Lo Statuto dei Lavoratori è del 1970 e il famoso saggio di Daniel Bell, The coming of post-industrial Society è del 1973. Lo Statuto segna l’apice della lunga marcia industriale degli operai verso la conquista dei propri diritti, in una società centrata sulla fabbrica e sulla produzione in grandi serie di beni materiali. L’avvento della società postindustriale annunzia la nascita di un nuovo sistema mondiale, in cui i lavoratori intellettuali saranno la schiacciante maggioranza e il centro del sistema sarà occupato dalla produzione di beni immateriali come i servizi, le informazioni, i simboli, i valori e l’estetica.
Fino a quel momento l’attenzione degli economisti, dei sociologi, dei letterati persino fu tutta per la classe operaia con la quale molti intellettuali si sentivano “organici”. Unica eccezione, in Europa, era rappresentata dal sociologo francese Michel Crozier che nel 1956, con grande lungimiranza, aveva dedicato un saggio ai Piccoli funzionari al lavoro, nel 1963 ne aveva dedicato un altro al Fenomeno burocratico e nel 1965 ne aveva dedicato un altro ancora al Mondo degli impiegati d’ufficio.
Da noi in Italia la svolta non verrà dagli economisti, tuttora impantanati nei paradigmi industriali, né dai sociologi, troppo operaisti. Verrà dal cabaret, dai romanzi, dalla televisione e dal cinema.
I due programmi televisivi Quelli della domenica e Giandomenico Fracchia sono rispettivamente del 1968 e del 1975. I primi sei romanzi dedicati a Fantozzi si susseguono a mitraglia tra il 1971 e il 1994. Sempre del 1975 è il film Fantozzi. Con queste opere, tutte baciate da un successo travolgente, inizia la saga impietosa di un ceto piccolo borghese destinato a perdere smalto, prestigio e potere d’acquisto per le legnate delle direzioni aziendali, per la concorrenza delle nuove tecnologie e per i mutui insoluti.
Un ceto impiegatizio che non si è mai data una solida struttura di classe, che non ha mai ingaggiato lotte collettive e che ha preferito affidare a ogni impiegato, preso isolatamente, il ruolo di antagonista solitario, e perciò sconfitto in partenza, di un datore di lavoro strapotente. Un ceto abbandonato a se stesso dai partiti, strumentalizzato dai sindacati, snobbato dagli intellettuali, che vagherà da ideologia a ideologia prima di planare nel populismo e arenarsi nell’astensionismo.
Paolo Villaggio è il primo - e resta l’unico per genialità creativa - a puntare la sua lente d’ingrandimento, ustoria e deformante, su questo aggregato informe di piccoloborghesi. Ne crea alcuni prototipi degni della commedia dell’arte: Fantozzi, la signora Pina, la figlia Mariangela, il collega ragionier Filini, la signorina Silvani il geometra Calboni, il Megadirettore Galattico, il professor Kranz. Ne coglie i risvolti tragicomici proprio nella fase storica in cui questo ceto si andava decomponendo fino a diventare poltiglia.
Abituati per anni a partecipare, sia pure marginalmente, ai privilegi della Borghesia con la B maiuscola, illusoriamente identificati con una presunta classe dirigente, inclini a dire “noi” quando parlavano dell’azienda o del ministero in cui lavoravano, questi impiegatucci erano talmente alienati da sentirsi superiori alla classe operaia proprio mentre questa saliva ed essi scendevano di rango.
Paolo Villaggio sovrappone una volta per tutte all’icona di Charlie Chaplin ingoiato dalla catena di montaggio metalmeccanica in Tempi moderni (1936), l’icona di Fantozzi - “il prototipo del tapino, ovvero la quintessenza della nullità” - ingoiato, annichilito, umiliato, ridicolizzato dalla catena di montaggio burocratica. Poi, schizzato il modello, lo mette via via a fuoco, tra il 1975 e il 1999, con dieci film in cui la parabola fantozziana è ricostruita puntualmente, seguendo il nostro derelitto nelle singole vicissitudini aziendali, fino al pensionamento e alla clonazione.
Tra il 1968 e il 1985 a Fantozzi si affianca Fracchia, ancora più piccolo borghese e sfigato, ammesso che sia possibile. Per quanto Fantozzi è sposato, per tanto Fracchia è single. In comune hanno la jattura di classe di appartenenza, la gerarchia aziendale che cinicamente li schiaccia e la simpatia umana che riescono a destare in chi, illudendosi di poterne ridere, in realtà ne condivide le sventure.
Villaggio, dunque, è l’Omero casereccio di una guerra impiegatizia in cui ognuno, appena conquista una briciola di potere, si sente come un leone legittimato ad azzannare gazzelle. Una guerra stupida perché, nella gerarchia aziendale, ognuno è capo di qualche dipendente ed è dipendente di qualche capo, costretto dunque a scindersi, a sdoppiarsi, a diventare schizofrenico giocando a rimpiattino con se stesso, aizzando il leone prepotente che si porta dentro affinché insegua la gazzella inerme che pure dentro si porta.
Il palcoscenico in cui tutto questo è rappresentato si compone di sedi aziendali in vetrocemento, nude e seriali come penitenziari predisposti per sorvegliare e punire, dislocate in zone sempre più periferiche e desertificate. In questi acquari razionalisti, dirigenti-squali e dipendenti-trote nuotano per dieci ore al giorno, fingendosi indaffaratissimi, scorticandosi l’un l’altro e galleggiando nella noia delle riunioni inutili.
Intorno a loro, tre cerchi concentrici. Quello più esterno è costituito dal paesaggio: vedute panoramiche su autostrade puzzolenti o su pianure nebbiose dove filari dritti di alberi crescono in batteria come i cipressi e le tombe di Redipuglia. Il cerchio più interno è costituito dall’edificio tardo-razionalista dove è severamente vietato l’ingresso ai non addetti ai lavori e dove il rituale per entrare e per uscire evoca i picchetti di guardia alle caserme. Il cerchio più interno di tutti è l’ufficio vero e proprio: una stanza dalle pareti mobili che ogni giorno si restringono in base all’affollamento, o un open space brulicante di impiegati che si tolgono a vicenda la solitudine senza darsi la compagnia.
Tutto in serie, tutto scontato, tutto al maschile, tutto spersonalizzato. Tranne qualche segreteria traboccante di piante grasse, tappezzata di manifesti pop, di cartoline postali ricevute dalle colleghe in viaggio di nozze alle Maldive, di scritte che parlano di leoni e di gazzelle.
Paolo Villaggio ha turbato per qualche anno la pace di questa allucinata fauna impiegatizia, denunziandone perversione e disperazione. Ora, profittando della sua scomparsa, i tanti Fantozzi e i tanti Fracchia ripiegheranno in pace su se stessi ruminando la propria degradazione, mentre il Megadirettore Galattico continuerà a terrorizzarli, spadroneggiando nella Megaditta.