Due estratti da “Bellissime. Baby miss, giovani modelli e aspiranti lolite” di Flavia Piccinni 

Bambine costrette per estenuanti ore sul set. Senza acqua. Senza genitori. Senza poter fare pause. Compensi irrisori. Make up in grado di trasformare in donne adulte piccole di cinque, sei, sette anni. Casting snervanti. Concorsi di bellezza fra minigonne e rossetti. Per la prima volta, il mondo delle baby miss e delle piccole modelle italiane viene svelato da un reportage: non solo il glamour, ma anche quello che dietro i brillantini si nasconde. Questo è Bellissime di Flavia Piccinni. Mini modelle in passerella a Pitti Bimbo, l’appuntamento più importante al mondo per la moda bambino. Piccoli attori in attesa del ciak. E poi riviste patinate, cataloghi e pubblicità. Eccone due estratti

Le bambine belle sono più felici (pp. 53-55)

La bimba cammina sicura, arriva alla fine della passerella, fa una piroetta. Il presentatore si avvicina, le posa sulla testolina piena di lacca una coroncina, il padre è livido, il sorriso congelato, lo sguardo fisso come di un trionfo. Il primo trionfo di un’intera vita. La bambina si chiama Elisa, vive in Sicilia, ha sei anni, frequenta la prima elementare, legge a malapena e fa danza moderna. Ha iniziato con i concorsi per gioco, nella provincia intorno a Palermo, perché lo facevano le sue compagne di classe “e volevo farlo anche io”. Mi dice di essere molto felice. Di non essere mai stata tanto felice in tutta la sua vita.

“Sono felice – precisa, con una voce sicura – perché ho vinto. I concorsi sono belli. C’è la gente che ti guarda, ci sono i fotografi, ti metti dei bei vestiti. E poi papà è contento.”

La mamma non la menziona, perché la mamma non ce l’ha più. Ci sono però le zie, la nonna, le cugine. E tutte applaudono. E tutte sono entusiaste. E tutte sono fiere. Elisa ha un corpicino piccolo. È minuta. Magra, molto magra. Indossa un attillato body turchese, che termina con una grande gonna di tulle; mi ricorda vagamente la mise indossata da Sarah Jessica Parker nella sigla di Sex&TheCity. “Me l’ha scelto zia Sabri”, mi spiega, puntando con l’indice una ventenne tubino nero, cofana di capelli, orecchini di perle e tacchi a spillo. “Qui è anche molto bello perché ti mettono il lucidalabbra”, continua, piccola e raggiante. Quando le domando se pensava di vincere è titubante. Mette un poco il collo indietro, scosta le spalle, a prendere le distanze. “Non volevo fare progetti, perché si sa come vanno queste cose. Io non conosco nessuno, dunque non lo sapevo se ci riuscivo a vincere.”

Le chiedo allora se si considera bella, e lei non ha dubbi: “Certo”, risponde, sfogliandosi con le dita i capelli lucidi. E quando le chiedo come si sente, a considerarsi bella, non esita nemmeno un secondo: “Mi sento bene”. Che cosa voglia dire, sentirsi bene, per una bambina di sei anni non ho il coraggio di domandarlo. Ma lei me lo dice da sola. Lei ha sei anni, ma è una bambina adulta. Ha un’espressione da grande, non da pre-adolescente, o da adolescente. Ma proprio da donna. Mi piacerebbe sapere chi gliel’ha insegnata. Vorrei capire come ha fatto, così piccola, a crescere talmente in fretta. Desidererei scoprire che cosa voglia dire portarla sul viso ogni giorno – a scuola, a casa, al catechismo, al parco giochi – quell’espressione lì. “Mi sento che gli altri mi guardano, e un po’ mi invidiano.” “E questo ti piace?”, insisto. “Mi piace perché se piaci agli altri è bello.” “E cosa succede, quando agli altri non piaci?” “Sai – mi spiega, stringendo le braccia minute al petto, prendendo un tono confidenziale – in classe mia siamo tanti bambini. Alcuni sono carini, ma poi ci sono quelli brutti. E quelli brutti nessuno li vuole come amici.” Mi appoggia la manina sul braccio, le sue dita sono calde e profumano di latte. “Perché?” “Perché i bambini brutti sono tristi.”

Mondo Pitti (pp. 105-107)

Improvvisamente, tutte le mamme diventano un’unica donna. Una sola donna che con occhio vigile segue la passerella per studiare i profili delle baby modelle in ideale competizione con le proprie figlie. I vestiti passano in secondo piano. Le donne mostrano eccitate i rispettivi pargoli puntando indici nel vuoto, e si concentrano su questi adulti in miniatura, su queste piccole donne che provano ad acchiappare le bolle di sapone create dal mago, che si mettono in fila, che fanno un cerchio con i volti luminosi che paiono estranei al mondo, i capelli perfettamente pettinati, e sono minuscole eppure gigantesche, con le loro movenze da grandi, l’aria incerta e ugualmente strafottente di chi è il protagonista; si presentano con disinvoltura davanti agli sguardi dei buyer e dei giornalisti, si fermano in fondo alla passerella in prossimità dei fotografi e sorridono spigliate. Potrebbe sembrare una recita di fine anno, ma c’è qualcosa nell’aria che stona. I passi sono titubanti, lo sguardo rivolto sempre dietro le quinte, verso chi deve confermare o smentire ciò che si sta facendo. Ad ammantare ogni passo c’è una travolgente ansia da prestazione, c’è paura, c’è orrore di commettere qualcosa in grado di rovinare tutto. Giovanna tiene l’inquadratura fissa sulla passerella.

Esamina il numero di visualizzazioni che il suo profilo sta raccogliendo; quando la figlia spunta in passerella – una bambina con i capelli scuri e lunghi, addosso un grazioso abito color nocciola e un bel berretto – muove un po’ la mano, “è lei, è lei” sussurra al microfono del telefonino. Intanto le piccole sono accalcate intorno a una specie di buco da cui fuoriescono i palloncini. Li prendono e li lanciano fra esaltazione e smania. Poi seguono il mago in platea: una meravigliosa bambina bionda, gli occhi trasparenti, la pelle sottile e bianchissima, si fa largo fra i tavolini indossando un meraviglioso abito e un vezzoso cappello; incanta il pubblico. Le innumerevoli polemiche – la mancanza dell’acqua e di pause, l’impossibilità di vedere i propri figli, il budget, gli ingressi limitati che hanno sfaldato la famiglia, consentendo a un solo genitore di assistere al trionfo della propria progenie – non contano più niente. Siamo tutte immerse – mentre i bambini si tengono per mano, sorridono, inclinano da una parte e dall’altra la testa, si rincorrono, fingono di inciampare, si rialzano e sorridono ancora, si lanciano grandi palloni – nell’illusione del divertimento. L’arte della gioia. La retorica dell’infanzia. L’artefatta, banale, magia di uno show che propone mondi sognanti e realtà fantastiche.

“Bambini vestiti da bambini” recita lo slogan de Il Gufo, e non riesco a togliermi dalla testa queste parole, che però evaporano davanti allo sfogo di una madre affranta: “L’hanno tenuta per tre giorni, e ha fatto solo un’uscita in passerella. Per tre giorni a Firenze avrò speso quattrocento euro. E per tre giorni di lavoro ne ho guadagnati solo sessanta. Netti. Non uno di più, non uno di meno”.