Il congolese più letto ?in Francia e Stati Uniti. ?La nigeriana icona ?del femminismo. Ecco ?le star di un trend che scopre un continente

La bella romanziera, autrice di un esordio fortunato, che alterna post dei suoi viaggi su Instagram a editoriali sui grandi quotidiani. L'acuto saggista, strenuo oppositore degli stereotipi razziali, che fa outing sulla propria omosessualità pubblicando sul giornale il capitolo “perduto” del suo memoir. La femminista elegantissima, dal talento letterario strepitoso, che in un discorso pubblico consegna al mondo una lezione su come educare le bambine. Il cavaliere della Legion d’onore che nei suoi libri tesse e ritesse citazioni del suo pantheon letterario, da Céline a Cervantes. Potrebbe essere la fotografia di una serata in un salotto di Londra o New York, invece è una delle tante istantanee che si ottengono cercando di mettere a fuoco il panorama della letteratura africana contemporanea.

Sebbene molti di questi scrittori e scrittrici oggi vivano in Occidente e siano i beniamini di critici e festival letterari, rispetto ai colleghi europei e statunitensi rischiano di restare in ombra: i lettori non li conoscono abbastanza e le vendite raramente portano grandi numeri. Era vero negli anni ’80 e ’90, ai tempi di collane pionieristiche come quella delle edizioni Lavoro curata da Itala Vivan, o quando Sandro Ferri e Sandra Ozzola, alla guida delle edizioni E/O, pubblicavano testi cult come “Vita a spirale” del senegalese Abasse Ndione. Ed è vero oggi, nonostante nuove case editrici puntino con intelligenza su questi temi. Le eccezioni sono poche, in Italia pochissime. Qualche segnale fa ben sperare: “Adua”, l’ultimo romanzo di Igiaba Scego, scrittrice italiana di origine somala, tradotto in varie lingue, è stato segnalato dal britannico Guardian tra le letture estive. Eppure queste scritture ci servono. Perché ci riconsegnano la complessità di un continente che il linguaggio comune schiaccia sulla triade migrazioni, povertà, caos. E perché questi autori ci regalano un piacere della lettura che la narrativa anglosassone con le sue omologazioni talvolta annacqua e svilisce. Come racconta chi se ne è innamorato e ha deciso di tradurli e di pubblicarli.
Letteratura
Omar Hamilton: "L'Africa, ancora prigioniera dell'Occidente"
12/9/2017

Non solo sbarchi

«A lungo la conoscenza dell’Africa è stata intrisa di un immaginario coloniale. Quello del romanzo “La mia Africa” di Karen Blixen e del film che ne fu tratto con Robert Redford e Meryl Streep. Oggi a questa fantasia si sostituiscono le immagini degli sbarchi. Anche la produzione libraria ruota intorno alle testimonianze dell’esperienza migratoria. Noi cerchiamo autori che raccontino il resto: i cambiamenti epocali delle nazioni africane, le contraddizioni ma anche la vitalità di queste culture. Con le nostre pubblicazioni vorrei togliere di mezzo l’opacità ambigua dell’Africa che fa piangere, dell’Africa disgraziata dove non si muoverà mai niente».

Isabella Ferretti è l’anima delle edizioni 66thand2nd e parlandole si intuisce quanto questo impegno la appassioni. In catalogo ha uno degli scrittori francofoni più interessanti degli ultimi decenni, Alain Mabanckou: giunto in Francia dal Congo Brazzaville per gli studi universitari, ha iniziato a scrivere una ventina d’anni fa; tra gli altri, ha vinto il premio Renaudot ed è stato insignito della Legion d’Onore. Vive in California dove insegna letteratura alla Ucla. È uno scrittore capace letterariamente di tutto: dalla sottigliezza psicologica di “Memorie di un porcospino”, dove il mito africano del nostro “doppio” animale si fa metafora del rapporto con il Male, al rovesciamento dickensiano di “Peperoncino”, protagonista un orfano di Pointe-Noire che incontra una generosa maîtresse chiamata Mamma Fiat, allo humour nero di “Black Bazar”. Coltissimo (si appassionò alla lettura leggendo i tascabili che il padre, portiere d’albergo, riceveva in regalo dai visitatori occidentali), Mabankou è un manipolatore della lingua francese che ama giocare con i classici.

Sul gioco delle citazioni si basa anche “Blackass” di A. Igoni Barrett (in uscita sempre per 66than2nd), sorta di metamorfosi kafkiana ambientata a Lagos: il protagonista è un giovane nigeriano che si risveglia bianco, con tutte le conseguenze del caso. Ed è proprio il pensiero sulla costruzione della blackness e della sua controparte, la whiteness, che unisce le scritture della diaspora nera e gli afroamericani. Da maestri come James Baldwin, il cui manoscritto inedito ha ispirato il documentario “I am not your negro”, alla poetessa Claudia Rankine, che per scardinare gli stereotipi ha creato il laboratorio multimediale The Racial Imaginary Institute. Un’opera di decostruzione portata avanti anche dai “classici” africani.

Soyinka e Achebe
Wole Soyinka

«Quando negli anni ’60 introdussi gli autori africani, i miei colleghi universitari mi dicevano: “Ti occupi di scrittori che non esistono”. Ovviamente esistevano eccome, ma nella percezione comune l’Africa che si liberava del colonialismo era solo una terra dove fare affari». Così racconta Itala Vivan, accademica e decana dello studio delle letterature del continente, cui si deve l’aver portato in Italia scrittori straordinari, in primis i nigeriani Wole Soyinka e Chinua Achebe. «Quando nel 1986 Soyinka vinse il Nobel, il nostro mondo culturale fu colto un po’ di sorpresa. Per chi non lo ha letto consiglio di iniziare dal suo teatro perché è un grandissimo drammaturgo. Di Achebe resta imprescindibile “Il crollo” del 1958, riedito con il titolo “Le cose crollano”: è il grande racconto dello shock della colonizzazione. Poi c’è “Sozaboy” di Ken Saro-Wiwa, tragico ma a tratti pieno di ironia. Anche oggi la Nigeria è tra i capofila dal punto di vista letterario, perché i nigeriani amano scrivere, leggere, discutere».

