L’Espresso è tornato nelle campagne del ragusano, dove due anni fa aveva scoperto le condizioni di vita terribili di centinaia di donne dell'est impiegate nell'agricoltura. E la realtà, se possibile, è peggiorata

«Se il fenomeno non esiste, allora molti bambini sono nati per opera dello Spirito Santo...». Don Beniamino Sacco è il parroco che per primo parlò dello sfruttamento sessuale delle romene nelle campagne del ragusano. Oggi risponde con questa amara battuta a quelli che ancora negano.

Due anni fa L’Espresso denunciò quell’orrore. Intervennero i governi di Romania e Italia. La commissione per i Diritti umani del Senato avviò un’indagine conoscitiva. Dieci deputati presentarono due diverse interrogazioni parlamentari. La Prefettura convocò Procura, sindaci e forze dell’ordine. Seguirono retate, tavoli di lavoro e convegni istituzionali. Tutti presero impegni solenni.

Siamo tornati a Vittoria, in provincia di Ragusa. E abbiamo trovato una realtà se possibile peggiorata. «Chi ha sbagliato deve pagare», ci dice il nuovo sindaco, Giovanni Moscato. Ma ribadisce che «non ci sono denunce».
«Se pretendiamo di valutare la gravità del fenomeno dal numero delle denunce delle donne romene significa che abbiamo deciso di non aggredirlo. Nessuna di loro, in assenza di alternative lavorative e vivendo in una condizione di totale segregazione fisica e sociale, andrà coi suoi piedi a sporgere denuncia», spiega Alessandra Sciurba, ricercatrice universitaria.
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I dati dell’Asp di Ragusa sono angoscianti. Il numero di interruzioni di gravidanza di romene è spaventoso. Costante negli anni. Centoundici nel 2016, 119 nel 2015. Rappresentano il 19 per cento del totale della provincia. Il dato è enormemente superiore rispetto a quello delle italiane. Ed è sottostimato: c’è chi ricorre a metodi artigianali, chi torna in Romania ad abortire. Numeri che sono la spia di un’emergenza mai finita.

I “festini agricoli” anche su Facebook
«Alla prima marcia antimafia, trent’anni fa, eravamo io e il mio cane. All’ultima c’era tutto il quartiere», racconta don Beniamino. Siamo nel rione Forcone di Vittoria, cubi di cemento e mattoni forati: la storica roccaforte della criminalità locale. La sua parrocchia è un simbolo di resistenza. All’improvviso, però, confessa di essere stanco. Stanco di sentirsi dire «chi te lo fa fare», di ascoltare che «le romene se la vanno a cercare». Oggi il territorio si è chiuso a riccio. «Senza generalizzare, ci sono frange della nostra realtà economica dove tutto è consentito», spiega. C’è ancora chi nega i “festini agricoli”. Ormai le foto si trovano su Facebook.
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Tra teli di plastica e rifiuti tossici sono nate inquietanti discoteche romene in piena campagna. Le immagini mostrano donne seminude e improbabili dj che vengono dall’Est. Poi ci sono i festini dei padroni locali. «Si riuniscono più persone, si mangia, si beve, si fa del sesso», spiega don Beniamino. «La donna di turno deve fare buon viso a cattivo gioco. Tante romene sono lavoratrici con alle spalle situazioni difficili, spesso devono mantenere i figli in Italia o in Romania. Ma la promessa di dieci euro in più diventa una mortificazione».

«Ho visto donne che in una prima fase sono estremamente consapevoli dell’ingiustizia che stanno subendo», dice la ricercatrice Sciurba. «È una decisione che mai nessuna donna dovrebbe essere costretta a prendere: annullare sé stessa per dare un futuro ai figli. In una seconda fase subentra spesso una sorta di adattamento alla brutalità».

«I romeni sono tanti ma non sono una vera comunità», spiega don Beniamino. «Non hanno punti di riferimento o luoghi d’incontro».

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Anche il sindacato parla del deterioramento all’interno della comunità romena: «Abbiamo segnali preoccupanti. Sta crescendo un caporalato degli alloggi, dei trasporti e dell’intermediazione lavorativa usato anche da grandi aziende», denuncia Peppe Scifo della Cgil.

Omertà trasversale
Sabato pomeriggio il piazzale dei supermercati si riempie di donne che dalle campagne vanno a comprare tutto il necessario per la settimana. Con passaggi di fortuna o pagando un tassista improvvisato, escono dall’isolamento. Per qualche ora.

