Ora, finché si tratta del rito laico dell’assemblea, celebrato il fatidico 31 maggio ?a Palazzo Koch, a Roma, tutto va bene. Il governatore della Banca d’Italia legge ?le sue “Considerazioni finali” agitando cifre e percentuali come fruste; banchieri, economisti e imprenditori plaudono al rigore dell’istituzione indipendente, evviva evviva; chi si agita dall’opposizione trova argomenti robusti per continuare ?nelle sue vane reprimende; e chi sta al governo fa buon viso a cattivo gioco pensando di aver ascoltato l’ennesima “predica inutile”, come già sessant’anni ?fa le chiamava Luigi Einaudi.
Poi però ogni volta, svuotati i saloni, il grande gioco ricomincia e tra Banca e Politica torna ad accendersi una guerra sottile. È così da sempre. Quest’anno, poi, non mancano elementi di maggior nervosismo: nell’anno decimo della Grande Crisi, ?il sistema del credito ha mostrato falle inattese e Matteo Renzi, ieri premier e ora leader del Pd, accusa chi doveva vigilare e prevenire, cioè la Banca d’Italia, di non averlo fatto. Il tormentone va avanti da tempo, solo che tra pochi mesi scade ?il mandato di Ignazio Visco… E così, il 31 maggio scorso, la tensione ha avuto ?anche una rappresentazione simbolica: il direttore generale del Tesoro non era stato messo a sedere, come da tradizione, accanto al Governatore, ma platealmente defilato, quasi a voler marcare la distanza tra Banca e Governo. In prima fila, ?invece, sedeva Mario Draghi, a suggello di continuità istituzionale, prestigio internazionale, autonomia.
E in più c’è stato il colpo di scena. Visco, abbandonate per qualche minuto le “Considerazioni”, ha voluto leggere un testo tutto suo per difendersi dalle critiche ?e ricordare che la Banca arriva dove può perché non dispone certo dei poteri della magistratura: «La Banca d’Italia è stata criticata. A volte con toni aspri, spesso con imprecisioni gravi. È stata accusata di non aver capito quello che stava succedendo in alcune banche, o di essere intervenuta tardi. Posso assicurare che l’impegno del Direttorio è stato massimo». Qualcosa di simile era successo solo un’altra volta, ?nel 1979, quando il governatore Paolo Baffi, nella stessa circostanza, dalla stessa tribuna, aveva estratto dalla tasca qualche foglio e risposto all’attacco sferrato al vertice dell’Istituto: «Ai detrattori della Banca auguro che nel morso della coscienza trovino riscatto dal male che hanno compiuto alimentando una campagna di stampa intessuta di argomenti falsi o tendenziosi e mossa da qualche oscuro disegno».
Il 24 marzo di quell’anno i carabinieri erano entrati a Palazzo Koch, avevano arrestato il direttore generale Mario Sarcinelli e ritirato il passaporto a Paolo Baffi, troppo anziano per subire l’onta del carcere. Il capo di imputazione riguardava i crediti concessi a Nino Rovelli dall’Imi e sui quali Baffi e Sarcinelli non avrebbero vigilato, ma trovava alimento in un contesto politico da tempo ostile ai vertici di via Nazionale. Ai quali non si perdonava di essersi opposti al salvataggio del sistema Sindona, esplicitamente sollecitato a Sarcinelli pure da Franco Evangelisti, braccio destro del presidente del Consiglio Giulio Andreotti; di aver cominciato a ficcare ?il naso nell’Ambrosiano di Roberto Calvi e di aver sciolto il consiglio di amministrazione dell’Italcasse, concentrato di affari e politica. Tre potentati finanziari legati alla Dc e allo Ior, la banca del Vaticano. Pochi mesi dopo, ?il governatore si era dimesso perché la banca non finisse nel tritacarne. ?Due anni dopo sarà assolto, come Sarcinelli.
