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Cultura
luglio, 2017

«Il mio fantastico ha bisogno delle borgate»

“Jeeg Robot”. “Indivisibili”. “L’ora legale”.  E ora cinque film in arrivo. Il pluripremiato Nicola Guaglianone racconta a l’Espresso i suoi segreti: «Le periferie sono mondi saturi di istinti e passioni, l'ambientazione ideale per rendere veri i miei personaggi»

Cinque film in preparazione (per la regia di Carlo Verdone, Gabriele Mainetti, Michele Soavi, Massimiliano Bruno, Alessandro Capitani). Una serie internazionale per Wildside di cui sarà “headwriter”, un film d’ animazione in 3D in uscita (“Uccelli criminali”: «Pappagalli contro Piccioni a Roma: si affrontano come due bande di quartiere»). E pochi giorni fa, a Taormina, il Nastro d’Argento per il migliore soggetto (“Indivisibili”) e una pioggia di premi agli altri “suoi” film.

Fino a poco più di un anno fa in pochi, anche nell’ambiente del cinema, sapevano chi fosse Nicola Guaglianone. Poi, il successo di “Lo chiamavano Jeeg Robot” alla Festa del Cinema e in sala, l’ottima accoglienza di “Indivisibili” di Edoardo De Angelis - dalle Giornate degli autori a Venezia, alla proliferazione di nomination ai David al record di Nastri d’Argento - e il successo de “L’ ora legale” di Ficarra & Picone (Nastro d’Argento come miglior commedia), hanno attirato l’attenzione. Spingendo operatori e appassionati a chiedersi chi ci fosse dietro quella capacità di racconto che spiava la nascita di un supereroe a Tor Bella Monaca, l’avventura di due gemelle siamesi dal canto ipnotico a Castel Volturno o dietro il gusto di mostrare la natura profonda e grottesca delle scelte politiche di un piccolo centro come nel film di Ficarra & Picone.

C’era lui. Insieme agli autori dei film: «La prima cosa che uno sceneggiatore deve capire è che l’autore del film è il regista: lavoriamo al servizio del sogno di qualcun’ altro». In questa intervista però, si scopre quanto possa essere decisivo, per il mercato e per se stessi, il talento di chi possieda sogni tali da «portare un po’ di nuova immaginazione nel cinema italiano». Guaglianone ha studiato a Los Angeles e le sue sceneggiature preferite sembrano pescare nella scrittura hollywoodiana, da “Hannah e le sue sorelle” di Woody Allen a “In the soup” di Alexander Rockwell: «Il cinema americano di quegli anni, fino a Tarantino, ci ha ricordato che nella vita si parla un sacco e da allora è stato possibile farlo anche nei film». Anche se il suo vero mentore, con il quale ha studiato a lungo, è Leo Benvenuti, che insieme a Piero De Bernardi ha messo le mani nel miglior cinema di intrattenimento italiano, da Germi a Fantozzi a Verdone.
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Ma soprattutto Guaglianone ha lavorato da solo, in quella speciale camera di compressione in cui la passione totalitaria dello spettatore si trasforma nel desiderio di continuare lo storytelling dall’ altra parte dello schermo. Ore interminabili di fronte a una tv, in una sala, distesi su un letto con un libro o un fumetto o un computer in mano.

È vero che ha scalettato tutto “Friends”?
«Sì, mi sono trascritto ogni scena. Personaggi e battute».

Ma perché uno che vuole scrivere per il cinema e la tv fa una cosa del genere? Va bene che è la serie di maggior popolarità della fine degli anni ‘90: ma sono dieci stagioni, 236 episodi...
«Volevo capire come funzionava la sit com. Che racconta meglio di qualsiasi altra cosa come cambia la società americana, il rapporto con la famiglia, lo spirito dell’ epoca di Reagan o Clinton».

E cosa ha imparato?
«Ho capito che la metà dell’episodio è il punto più lontano dalla soluzione. Ho capito come si rompe l’equilibrio di un personaggio e come, a fine puntata, si ricompone. E che non esistono battute comiche: in “Friends” nessuno fa battute comiche, ma lo diventano nella situazione».

Il suo maestro, Benvenuti, diceva che, dalla fine degli anni ‘70, gli sceneggiatori in Italia sono serviti soprattutto a sceneggiare contratti: nel senso che avere un attore di richiamo era diventato molto più importante che avere un buon copione. È cambiato qualcosa?
«È un po’ una battaglia. La difficoltà principale nel far capire “Jeeg Robot” ai produttori, è stato cercare di spiegare che non si trattava di mettere a Roma un attore nelle vesti di un samurai giapponese con la spada. C’era una proposta nuova di stile di racconto, innanzitutto. Puoi usare personaggi di universi del fantastico o della fantascienza ma il contesto, il campo emotivo in cui sui muovono, deve essere assolutamente credibile. Per questo ho spesso bisogno di borgate o periferie: come Castel Volturno per “Indivisibili” e Tor Bella Monaca per “Jeeg Robot”. Ci sono posti che offrono più verità o realtà di quelli? Mondi saturi di istinti, passioni, voglia di comunicare. Perché, altrimenti, i graffitari nascono proprio nelle borgate?»

Nella mia esperienza, però, chi parla come lei prima o poi finisce a fare il regista. Non si accontenta di scrivere copioni per altri.
«Io scrivo anche per me stesso. Ho un libro in preparazione per Mondadori e una graphic novel cui tengo molto. È un’idea che ha sorpreso innanzitutto me. Però non la scriva...»