Anche la Caritas racconta la segregazione vissuta dai lavoratori delle campagne: «Vivono in baracche, garage, magazzini per gli attrezzi e vecchie gabbie adattate ad abitazione, coperte di plastica o eternit. La presenza umana è rivelata solo dai fili per stendere il bucato o dalle antenne satellitari». Sono case messe loro a disposizione all’interno delle proprietà agricole. Vivendo lì, si fa anche vigilanza notturna. Un’altra prestazione lavorativa con beffa: l’affitto viene detratto dal salario.
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«Ci sarà un’esplosione», profetizza Don Beniamino. Si riferisce al contrasto tra la violenza diffusa sul territorio e il silenzio delle comunità. In poche settimane, da febbraio in poi, tutti sono stati colpiti: romeni, tunisini, italiani. Lo scorso febbraio fiamme alte annunciavano l’incendio di quattro tir nei pressi del mercato ortofrutticolo. È il più grande del Meridione e quindi anche al centro degli appetiti mafiosi, specialmente per quanto riguarda trasporti e imballaggi. Poteva finire in tragedia. Dentro un camion c’era l’autista, che se l’è cavata con gravi ustioni. Ad aprile, in contrada Pozzo Bollente, hanno trovato un cadavere in una discarica col cranio fracassato. Era un tunisino ucciso da due lavoratori romeni. Le vittime avevano venduto autonomamente nove cassette di fagiolini per recuperare le giornate lavorative non pagate. Una violenta lite aveva risolto la questione, conclusa con un primo colpo di spranga di ferro alla testa e un secondo mortale. Sempre ad aprile, un capannone che produceva materiali di plastica per confezionare gli ortaggi è stato incendiato.

Questo clima di follia collettiva non ha risparmiato neppure la Caritas. Il centro di Marina di Acate, presidio a sostegno dei lavoratori, è stato vandalizzato all’inizio di marzo dopo una trasmissione radiofonica. Il tema? Le agromafie.

Una manciata di monete
Suleyman prende la bicicletta e torna verso il Cas (Centro di Accoglienza Straordinaria), una sigla ormai nota in Sicilia. È lì che sta nascendo un nuovo caporalato. Il Cas può essere un piccolo albergo, un posto per anziani, un casolare nel nulla. Qui i migranti attendono la risposta alla richiesta d’asilo che hanno presentato. I più fortunati aspettano un anno, chi presenta ricorso può doverne attendere anche quattro.
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In un centro sperduto nelle campagne incontriamo persone molto diverse tra loro. C’è chi è sopravvissuto al Mediterraneo, chi ha perso l’equilibrio mentale dopo le torture subite in Libia. Tutti vogliono mandare i soldi a casa. Nelle campagne si prende quello che offrono i caporali. I numeri non sono enormi - si parla di un centinaio di persone - e hanno abbassato ulteriormente il costo del lavoro. «Tanto hai da mangiare e da dormire», dicono i padroni. Se qualche anno fa i tunisini sindacalizzati prendevano cinquanta euro al giorno, oggi siamo arrivati a sette o dieci con gli africani in attesa d’asilo. A fine giornata, c’è gente pagata con una manciata di monete.

La speculazione selvaggia sui prezzi
«Purtroppo anche quelli che lavorano onestamente sono stati mortificati», dice don Beniamino. «Conosco chi ha subito blitz con trenta agenti. Senza che sia stato trovato niente». Abbiamo ascoltato anche la voce degli imprenditori ragusani. Non accettano generalizzazioni. Ribadiscono che la situazione è disperata. Aziende fallite, aste giudiziarie e code alla mensa parrocchiale.

Alcuni provano a competere con l’ipertecnologia. Serre idroponiche, cioè piante irrigate con una soluzione nutritiva e suolo sostituito con lana di roccia. Sostanze chimiche che irrorano le coltivazioni. Semi selezionati nei laboratori di genetica israeliani per inventare prodotti adatti al gusto del consumatore nordeuropeo (forma, colore, grado zuccherino).

Qualcuno punta a vendere un immaginario (il sole, il Mediterraneo, il buon vivere) e la qualità del prodotto. C’è un’impresa che per evidenziare la propria eticità e marcare la differenza scrive sul sito aziendale: «Abbiamo solo lavoratori italiani».

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Ma, dal sindaco all’ultimo produttore, tutti puntano il dito sulla differenza di prezzo tra la serra e il bancone del supermercato. «Negli ultimi anni il nostro prodotto è stato venduto a trenta o quaranta centesimi al chilo e nei banconi dei supermercati lo trovavamo anche a otto euro», denuncia Giovanni Moscato, peraltro anche lui vittima di intimidazioni. Eletto da pochi mesi, è un giovane avvocato proveniente da Fratelli d’Italia. È il primo sindaco anticomunista a Vittoria, già cuore rosso della Sicilia. Ha iniziato una piccola rivoluzione, imponendo il controllo degli accessi al mercato ortofrutticolo. Prima entrava chiunque. Moscato ci accoglie nel palazzo barocco del Municipio parlando degli enormi interessi che vanno dalle cooperative fino alla Lidl.

Ci sono vicende che sembrano dargli ragione. Nel 2012, l’imprenditore Maurizio Ciaculli ha scoperto una confezione di melanzane, probabilmente spagnole, sul bancone di un supermercato. Erano impacchettate col suo marchio, ma non erano prodotte dalla sua azienda. Meravigliato, ha denunciato la frode. Soltanto lo scorso febbraio si è tenuta un’udienza. Ma le minacce sono arrivate subito. Un’auto bruciata, biglietti intimidatori e un gatto morto davanti casa.