Sofia Coppola racconta il suo film "L'inganno" in sala giovedì 21 settembre. Un remake de "La notte brava del soldato Jonathan" che a Cannes ha meritato il premio per la regia. Raccontando le reazioni di un gruppo di donne tagliate fuori dal mondo che viene in contatto con un uomo dal fascino animale

Una minuscola, fragile figurina vestita di bianco e nero con foglioline stampate e maniche a sbuffo: quando arriva per l'intervista Sofia Coppola non sembra affatto la regista affermata che ormai è. Con il premio alla regia del festival di Cannes per "L'inganno", la piccola di casa Coppola si è definitivamente riscattata dagli esperimenti meno riusciti di gioventù, quando esordiva con poca fortuna come attrice dal nome Domino in "Frankeweenie" di Tim Burton.

Adesso invece è nei libri di storia del cinema col suo vero nome, con un Oscar nel 2003 per la sceneggiatura di "Lost in Translation", un Leone d’Oro a Venezia con "Somewhere" nel 2010, anno in cui Presidente di Giuria era il suo ex Quentin Tarantino, l’esordio a Cannes nella sezione Un Certain Regard nel 2013 con "The Bling Ring" e la consacrazione di quest’anno nel concorso principale conclusa col Premio alla Regia (la seconda volta nella storia per una donna).
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«È stata la scenografa Ann Ross a suggerirmi di vedere il film di Don Siegel del ’71. Era convinta che mi sarebbe piaciuto», inizia a raccontare Sofia Coppola. «Fino a quel momento non avrei mai pensato di girare un remake. Ma la storia continuava a tornarmi in mente e non riuscivo a liberarmene. Cominciò a prendere forma l’idea che dovessi cambiare punto di vista, che dovessi ribaltarlo».

INVERTIRE LA PROSPETTIVA
La storia di "L'inganno" è ambientata nell’America del Sud ai tempi della Guerra di Secessione e racconta di un soldato ferito che viene accolto in un convitto femminile innescando una violenta reazione a catena. Don Siegel aveva adattato il romanzo di Thomas P. Cullinan deviando verso l’horror psicologico, con un’accattivante e asfittica morbosità faustiana e con la prospettiva dell’unico personaggio maschile, interpretato da un torbido e voluttuoso Clint Eastwood. In Italia il film è uscito col titolo "La notte brava del soldato Jonathan", mentre il romanzo è ora in libreria per le edizioni Dea Planeta.

La pellicola apriva con un conturbante bacio fra Clint e una bambina dodicenne. Troppo per la regista di Marie Antoinette che ha riscritto la sceneggiatura eliminando tutti gli eccessi. Fuori il motivo dell’incesto, fuori la serva di colore con tutte le implicazioni politiche che poteva comportare: la rampolla di dinastia hollywoodiana ha scelto una trasposizione edulcorata, riassunta dall’atmosfera lattiginosa della fotografia di Philippe Le Sourd, ispirato da "Picnic ad Hanging Rock" di Peter Weir.

«Posso pensare che sia una specie di seguito a distanza del "Giardino delle vergini suicide"», continua la regista. «Si spinge oltre lo stesso lato oscuro che avevo indagato in quell’occasione. E il Sud era il posto perfetto per ambientarlo: nel mio immaginario è un luogo esotico, ancora legato alle tradizioni più arcaiche della nostra cultura. Un luogo dove le donne all’epoca venivano educate per servire e soddisfare gli uomini che gravitavano loro intorno. Mi sono chiesta cosa poteva succede quando quegli uomini venivano a mancare e quelle signore dovevano provvedere al proprio sostentamento».

UN CUORE TROPPO BIANCO
Astenersi dal trattare certi temi ed escludere alcuni personaggi non ha salvato il film dalle controversie che stanno emergendo coi vari lanci in giro per il mondo. Non solo per l’omissione della schiava di colore, ma per la selezione del cast di attrici: il gineceo di bianche, bionde ed eteree donne composto da Nicole Kidman, Elle Fanning e Kirsten Dunst.

«Kirsten l’ho conosciuta quando aveva 16 anni», inizia a giustificarsi la Coppola. «L’ho scelta di nuovo come protagonista nel 2006. Siamo rimaste legate nel tempo. Amo la sua versatilità, lo spessore delle sue interpretazioni e soprattutto c’è intesa fra di noi sul set. Anche con Elle ho avuto una bella esperienza in "Somewhere". Poi a loro si è aggiunta Nicole: ho sempre ammirato il suo lavoro e il suo sense of humor. Ho pensato che potesse portare concretezza alla mia versione del film, e fosse in grado meglio di chiunque altro di generare empatia con la storia. A quel putno, per la parte del protagonista mi serviva qualcuno abbastanza forte da tenere testa al terzetto, un attore che fosse sexy, ma anche sofisticato, affascinate e carismatico. Qualcuno in grado di creare un forte contrasto visivo opponendo alla natura delicata e psicologica delle presenze femminili un’equazione virile. Colin Farrell, bruno, villoso e prestante, calzava a pennello alle esigenze del caso. In più le sue origini irlandesi, come quelle del personaggio descritto nel romanzo, hanno contribuito a creare quella sensazione di estraneità che avevo in mente».

