Uno sciamano che scava nelle radici dell'arte. In mostra alla Biennale di Venezia e al Madre di Napoli

Roberto Cuoghi? Non va ai vernissage, spesso neanche ai suoi, non partecipa alle cene del mondo dell’arte, evita fiere, biennali e adunate in genere. È un eremita. L’artista-eremita che tutti conoscono anche grazie a quel “fatto” che ha cominciato a circolare circa vent’anni fa…». Chi parla è Andrea Bellini direttore del Centro d’Arte Contemporanea di Ginevra, suo forte sostenitore da sempre. Una stima che precede di molto la popolarità che Cuoghi ha ora raggiunto grazie alla straordinaria opera che ci rappresenta nel padiglione italiano alla Biennale di Venezia.

È stato infatti il Centro di Ginevra a produrre lo scorso gennaio la sua prima antologica “Perla Pollina” che in questi giorni è approdata in nuova versione al Madre di Napoli (per la cura del direttore Andrea Viliani, fino al 18 settembre) e contemporaneamente a pubblicare l’immensa monografia che l’accompagna. Sa quasi tutto di lui, Bellini, a partire da quel “fatto” che sul finire degli anni Novanta rese l’eremita una specie di leggenda.
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Anche se le sue stranezze erano già in qualche modo leggenda, fin da quando, studente a Brera, si distingueva per comportamenti eccentrici difficili da chiudere nella parola “Performance”. Poteva mai essere una performance farsi crescere le unghie per un anno intero, usarle come matite e pennini per disegnare e scrivere poesie e poi, una volta tagliate, regalarle a una compagna di classe per farne una collana?

Era poi una performance montare su occhiali da saldatore quei prismi di Pechan che invertono la visione sotto/sopra e destra/sinistra e indossarli giorno e notte per acquerellare autoritratti fuori registro e scoprire che tale distorsione della vista fa vacillare il corpo, sconvolge i sensi, scatena nausea e provoca scompensi?

E possiamo davvero chiamare performance quel “fatto” che, appunto, lo rese leggenda? Trasformarsi nel padre. Invecchiare velocemente e violentemente. Decolorare i capelli fino a ustionarsi la testa. Vestirsi dei suoi abiti, inforcare i suoi occhiali. Appropriarsi della lentezza dell’età e soprattutto ingrassare. Dagli originari 60 chili Cuoghi in pochi anni arriva a 140 regalandosi problemi cardiaci, scheletrici, ernie e malanni che ancora oggi a distanza lo tormentano.

Oggi appunto che Cuoghi (nato a Modena nel 1973) appare come uno dei più innovativi artisti della sua generazione, ora che è sotto gli occhi di molti riflettori, forte di internazionale ed ecumenico consenso che premia lo straordinario lavoro di Venezia, potente nelle forme e nel titolo: “Imitatio Christi” dal controverso testo quattrocentesco, glorificazione della sofferenza e della morte a imitazione del dio sceso in terra.
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Eccolo il figlio di Dio apparire da una sorta di fucina mitologica dove bullicanti macchinari rilasciano gelatine organiche che vanno a solidificarsi in calchi a somiglianza di Cristo. Corpi che poco più in là perderanno le umane fattezze, lasciati macerare in un futuristico corridoio dalle pareti di plastica dove aria umida, muffe e batteri corrodono le sculture biologiche. Poi in un passaggio successivo il salnitro ne mummifica i resti, i forni ne essiccano le membra e il Cristo/uomo ormai smembrato è diventato altro, qualcosa di più simile agli idoli arcaici degni di un Musée de l’Homme.

“Imitatio Christi” è il risultato di una ricerca che non somiglia a nessun’altra e sfida il pensiero dei critici a trovare il bandolo dell’intricata matassa che accompagna la sua carriera. Uno dei fili è tirato da Andrea Cortellessa in un poderoso saggio pieno di note e rimandi, dove riconosce in Cuoghi l’artista asceta, scava nelle radici spirituali, medievali e cattoliche fino a individuare nelle sue trasformazioni «processi di preparazione, degli esercizi spirituali come nella tradizione di Sant’Ignazio di Loyola che si fondano su un allenamento specifico del corpo per accogliere un pensiero diverso, una diversa grammatica della visione».

