L’Ue pencola sull’orlo di una fatale disgregazione: l'Inghilterra è sulla via della separazione, Scozia e Catalogna annunciano qualcosa di simile e la Russia punta a espandersi in territori limitrofi. Intanto la politica latita

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Un segnale l’avevano dato già dieci anni fa gli universitari di mezza Europa, che a un tratto cominciarono a spostarsi dai corsi di lingue e culture europee a quelli di cinese e di arabo. Non avevano ricevuto i report della Banca Mondiale o del Fondo Monetario, ma avevano fiuto abbastanza per capire che l’asse delle egemonie mondiali si stava spostando. Non era più l’Europa a indicare la rotta, ma qualche altra area.

Oggi il fenomeno è di chiarezza meridiana. Donald Trump, dopo aver ricordato rudemente ai paesi europei (all’Italia per prima) che la quota che versano per la Nato non è all’altezza del servizio, ha finora incontrato il presidente cinese e perfino il brutale collega filippino, ma nessun leader europeo, salvo l’antieuropea Theresa May. Per un presidente come lui, che non è che un rampollo della terza generazione di emigrati tedeschi, l’Europa probabilmente non vuol dire quasi più niente. Un autocrate come Erdo?an ha intimato all’Ue, a cui cinque anni fa intendeva aderire, di non occuparsi degli affari turchi. La Cina, dopo aver elaborato un suo cinico modello di sviluppo (arricchimento della finanza sovrana, lasciando nella miseria il grosso del popolo; emigrazione diffusa su scala planetaria), si è imposta come un temibile player economico-politico e annuncia una Via della Seta, una immensa infrastruttura di trasporti per metà su territorio europeo. L’India si prepara a seguire, conciliando il capitalismo di pochi con la libertà di emigrazione per i poveracci. Insomma, col nuovo secolo nuovi attori sono spuntati sulla scena, vecchi attori si ridisegnano e pretendono un posto adeguato.

Il fronte interno europeo non è più promettente. Uno dei motivi (non molti) per compiacersi della vittoria di Emmanuel Macron sta nella sua promessa di consolidare l’Unione europea. Vasto programma, ma dall’esito nient’affatto scontato. C’è il rischio che l’unico risultato sarà quello di dare più solide basi all’alleanza franco-tedesca. Quanto all’Unione nel suo insieme, invece, l’esito dell’operazione è incerto. Lo stesso “mito” d’Europa come patria di democrazia si sta appannando. Le “democrazie dure” à la Putin si moltiplicano e attirano simpatie anche nel vecchio continente. Insomma, per molti aspetti l’Europa corre il rischio di non contare più nulla, o, se preferiamo una formula più drammatica, di uscire dalla storia.

Nel 1880, quando a contendersi l’egemonia europea erano Francia, Inghilterra, Germania, Russia e Austria, Otto von Bismarck sentenziò che «tutta la politica si riduce a questa formula: cerca di essere una delle tre, fino a che il mondo è governato dall’instabile equilibrio delle cinque grandi potenze». Mutatis mutandis, oggi toccherebbe all’Ue essere “una delle tre”, il quadro generale però lascia temere che non andrà così.
Ma da alcuni anni si sono attivate due spinte avverse: all’interno, la disarticolazione dell’Unione; all’esterno, la comparsa di nuovi player e di nuove relazioni tra loro. L’Unione, che potrebbe aspirare ad essere “una delle tre” del gruppo immaginato da Bismarck solo a condizione di essere unita, pencola sull’orlo di una fatale disgregazione. La Gran Bretagna è già sulla via della separazione. La Scozia annuncia qualcosa di simile, al pari della Catalogna.

Fermenti di scissione si registrano in tutto il continente, Italia compresa. Diversi paesi dell’Ue ricusano le decisioni generali e prendono le distanze. Nel frattempo la Russia di Putin non perde occasione per ricordare all’Europa la sua diversità e rispolverare i vecchi metodi delle Grandi Potenze, come quello di espandersi in territori limitrofi annettendoli. In fondo, come ricordò anni fa Milan Kundera (“Un’Europa sequestrata”, 1985), l’Europa finisce agli Urali.