Tranquillo.
«È una storia di Zombie ambientata a Roma: non ha idea da quali monumenti e vestigia i morti viventi usciranno fuori ad aggredire i passanti. È una delle tecniche di costruzione della narrazione che più amo e che ritengo più efficaci. Usare i cliché, situazioni note e abusate, in contesti inediti».

Mi sembra di capire che farsi sorprendere da una storia sia una condizione fondamentale della sua creatività.
«Lo stupore e l’innocenza, la capacità di meravigliarsi e la curiosità di scoprire, sono i segni primari di un autore. Faccio un altro esempio. Ora sto scrivendo con Carlo Verdone che, lo sappiamo, è un’icona. Ma lui spesso non sembra esserne consapevole. Mi dice: “Sei un pazzo, sai tutte le battute dei miei film a memoria”. “Carlo, gli rispondo, ci sono tre generazioni di persone come me”».

Cosa ha capito del successo che sta vivendo adesso?
«È naturale, un po’ mi spaventa. Hai improvvisamente così poco tempo che cerchi di selezionare l’ attenzione e la frequentazione degli altri. È capitato spessissimo ultimamente di sentirmi dire: “Non ci vediamo mai”. È difficile far accettare l’idea che, siccome sto scrivendo tre film, se ho un’ora libera sto con mia moglie o con quegli amici cui sono molto legato, come ne hanno tutti. E poi è proprio adesso che sembra esserci una certa apertura per cercare di lavorare su un immaginario diverso da quello che siamo abituati a vedere. Sono tutte storie pensate innanzitutto con un grande rispetto nei confronti del pubblico».

Non è mai facile, però, capire cosa voglia
«Vede, io sono uno spettatore molto banale. Posso annoiarmi molto facilmente. Quando scrivo, ciò cui lavoro deve essere qualcosa che innanzitutto non annoia me. E poi viviamo in un momento molto particolare. La diffusione delle serie ci ha abituato a una soglia molto alta, direi letteraria, del racconto cinematografico. Noi siamo abituati alla fiction italiana dove il livello di massima problematicità delle tematiche fino all’altri ieri era l’adulterio: le serie americane, dai Sopranos in poi, hanno mostrato un’abilità sorprendente nell’individuare conflitti che riguardano tutti anche se accadono nella vita di un boss».

È una complessità e una forza narrativa che le serie italiane non possiedono, tranne significative eccezioni.
«Una volta scrivendo una serie ho litigato con un’attrice perché non voleva dire in una battuta la parola “ciclo”, nel senso di mestruazioni. Per vendetta ho moltiplicato la parola “ciclo”, nella sue battute, in qualsiasi altro contesto: il ciclo della vita, il ciclo dell’ economia, il ciclo della spazzatura, ecc. Da una parte il pubblico si è stancato delle commedie, che hanno incassi agghiaccianti e conflitti elementari: lui fa il commercialista, ha la pancia, si alza la mattina, fa due flessioni e vuole cambiare vita e donna... Dall’altra c’è un cinema d’autore completamente distaccato dal pubblico, che vive dello snobismo di chi si ritiene superiore: siete voi, spettatori, che dovete venire appresso a me e non io che mi devo abbassare alla vostra altezza. Sono i film dove c’è lei in motorino senza casco con fabbriche dismesse sullo sfondo e dove, indipendentemente dalla trama o dalla location, a un certo punto si finisce in spiaggia a fare un bagno, dove si mangia in cucina, con le facce contrite, illuminati da luci al neon e dove dei genitori, incazzati, mangiano e poi spengono la cicca tra un rigatone ed una fetta di anguria. Film che si sono fatti non perché ci fosse una sceneggiatura ma perché si sono trovati i soldi per farlo. Quando poi il film va male c’ è un autore che dice “il film non è stato protetto”. Io mi sento molto distante da quel mondo. Non ho mai detto “ho scritto questa storia perché avevo la necessità di raccontarla”».

Però la legge della domanda e dell’offerta sembra darle ora molta libertà.
«Sto cercando di usare questo momento favorevole per mettere la scrittura al centro del processo produttivo. Ora ho l’attenzione necessaria per dire ad un produttore: questo copione ti interessa? Bene. Però, voglio essere coinvolto nella scelta di regista, attori, ecc. Ho aperto anche una mia società. Al primo posto per me ci sono i progetti per i quali questa società riuscirà a conservare una parte dei diritti. Le sembra possibile che noi sceneggiatori al momento dell’ingaggio cediamo il 100% di ogni diritto da sfruttare su qualsiasi nuovo territorio, compresi nuovi pianeti scoperti?»

Qual è la cosa più difficile, quando scrive un film?
«Ho imparato, scrivendo, che non esiste il blocco dello scrittore. Se non riesci a scrivere è per mancanza di informazioni o per paura. Non conosci il personaggio e noi sai come farlo parlare. Io lavoro molto sulla struttura, in tre atti, che descrive un processo di trasformazione del personaggio».

Diciamo lo schema di maggior successo da Aristotele a un maestro di sceneggiatura come Syd Field
«Esattamente. E soprattutto lavoro sulla punteggiatura emotiva dei personaggi. In ogni film metto almeno quattro o cinque prove o sfide che il personaggio deve affrontare e che possono riguardare anche cose molto ordinarie: il mangiare, il fumare, il rapporto con gli oggetti».

E se poi mentre scrive scopre che il personaggio non ce la può fare a superare quella prova?
«Ogni film racconta la storia di una lotta: tra la spinta al cambiamento e la resistenza ad esso. E si può vincere anche se si perde. Come Rocky, nel primo film: perde l’incontro ma guadagna la stima di se stesso. Che sceneggiatura!».

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