Sei romanzi per questa estate, con tutte le sfumature del giallo, scelti dall'autore di 'Romanzo Criminale'
Se dici giallo immagini: un delitto, un investigatore che si mette al lavoro, una soluzione che ristabilisce l'ordine assicurando alla giustizia il colpevole. Immagini Agatha Christie. Se dici "noir" immagini sangue, amore e morte, un'emotività che prevale sulla logica, investigatori corrotti in uno scenario infetto, passioni esasperate. E se manca la soluzione del caso, pazienza: quello che conta è l’atto d’accusa contro la società.
James Ellroy, per intenderci. Giallo classico e “noir” procedono affiancati da quasi un secolo, dividendosi il favore dei lettori. Naturalmente, il tempo non passa invano. I due generi tendono a una costante e progressiva assimilazione: nel giallo classico irrompe la società, il “noir” affina il “plot”. E in entrambi ricorrono temi e scenari che affondano radici nel contemporaneo. Le tendenze più recenti registrano una notevole sensibilità per i ruoli e le figure femminili, comune tanto alla narrativa che alle serie televisive più avanzate (come “The Bridge” o “Homeland”). E sovente gli uomini, intesi come maschi, o sono mostri dall’ingannevole apparenza benevola, o, quando va bene, affettuosi consolatori. Ma anche i migliori, se così si può dire, sono irrimediabilmente ignari della complessa profondità dell’universo femminile: troppo presi dalle loro banali battaglie e dal loro narcisismo per andare a fondo nelle cose.
La svalutazione del maschio raggiunge punte paradossali e a tratti estreme in Quelli che meritano di essere uccisi (Einaudi Stilelibero), di Peter Swanson, romanzo dominato da femmine demoniache, spietate evoluzioni della tradizionale dark lady. America, oggi. Ted e Lily s’incontrano nella business lounge di un grande aeroporto, e immediatamente scivolano in una franca fratellanza alcoolica. Ted è belloccio, ricco e infelice: ha appena scoperto che la sua bella moglie Miranda lo tradisce con il capomastro a cui la coppia ha affidato la costruzione di una faraonica villa nel Maine. E Lily... beh, Lily è, appunto, la perfetta dark lady 2.0. È nata, confessa, «con un senso morale diverso da quello della mia specie, il senso morale di un corvo, di una volpe o di un lupo, non di un essere umano», e ovviamente ha i capelli rossi. È lei a proporre all’afflitto Ted di aiutarlo a uccidere la perfida Miranda. Perché lo faccia, lo scopriremo quasi subito, ma sarebbe delittuoso rivelarlo. Basterà sapere che anche Miranda finirebbe senza problemi nella top ten delle ragazze cattive.
“Quelli che meritano di essere uccisi” comincia dunque in stile “Sconosciuti in treno”, il classico di Patricia Highsmith (1950) che ispirò a Hitchcock il memorabile “Delitto per delitto”. Ma siccome non siamo in clima di remake ma di aggiornamento dei canoni del genere, appena il tempo di metabolizzare il rimando e si finisce dalle parti de “Il postino suona due volte” (James M. Cain, 1934), incrociato con “La vedova nera” di Bob Rafelson (1987). Sino a un finale che echeggia l’ormai mitologico sarcasmo narrativo dei vari “Fargo” targati fratelli Cohen. Con la non piccola differenza che laddove in “Fargo” i gesti più crudeli sono figli della meschinità, qui la ferocia al femminile delle varie Lily e Miranda sconfina nella psicopatologia. Come se l’autore - maschio - dicesse alle sue terribili eroine: ok, anche nel crimine siete andate molto avanti. Ma ne valeva la pena?
Più moderato, il francese Michel Bussi, in “Non lasciare la mia mano” (E/O) concede qualche chance ai maschi “giusti”, come il poliziotto-fricchettone Christos Konstantinov, peraltro subordinato all’energica, tenace e acutissima comandante Aja Purvi, e innamorato della monumentale e gaia creola Imelda. Il valore aggiunto di questo romanzo dalle molteplici e imprevedibili svolte, molto amato in Francia, sta nell’ambientazione tropicale: l’isola di Réunion, territorio francese d’oltremare. Per i tanti turisti che ne affollano le spiagge incontaminate, un paradiso di vulcani, rhum e ragazze di sogno. Per chi la conosce bene, «un laboratorio dell’umanità» che raduna in quaranta chilometri quadrati «un campione rappresentativo delle disuguaglianze tra i popoli dei cinque continenti». Per il bel Martial e la sua adorabile famigliola, un luogo di vacanza che si trasforma in inferno quando la sua bella moglie scompare e contro di lui si scatena la caccia all’uomo. Ma le chiavi di un mistero all’apparenza troppo semplice riposano, ancora una volta, nel cuore delle donne.
Un altro tema coltivato da molti autori riguarda il rapporto fra mass-media e indagini. I legami che fatalmente si creano fra il cronista, l’investigatore, la vittima e talora l’assassino, e tutto ciò che ne segue in termini di propaganda, depistaggi, uso strumentale delle notizie, hanno ormai una loro centralità riconosciuta nella narrativa di genere. “Ragdoll” del giovane inglese Daniel Cole (Longanesi), è la storia adrenalinica della caccia a un serial-killer che: a) assembla in una grottesca bambola umana di stracci (da qui il titolo) pezzi di cadaveri dei quali occorre scoprire l’identità; b) dichiara i suoi prossimi obbiettivi sfidando la polizia a fermarlo. Qui i boss delle televisioni sono descritti come un’accolita di squali cinici e amorali, pronti a boicottare le indagini e a correre il rischio del sacrificio umano pur di guadagnare un paio di punti di “share”. Magari grazie a uno scoop estremo, modello “morte-in-diretta”.
