«Sono Diego Bistaffa, faccio il restauratore di mobili antichi, il mestiere che mi ha insegnato mio padre, ma ho un problema da quando sono nato: mi manca un braccio. Sono anch'io una delle tante vittime del talidomide, per cui ho solo questo moncherino. Posso usarlo solo come base d'appoggio, devo fare tutto con l'altro braccio, anche le cose più semplici: per esempio non posso allacciarmi le scarpe o tagliare una bistecca da solo. Nel lavoro mi sono sempre arrangiato, ma con il passare degli anni diventa sempre più difficile. Il talidomide veniva prescritto alle donne incinte come rimedio contro la nausea da gravidanza. La pubblicità lo presentava proprio così: il farmaco più sicuro. E invece ha fatto nascere migliaia di bambini senza gambe o senza braccia, come noi. La nostra storia è finita nei libri di medicina. Come vittime ci siamo riuniti in associazioni e comitati, abbiamo chiesto giustizia nei tribunali e nei palazzi della politica, abbiamo aspettato per anni una legge che ci concedesse un qualche indennizzo o risarcimento. Niente di particolare: esattamente la stessa indennità che è prevista già dal 2009 per tutte le altre vittime riconosciute del talidomide. Nell'agosto 2016 questa legge sembrava finalmente arrivata. Ma abbiamo scoperto che manca il regolamento. Da mesi telefoniamo ogni giorno al ministero, a Roma, ma ci rimbalzano da un ufficio all'altro. Ormai non ci rispondono più. Questo disinteresse non riusciamo a capirlo: il governo ha trovato in una notte dieci miliardi per salvare le banche, ma il tempo per scrivere il nostro regolamento, la burocrazia non lo trova mai. E se non lo approvano entro dicembre, perdiamo tutto. Stiamo perdendo la speranza. E ci sentiamo presi in giro».
L'artigiano Bistaffa abita in un rustico ancora agricolo, vicino al Lago di Garda, circondato da portentose pannocchie da polenta alte più di tre metri. Nel cortile assolato, seduta sotto un noce con i due compagni di sventura, c'è una bella signora con i capelli e gli occhi neri, che non mostra menomazioni, anzi sembra in gran forma: «Piacere, sono Maria De Rosa, vivo e lavoro a Bologna: vuole sapere qual è il mio problema?».
La donna si piega in avanti, afferra i due sbuffi superiori degli stivali, libera le ginocchia e le ruota, una alla volta. Clac, clac. «Ecco qua: sono senza gambe, mi mancano tibia e perone. Quindi vivo con queste due protesi. Ci vivo e ci lavoro: sono una funzionaria dell'Inail, lavoro al centro protesi di Budrio. Ho vinto un normale concorso pubblico, senza agevolazioni, non c'erano posti riservati agli invalidi. Non voglio compassione, mi mette in imbarazzo, ho sempre fatto sport e sono diventata un'atleta paralimpica, faccio sitting volley e canotaggio, ho anche vinto i campionati italiani. Non prendo nessun assegno di invalidità, perché ho un lavoro. Ho solo l'esenzione dai ticket per i problemi legati alla mia condizione, ma devo fare le visite di controllo e ormai ci scherzo sopra con i medici: ma cosa dovete verificare? Pensate che le mie gambe possano ricrescere? Anch'io speravo che questa benedetta legge del 2016 ci avrebbe garantito un po' di sicurezza per il futuro, ma oggi mi sento un'illusa». Detto questo, la bella signora abbassa i lembi degli stivali, si rimette le protesi e si alza di slancio: «Per agganciarle bene devo stare in piedi e premere col mio peso, così esce l'aria. Imbarazzante, no?».

Talidomide è il nome commerciale (derivato dalla formula chimica) del farmaco che ha provocato il più grave scandalo sanitario della medicina moderna. Prodotto dall'industria tedesca Gruenenthal, era stato messo in commercio nel 1956 in Germania e poi distribuito in 46 nazioni come sedativo, anti-influenzale e soprattutto come rimedio contro la nausea per le donne incinte. Una pubblicità martellante lo presentava come un medicinale sicuro, in vendita in tutte le farmacie, il prodotto ideale durante la gravidanza. Nei primi cinque anni, fino al 1960, solo in Germania sono state prodotte circa quindici tonnellate di talidomide.
