organismi internazionali come la Ue, che corrisponda alla sovranità del cittadino-elettore, con un voto per il Presidente della Commissione europea, trasformandola in un governo. Bisogna difendere il pensiero liberale e il concetto stesso di Occidente attaccati dal populismo.

Bisogna soprattutto avere il coraggio di dire che dietro il nazionalismo, i confini, la chiusura nell’uniformità indigena c’è ancora una volta il fantasma di un’ossessione. L’ossessione del sangue, con la garanzia perenne dell’identità, la promessa della continuità, l’immortalità simbolica per il popolo, fuori dal tempo e nel passaggio delle generazioni. E insieme c’è il sentimento della fragilità di tutto questo, che porta facilmente a temere le contaminazioni e le corruzioni che sfociano nel buio del nulla identitario. È il rischio biopolitico, contro le “impurità” che indeboliscono, contro lo straniero, il diverso, l’immigrato, l’uomo di colore, il corpo estraneo, oggi di nuovo misurati da classificazioni, elenchi, liste che stanno rispuntando nella democratica Europa e registrano la vicinanza o la lontananza dall’uomo bianco indigeno, unico soggetto meritevole di tutela.

Una battaglia politica e prima di tutto culturale tra queste pulsioni di un’identità impaurita e strumentale e una solidarietà responsabile e sicura meriterebbe di essere combattuta. E qui, sul piano delle idee per difendere la modernità della democrazia occidentale, potrebbe anche esserci un incontro tra destra e sinistra, nel solco del pensiero liberale sotto attacco: non nei miserabili accordi tra perdenti per governi impossibili, che non risolverebbero i problemi del Paese ma regalerebbero una prateria all’antipolitica, dimostrando che in Italia - e soltanto in Italia - gli opposti sono uguali, e le alternative sono possibili solo fuori dal sistema.