Altro paese di punta è il Sudafrica, che Itala Vivan ha frequentato per decenni: «La letteratura sudafricana possiede voci straordinarie. Penso al bellissimo “Storia di una fattoria africana” che Olive Schreiner scrisse nel 1883, penso a Nadine Gordimer e J. M. Coetzee e a molti nuovi talenti. Da tener d’occhio Yewande Omotoso: il suo “La donna della porta accanto”, sul rapporto tra due vicine di casa una bianca e una nera, uscirà da noi nel 2018». Achebe e Soyinka, che sarà ospite il 16 settembre di Pordenonelegge, sono oggetto di una riscoperta.

Come spiega Elisabetta Sgarbi, che guida La Nave di Teseo, «Achebe, e in particolare la sua trilogia di cui, dopo “Le cose crollano”, pubblicheremo il secondo volume tra poco, è ovunque nel mondo un classico. In Italia aveva cessato di essere disponibile. Abbiamo pensato che era il momento giusto per riproporla, con una traduzione d’autore, per testimoniare la forza di un classico del continente africano. Non solo per gli italiani, ma per chi in Italia è cresciuto, non essendo italiano, magari figlio o nipote di migranti, e vuole scoprire, o fare scoprire, le proprie radici». Di Soyinka invece la stessa casa editrice ha ripubblicato l’autobiografico “Sul far del giorno”, mentre Jaca Book riedita “Gli interpreti”. Come sottolinea ancora Vivan, Soyinka e Achebe sono maestri anche per l’uso straordinariamente creativo delle lingue europee: «Gli africani sono poliglotti. Parlano le lingue tribali e poi l’inglese, il francese o il portoghese. Si parte da qui per capirne le scritture: che ruolo ha il pidgin? Come è stata reinventata - mai imitata - la lingua dei colonizzatori?». Una domanda che ci porta a guardare alle nuove generazioni. Artisti e artiste che del meticciato hanno fatto tesoro , come l’angolano-portoghese José Eduardo Agualusa, che in “Teoria generale dell’oblio” riscrive in chiave magica la guerra d’indipendenza dell’Angola.

Chimamanda e le altre

Chimamanda Ngozi Adichie © Wani Olatunde
A cantare l’inevitabilità del melting pot, le sue gioie e i suoi dolori c’è un’avanguardia di autrici che hanno conquistato la ribalta. Come Chimamanda Ngozi Adichie, a cui il Festivaletteratura di Mantova ha dedicato un incontro intitolato nientemeno che “La principessa del mondo letterario”. Alle sue dichiarazioni femministe si è ispirata la pop star Beyoncé nella sua “Flawless”. Ma la nigeriana Chimamanda, pubblicata in Italia da Einaudi, è ben più di un’autrice di frasi a effetto: è una romanziera d’ampio respiro capace di passare dal racconto della guerra del Biafra in “Metà di un sole giallo” al ritratto di una giovane accademica in bilico tra Nigeria e Stati Uniti in “Americanah”. Anche altre scrittrici sanno parlare di intimità e sentimenti e insieme affrontare le questioni di un’identità multipla.

È stata la stessa Taiye Selasi, che ha esordito con “La bellezza delle cose fragili”, a coniare per se stessa la definizione di “afropolitan”, ovvero di africana cosmopolita che si riconosce in più mondi: cresciuta a Boston, è figlia di una dottoressa nigeriana e di un medico ghanese e il suo libro ripercorre la biografia familiare. Yaa Gyasi, di origine ghanese ma vissuta negli States, è andata indietro di sette generazioni per il suo “Non dimenticare chi sei”, pubblicato da Giunti, presentato anch’esso al Festivaletteratura. E poi c’è la nigeriana Ayobami Adebayo, il cui “Stay with me”, storia di un matrimonio infelice, è stato definito dalla temuta Michiko Kakutani in una delle ultime recensioni per New York Times «un debutto sbalorditivo e straziante, nel lignaggio dei grandi lavori di Achebe e Ngozi Adichie» per la capacità di esplorare «i nuovi imperativi della definizione del sé». Una volta trovato l’agente e l’editore giusto autori e autrici africani anglofoni possono contare sul mercato editoriale più forte del mondo, quello sull’asse Stati Uniti-Gran Bretagna. Ma è un meccanismo non senza rischi, perché può favorire le opere che rispondono ai nostri gusti e oscurare le voci non conformi.

Come scrivere dell’Africa

Su come scrivere del continente si interrogano in tanti: sottomettersi agli stereotipi o sfidarli? Restare in Africa, a rischio della propria carriera e talvolta persino della propria libertà, o andarsene? Tra le voci del dibattito spicca Binyavanga Wainaina, autore di un memoir che è un ritratto della storia kenyana recente, “Un giorno scriverò di questo posto” (66thand2nd) e del saggio satirico “How to write about Africa”, pubblicato sul britannico Granta e diventato virale in rete. Qui Wainaina si rivolge a un immaginario scrittore occidentale: «L’Africa deve essere compatita, adorata o dominata. Qualunque prospettiva tu scelga, sii certo di dare la forte impressione che senza il tuo intervento e il tuo importante libro l’Africa sarebbe perduta». Parole che fanno sorridere e vergognare. Perché, non solo in letteratura, è l’arroganza il peccato originale che ci portiamo dietro quando guardiamo al di là del mare.