[[ge:espressoarticle:eol2:2200064:1.1609:article:https://espresso.repubblica.it/visioni/scienze/2006/10/05/news/mai-fidarsi-del-topolino-1.1609]]Il farmaco è stato bloccato per la prima volta negli Stati Uniti, dove una funzionaria della sanità pubblica, poi premiata dal presidente Kennedy, ha rifiutato l'autorizzazione al commercio, nonostante le intimazioni legali della multinazionale farmaceutica, ipotizzando un legame tra l'uso del talidomide tra le donne incinte e l'aumento dei casi di neonati malformati. Le successive ricerche scientifiche hanno confermato che era proprio quel farmaco a bloccare lo sviluppo degli arti, oltre a causare altri gravi problemi ai reni, cuore, denti, intestino e vista, provocando un'impennata nelle statistiche sui bimbi focomelici.
Da allora ogni paese ha dovuto contare le sue vittime: migliaia di persone nate senza braccia o senza gambe. All'epoca le autorità hanno riconosciuto più di seimila casi, ma a livello mondiale le vittime accertate, secondo le associazioni di tutela (ne esistono diverse anche in Italia), sono almeno ventimila, a cui si aggiungono migliaia di aborti che all'inizio non venivano collegati al farmaco-killer.
Il talidomide è stato ritirato dal commercio a partire dal 1961, ma in Italia e in altre nazioni ha continuato a essere distribuito per anni. Va tenuto presente che all'epoca nel nostro paese non esisteva ancora il servizio sanitario nazionale, introdotto solo negli anni Settanta con la riforma che ha creato le Usl, e i vecchi “medici della mutua” non avevano un'adeguata rete di informazione, supporto e controllo. Quindi il talimodide, nonostante il teorico divieto, ha continuato di fatto ad essere prescritto dai dottori e venduto in molte farmacie che ne avevano fatto scorta ignorando la sua pericolosità. Il ritardo, l'inerzia e il mancato ritiro effettivo dal commercio di un medicinale già bandito nel resto del mondo è alla base delle sentenze giudiziarie che hanno poi riconosciuto i primi risarcimenti ad alcune vittime, imputando allo Stato italiano una colpevole negligenza. I processi civili però hanno tempi lentissimi e sono molto costosi, perché oltre agli avvocati bisogna pagare le perizie degli esperti che confermano il nesso di causa-effetto tra il talidomide usato dalla mamma e la malformazione che affligge il figlio.
Da questa situazione di dolore e ingiustizia è nata una mobilitazione di centinaia di famiglie che finalmente, tra il 2007 e il 2009, ha portato il parlamento ad approvare una legge che riconosce un'indennità alle vittime accertate del talidomide, senza bisogno di affrontare lunghi processi. Quelle norme, però, hanno una lacuna: riguardano solo le persone nate tra il 1959 e il 1965, gli anni in cui in Italia si era registrato il maggior numero di casi. Un limite temporale che esclude tutte le vittime nate prima o dopo quel periodo. Oggi in Italia si calcola che siano circa 200, ma non esistono dati precisi, perchè molte persone sono morte, mentre decine di sopravvissuti non hanno mai potuto chiedere indennizzi per mancanza di documentazione e quindi di prove legali. Questa disparità di trattamento, certificata anche da alcune sentenze giudiziarie, ha spinto numerosi cittadini, medici, giornalisti e politici di ogni colore a impegnarsi per il varo di un'altra legge, che il Parlamento ha approvato a larga maggioranza e che è entrata in vigore il 20 agosto 2016. Le nuove norme cancellano la precedente discriminazione per anno di nascita e prevedono che tutte le vittime riconosciute del talidomide possano chiedere l'indennizzo, dopo i debiti controlli sulle cause dell'invalidità. Per dare concreta esecuzione alla riforma, però, serve un regolamento, di competenza della complessa e lentissima burocrazia ministeriale. La legge prevedeva che venisse approvato entro sei mesi, cioè entro febbraio 2017. Ma le vittime del talidomide non hanno ancora visto niente. Anzi, hanno scoperto che il tempo stringe: i loro avvocati hanno spiegato che la nuova legge è strutturata come una proroga della precedente, che fissava un limite massimo di dieci anni di tempo per chiedere l'indennizzo. Quindi ora, in pratica, restano meno di tre mesi: il termine scade il 31 dicembre 2017, altrimenti bisogna rifare la legge. E aspettare un nuovo regolamento.