Giorni drammatici. Ma da che esiste, la Banca si è sempre dovuta difendere ?da ingerenze più o meno pesanti. Guido Carli, per esempio, pattinava tra ministri ?del Tesoro e grand commis: memorabili gli scontri, alternati ad apparenti grandi intese, con Emilio Colombo e Ferdinando Ventriglia; e ancora sconosciute le ragioni delle sue dimissioni dopo quindici anni in cui aveva tuonato contro le arciconfraternite del potere. Anche Ciampi, che sostituì Baffi dimissionario, si è dovuto misurare a più riprese con la politica: Bettino Craxi non lo amava; molti ne diffidavano per via del divorzio Tesoro-Banca d’Italia che aveva tolto alla politica un’arma formidabile di finanziamento della spesa pubblica; Andreotti gli aveva messo accanto come direttore generale un esterno, Lamberto Dini (al quale Ciampi ha sempre dato ostinatamente ?del lei e impedito poi di succedergli); la Lega di Bossi lo eleggerà a nemico numero uno prima perché la riforma Ciampi-Amato aveva strappato le Fondazioni bancarie (leggi: Cariplo) agli enti locali e poi accusandolo di aver bruciato riserve auree della Banca ?nella difesa della lira dalla formidabile speculazione del 1992.
Per Antonio Fazio, poi, è stato un inferno. A Giulio Tremonti, super ministro dell’Economia di Silvio Berlusconi, il successore di Ciampi non piaceva affatto, e poi ?i poteri della Banca erano di ostacolo alle smanie dirigiste del Tesoro. La scusa per colpirlo fu il crac della Parmalat, allegramente finanziata dalle banche senza che via Nazionale intervenisse, recitava il capo d’accusa; lo strumento fu invece la drastica riforma del 2005 che strappò alla Banca la vigilanza sulla concorrenza bancaria ?e sui prodotti finanziari, affidando l’una all’Antitrust e l’altra alla Consob, e cancellò ?il mandato a vita del governatore. Era come licenziare Fazio. Che infatti si dimise. Anni dopo sarà scagionato da ogni accusa. Tremonti ne approfittò per modificare anche ?i criteri di nomina del governatore e solo i dissidi in consiglio dei ministri impedirono che questa diventasse solo politica e di governo. Il complesso meccanismo adottato testimonia quel braccio di ferro, ma conferma anche la delicatezza della scelta: è ?il capo del governo ad avanzare la proposta, ma dopo aver consultato il Consiglio superiore della Banca d’Italia; è il consiglio dei ministri a deliberare, ma è il presidente della Repubblica a firmare infine il decreto di nomina o revoca del governatore.
Intendiamoci, il clima oggi non è certo quello di Baffi o Fazio, e neppure di Carli e Ciampi: dal 2005 la Banca d’Italia non è più la stessa, molte funzioni di vigilanza, architrave del potere di controllo sul sistema del credito, sono divise con la Bce ?o con altre Authority; certe vicende può risolverle solo un pm; e la moral suasion del governatore, che ieri benediceva o bocciava fusioni e scalate, oggi ha meno presa per le resistenze degli azionisti o di cacicchi di periferia. Eppure la tentazione di fare della Banca un autorevole ufficio studi è sempre viva. Le circostanze in cui questa voglia riemerge alimentano i cattivi pensieri: Visco è in scadenza a ottobre, proprio quando potrebbe avviare i suoi lavori la commissione bicamerale chiamata a indagare sul default Etruria-Marche-Ferrara-Chieti e destinata a spargere veleni per mesi; ma dovrebbero anche convincere tutti a evitare colpi di mano: in autunno bisognerà mettere mano a una manovra di bilancio che si preannuncia durissima, e in più saremo nel pieno di una campagna tiratissima in vista di elezioni che probabilmente non proclameranno un vincitore assoluto. L’Italia non è (ancora) un paese normale.
Anche per questa ragione il presidente Mattarella ha steso intorno a Visco una robusta rete di protezione, d’accordo in questo con Paolo Gentiloni e Pier Carlo Padoan. Pare che anche Renzi se ne stia facendo una ragione e che avrebbe rinunciato alla battaglia per imporre Marco Fortis, suo consulente, consigliere d’amministrazione Rai, analista poco gufo, economista estraneo al sistema Banca d’Italia. Dove stavolta sarebbero tutti pronti a fare le barricate. Così si dice. Non mi meraviglierei.
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