Una volta la Grande Potenza si definiva per le sue armate e le sue flotte e la connessa capacità di difendere i propri territori e invadere quelli altrui. Quindi era tale essenzialmente perché capace di Grandi Prepotenze. Nel secolo scorso a questo criterio se ne sono aggiunti altri. Anzitutto, la capacità di dominare commercialmente gli altri paesi; poi quella di disseminare emigrazione. Ma la vera novità moderna è la figura della Grande Potenza che riesce, oltre al resto, a esportare la sua cultura, nel senso più ampio del termine, dalla creazione artistica (letteratura, musica, film, serial, lingua) agli stili di vita, fin nelle dimensioni più private (modi di chiamar le cose, intercalari, abbigliamento, moda, cucina, tipi di rapporti, etologia e comportamenti, ecc.). È chiaro che al momento l’Europa ha sì e no un paio di questi requisiti, e neanche per intero.

In un ambiente così ribollente, è destabilizzante anche la grande migrazione che da qualche anno porta da noi milioni di disperati dall’Africa e dall’Asia. Gli ottimisti a oltranza si confortano sostenendo che sarà una manna per l’Europa, perché ravviverà un continente di vecchi e servirà a finanziare le loro pensioni. Giusta o no che sia la previsione, il trasferimento di milioni di persone nella frammentata e generosa Europa non potrà non deprimere la sua salute economica e politica e ridisegnare la sua cultura. Prima di finanziare le nostre pensioni, l’immigrazione creerà (l’ha notato Michael Collier nel suo importante “Exodus”, Laterza 2016) un immenso strato di proletariato, che dovrà esser mantenuto per anni con denaro pubblico. Collier ha anche mostrato che l’immigrazione si autoalimenta, perché la diaspora più si espande e più richiama nuovi arrivi. Qualche settimana fa Erdo?an ha gettato sul fenomeno una luce ancora più cruda, quando ha invitato i turchi di Germania a figliare senza freni per accelerare il “grande rimpiazzo” (dei nativi con gli immigrati). Questa minaccia (pochi lo sanno) aveva già risonato cinquant’anni fa. Nel 1978 il presidente algerino Houari Boumedienne aveva preconizzato che «un giorno, milioni di uomini lasceranno le parti meridionali povere del mondo per fare irruzione negli spazi relativamente accessibili dell’emisfero nord». Queste minacciose profezie diventano più concrete se si pensa che le masse di cui si parla praticano l’Islam, la religione che nel 2050 sarà la più praticata del mondo (tra l’altro, sarà maggioranza in Francia, Regno Unito, Australia e Olanda) e che di certo non ha una tradizione filo-europea.

Gli effetti sull’Europa possono essere anche indiretti. Si può comprare a pezzi il patrimonio immobiliare e industriale (comprese le squadre di calcio), come stanno facendo la Cina e gli Emirati. Si possono incoraggiare le nascite, come fa la Cina. Fino all’anno scorso ogni coppia era autorizzata ad avere un solo figlio, ora l’autorizzazione è estesa a un secondo. Questa norma, apparentemente umanitaria, potrà far sì che il miliardo e duecento milioni di cinesi crescano da un momento all’altro di quattrocento milioni. Una parte importante di questi, non trovando risorse in patria, prenderà la via dell’emigrazione, con l’Europa come destinazione primaria. Infine, si possono dare concessioni, come accade nel lato orientale dell’Africa, che accorda spettacolari privilegi ai cinesi, i quali, dopo aver acquisito il porto del Pireo e l’aeroporto d’Atene, progettano una ferrovia ad alta velocità tra Atene e Budapest, ma puntano a Rotterdam.

Non pare anche a voi che tutti questi siano annunci di qualcosa di grosso proprio attorno al Vecchio Mondo? Si spera che i politici europei si rendano conto che l’Europa, come mostrano le carte, non è che un “piccolo capo dell’Asia” (così diceva un demografo francese dell’Ottocento). Se vogliono che continui a far parte del “gruppo dei tre” e non esca davvero dalla storia, dovranno inventarsi qualcosa di forte, anzi di fortissimo.