La stampa come incubo della polizia ritorna, con un più robusto realismo, in “Sei quattro” del giapponese Hideo Yokoyama (Mondadori), un romanzo monumentale che brilla per virtuosismo letterario e ci consegna un personaggio indimenticabile. “Sei quattro” è il nome in codice di un vecchio delitto irrisolto - il rapimento e l’uccisione di una bambina. Un disonore che macchia la memoria dei poliziotti dell’immaginaria città di D.: per loro, il caso è ancora aperto. Il protagonista, Mikami Yoshinobu, sarebbe uno sbirro di razza, se i superiori non l’avessero destinato all’ufficio stampa. Dove si trova ad affrontare orde di giornalisti perennemente sul piede di guerra e ogni sorta di manovre di corridoio. Il tutto mentre la sua unica figlia adolescente è scappata di casa, la moglie è tormentata da telefonate anonime, oscure trame politiche minacciano la stessa esistenza della polizia di D. e la caccia all’assassino di “Sei quattro” procede a rilento. Anche qui la posta in gioco, a un certo punto, sembra più riguardare la gestione delle informazioni che la cattura dell’assassino. Ma è proprio quando chiedono a Mikami di convincere il padre della bambina vittima di “Sei Quattro” a prestarsi all’ennesima inutile conferenza stampa che qualcosa si mette in moto. E la cruda realtà del crimine riprende il sopravvento. La stampa inglese l’ha definito uno “slow-burnig thriller”, come a dire: un sigaro che brucia lentamente e soltanto nel fondo dell’ultima boccata rivela la propria eccellenza. Ma “Sei-Quattro” è molto di più. Yokoyama descrive con grande acutezza i moti dell’animo di un eroe lacerato fra senso del dovere, istinto investigativo e umana pietà per le vittime del male. Ci sono riflessioni poetiche sulla natura, e sulla natura umana, che conferiscono all’insieme un ritmo trasognato, si direbbe ottocentesco. Certi passaggi legati al tradizionale concetto di onore e all’etica del samurai ci paiono forse incomprensibili, e bisogna accettarli come il portato ineluttabile di una cultura “altra”. Ma il colpo di teatro finale è una zampata - davvero graffiante - da grande giallista.
L’anima più tradizionale del “noir” sopravvive, per contro, in un romanzo come “Bastardi” (SEM), di Malcolm Mackay, un giovane autore originario delle isole Ebridi esterne. È la storia di Martin Sivok, un delinquentello dell’Est Europa che ha trovato, per così dire, “asilo politico”, nell’inquieta Glasgow. Naturalmente, quando sei straniero e criminale devi sempre guardarti alle spalle, e non sempre riesci a distinguere chi ti è veramente amico da chi finge di esserlo. È così che nelle primissime battute del romanzo Martin si trova legato a una sedia, coperto di sangue, e in attesa del nemico che gli darà il colpo di grazia. Forse. E nell’attesa, con un montaggio alla “Pulp Fiction”, rivive gli eventi che lo hanno portato all’ultima spiaggia. Forse. Senza nessuna concessione alla retorica, Mackay descrive nella sua quotidiana miseria la vita grama dei proletari del crimine, con la precisione di un entomologo e l’ironia di chi sa che qualunque giudizio morale suonerebbe vuoto e retorico. Ma se Glasgow è la città dei “duri”, violenza e turpitudini non mancano nella sofisticata Edimburgo (per gli scozzesi l’antagonismo fra queste due città è come il derby Roma-Milano).
È qui che Ian Rankin ambienta “Piuttosto il diavolo” (Longanesi), l’ennesima avventura di John Rebus e del suo delfino riluttante Malcolm Fox. Rankin, un autentico titano del poliziesco, riesce nell’impresa, per niente scontata, di coniugare tradizione e modernità: c’è un vecchio delitto irrisolto, c’è un giovane boss che scalpita e un vecchio boss che si danna l’anima per sfuggire alla rottamazione.
E se tutto questo è tradizione, a ricordarci in che razza di epoca ci troviamo a vivere ci sono i “piccioli”. Il malloppo. Motore unico e primo dell’avidità criminale. Ma dove un tempo il tesoro era fatto di moneta sonante, ora l’osso che aizza la muta selvaggia è intessuto di transazioni su conti fantasma e abita uffici anonimi di venti metri quadrati in lussureggianti paradisi fiscali. E fra il gangster sanguinario e l’account in grisaglia non corre alcuna differenza. E c’è, naturalmente, John Rebus. «Sei un vecchio bastardo ostinato, e preferiresti andare sotto terra piuttosto che mostrare un punto debole nella corazza che insisti a indossare ogni mattina». Così gli dice la sua ultima fiamma. Lui le scocca un tenero bacetto sulla guancia, promette che cambierà, ci prova pure. Ma noi lettori speriamo che non ci riesca. Che resti per sempre bastardo, ostinato. E dalla parte giusta.