Cortellessa, uomo di lettere più che di arti, è completamente catturato da tanta distorta visionarietà. Va persino a trovare l’artista nel suo studio a Milano dove è in preparazione una delle sue apocalittiche costruzioni: “Putiferio” evento, o pandemonio, con cui illuminò la scorsa estate il cielo greco di Hydra, cuocendo a fuoco vivo, lungo una notte intera, sculture in forma di granchio nella bocca di artigianali forni di sua invenzione. In uno di quei forni, Cuoghi accanto alle sculture cuoce del pane per offrirlo al nostro critico letterario, che ricorda: «Il pane è delizioso ma mentre lo addento non riesco ad evitare la sensazione che in quel modo giocoso sia stia officiando un rito preciso, quasi una profana Eucarestia».
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Sacro e profano in quello studio non entrano mai in contraddizione. Sono nati lì i demoni come Pazuzu che trae spunto da una microscopica statuina conservata al Louvre e nelle sue mani viene ingigantita, trasformata, ripetuta fino a diventare demone e dio, una creatura capace di incarnarsi in mille diversi materiali e mille diversi corpi. Lì è nata la “Trilogia della giustizia” che ha ridato luce a uomini trascurati dalla storia e raggiunto l’apoteosi in “Suillakku”, la lamentazione degli abitanti della città di Ninive, vittime dell’assedio babilonese, i quali fuggendo dalla furia cieca dei nemici pregavano cantando.

Sebbene di quelle sonorità non ne sia rimasta traccia, Cuoghi studia le fonti, interroga archeologi, immagina le forme degli strumenti, ne ricostruisce alcuni, rievoca in un lavoro sonoro il frastuono delle armi e il canto delle vittime, fino a produrre un suono alle origini del tempo. È il suo metodo, quello che lo imprigiona per anni in un progetto finché l’esperimento non è riuscito. Non a caso in quello studio-laboratorio sono passati antropologi e linguisti, ingegneri e liutai, ceramisti e chimici, biologi e musicisti che non hanno potuto rifiutargli consulenza, tanto dolcemente sarà stata richiesta da quest’uomo colto, pallido, gentile, con pensieri sorprendenti e docile capacità di ascolto.

Chi del resto non ne è catturato? Quando con rabbia nel 2001 creò una serie di ritratti di protagonisti del mondo dell’arte dalla faccia fracassata o decomposta, invece di offendersi i collezionisti fecero a gara per commissionargliene altri. Non furono accontentati in molti. Non era il ritratto il fine, ma il processo. Come ogni volta quel che conta è l’esperimento, il fare, l’imparare, l’inventare una tecnica perché partorisca una forma mai ancora vista.

«Ogni forma che posso immaginare è il risultato dell’esperienza, se voglio arrivare a una forma che non appartiene all’esperienza devo sapere prima di tutto come si formano le forme e poi fare diversamente», ha detto. Tanto diversamente che nessuna opera di Cuoghi assomiglia a un’altra opera di Cuoghi, eppure identica è la potenza di ognuna che ci attrae come un buco nero e ci trascina indietro nel tempo a un mondo pre-rinascimentale, quando era il caos e non l’armonia a governare l’immaginazione del mondo e gli inferi erano più vicini del limbo.

Qui vive Cuoghi, alle radici di un’arte che pulsa e lotta prima che l’ordine classico l’addomestichi con quell’aspirazione all’equilibro, all’aurea proporzione che ha ispirato persino il nostro Novecento e ha raggiunto le nuove generazioni. Cuoghi invece non ha mai voluto essere nuovo, semmai eterno come Argo l’immortale dell’ “Aleph” di Borges che «pur avendo le nostre percezioni riusciva a combinarle diversamente e costruiva con esse altri oggetti... in un mondo senza memoria senza tempo con la possibilità di un linguaggio che ignorasse i sostantivi, un linguaggio di verbi impersonali o indeclinabili epiteti». Per l’artista eremita, asceta e sciamano, l’unico linguaggio con cui l’arte possa di nuovo ritrovare la sua sacralità.