La mamma-gatta Monica Pagnin riassume così la sua situazione economica: «Non ho un lavoro, perché non riesco a trovare nessuno che assuma una persona senza braccia, e nelle mie condizioni devo vivere con la pensione d'invalidità, 515 euro, e l'assegno di accompagnamento, altri 280: in tutto fanno 795 euro al mese. Nel 2010 ho fatto causa per avere lo stesso indennizzo riconosciuto dalla prima legge a tutte le altre vittime del talidomide. Il tribunale di Verona mi aveva dato torto, ma la corte d'appello di Venezia ci ha finalmente concesso una perizia d'ufficio, che ovviamente ha confermato che sono anch'io una vittima del talidomide. La sentenza però non è ancora definitiva, gli avvocati dicono che la Cassazione è oberata di cause e potrebbe decidere fra altri quattro o cinque anni. Nell'agosto 2016, quando è arrivata la nuova legge, abbiamo cantato vittoria. Finché non abbiamo scoperto questa clausolina del regolamento. E pensare che quando il Parlamento ha approvato le nuove norme, la nostra delegazione è stata ricevuta a Roma dal ministro Beatrice Lorenzin. Ci ha voluti vedere di persona per dirci che la nostra vicenda le stava molto a cuore e che era felice che il Parlamento ci avesse reso giustizia. Poi si è rivolta proprio a me: “Ora c'è la legge, è contenta?”. Le ho risposto: “Certo, ma sarei ancora più contenta se ci fosse anche il regolamento di attuazione”. Purtroppo avevo visto giusto: il regolamento non c'è ancora e al ministero rispondono che è ancora all'esame di questo o quell'ufficio. E intanto la nostra legge rischia di scadere».
Il restauratore Diego Bistaffa si sforza di non sembrare troppo triste: «Io ho sempre lavorato e continuerò a farlo. Se non arriva il regolamento, mi arrangerò. L'unica alternativa sarebbe fare causa. Ma i processi civili costano e i tempi sono infiniti. Molte vittime del talidomide non possono nemmeno provarci a chiedere giustizia, perchè non hanno documenti. Dopo cinquant'anni, negli ospedali non si trovano più le carte, i medici che avevano prescritto il talidomide sono morti, nelle famiglie non resta più nessuno in grado di testimoniare che il dottore o il farmacista avevano dato proprio quel farmaco a una madre che magari non c'è più. La prova del talidomide io la porto sempre con me: è in cima al mio moncherino. Le vede queste ditina minuscole? Sembrano germogli uccisi da una gelata. Sono l'inizio della crescita della mano che non ho. Tutte le vittime del talidomide hanno questa specie di cicatrice irregolare: le braccia e le gambe non sono amputate, non c'è un taglio netto, perché nel feto gli arti c'erano, erano nati e sono riusciti a crescere fino a cinque o sei settimane, ma poi il talidomide ce li ha fatti morire».
La funzionaria statale Maria De Rosa la vede come una questione di principio: «Io non ho mai voluto pesare sugli altri, vivo con il mio stipendio e non ho mai chiesto trattamenti assistenziali. Ma lo Stato non può fare una legge e poi ignorarla perchè manca un regolamento. Ci sono persone che hanno sofferto aspettando per anni questa legge e vanno rispettate. E' una questione di dignità. E di serietà. Perché noi adesso ci sentiamo veramente presi in giro».