DAL ROMANZO AL FILM
Quando nel pigro, composto e ripetitivo isolamento di un gruppo di donne irrompe il desiderio sessuale gli istinti prendono il sopravvento e l’esito può essere letale. Gli ambienti del film a quel punto cambiano: dalle idilliache scene di fiaba, si passa a situazioni via via più asfittiche. «Si tratta di una storia in pieno stile "Southern Gothic"», puntualizza Sofia Coppola. «Volevo spiazzare gli spettatori, offrendogli prima uno scorcio di delicata vita femminile, l’illusione che il protagonista, il colonnello John McBurney, si trovasse in paradiso da solo in mezzo a tante donne. Mentre nella seconda parte, grazie anche all’aiuto della fotografia, gli spazi diventano più angusti, l’elegia lascia spazio al sospetto, le inquadrature si fanno sfuggenti con la percezione che i personaggi siano intrappolati dentro la casa. Da ultimo arriva lo spettro, terrificante, della castrazione».

La regista, che rifiuta ogni legame implicito tra il tema della guerra civile e lo stato attuale della politica americana, insiste nel sostenere che la sua indagine mira solo all’analisi dei meccanismi sociali tra individui di genere diverso. «Ciò che mi interessava era descrivere le dinamiche di potere all’interno di uno spazio delimitato: quali possono essere le reazioni se un gruppo di donne tagliate fuori dal mondo viene in contatto con un uomo dal fascino animale? Raccontare gli effetti del desiderio dalla loro prospettiva mi sembrava un tema rilevante ai nostri giorni. Mi intrigava osservare il comportamento di donne che interagiscono nello stesso contesto e poi come l’arrivo di qualcuno di sesso opposto altera le loro relazioni. Era inoltre la prima volta che mi confrontavo con un gruppo di donne di età ed esigenze differenti».

CINQUANTA SFUMATURE
Molto prima che muffin e cupcakes fagocitassero il palinsesto televisivo internazionale Sofia Coppola aveva definito il suo stile attraverso un linguaggio formale di luci soffuse e una tavolozza di colori pastello. Sin dal suo debutto nel 1999 con la storia di Jeffrey Eugenides, "Il giardino delle vergini suicide", ambientata negli anni 70 tra un gruppo di adolescenti a Detroit, la qualità trasognata della fotografia ha connotato lo stato d’animo dei suoi personaggi. Le proprietà sinestetiche dei racconti messi in scena dalla Coppola si sono poi evolute col tempo passando dalle sfumature di "Lost in Translation" a quelle alternate tra i neutri della depressione e i vividi toni acrilici dei momenti di svago di "Somewhere".

Dopo la parentesi superficiale nella vita annoiata dei viziati adolescenti di "The Bling RIng", dove a farla da padrone sono le varianti di beige borghesi e del peggior kitsch del lusso losangelino, dai dettagli in oro alle luci a neon, in "L'inganno" la regista torna a sposare un’estetica più naturalista. Il film è stato girato in una location reale a un paio d’ore di macchina da New Orleans, la Madewood Plantation House, set già noto al grande pubblico grazie al video di Beyoncè "Sorry da Lemonade", mentre per la scena di apertura con Colin Farrell che viene tratto in salvo dalla piccola comunità del collegio, Sofia si è ispirata alle scene classiche degli esterni di "Rashomon".

«La storia è ambientata dieci anni prima dell’avvento dell’elettricità», puntualizza la regista. «Per questo abbiamo fatto di tutto per sfruttare la luce naturale del giorno, mentre è facile associare le scene girate negli interni alle più famose di "Barry Lindon", dove l’illuminazione è solo quella delle candele. Comunque il lavoro che abbiamo fatto su questo film è diverso dai precedenti: volevo un’atmosfera polverosa, sbiadita, come suggerita dai dagherrotipi dell’epoca. Se in "Marie Antoinette" avevo incluso elementi pop che facevano diretto riferimento al mondo delle teenager, in "L'inganno" è la ricerca di realismo a orientare lo stile e a fare da sfondo alla tensione sessuale della trama. Per evidenziare l’austerità imposta dalla guerra, per esempio, i goffi sottogonna degli abiti femminili sono stati eliminati a favore di linee più minimali».

GUARDAROBA DA FAVOLA
L’intento realista del film tuttavia entra in crisi coi continui cambi d’abito delle allieve del collegio che in tempi di secessione possono contare su un sontuosissimo guardaroba (firmato dalla costumista Stacey Battat) di confezioni di raso in tutte le varianti dei toni chiari, dal lilla, al ciclamino, al verde salvia, al giallo paglierino, come nella migliore vetrina di Laduree. Un eccesso ancor più ridondante sia nel manierismo delle pose coreografiche di alcune inquadrature che sembrano fare appello a classici come "Piccole Donne" di Mervyn LeRoy e "Meet me in Saint Louis" di Vincente Minnelli, che nelle poco credibili scene di vita bucolica dove il fango non intacca nemmeno gli orli degli immacolati indumenti indossati dalle languide fanciulle.

Esattamente l’opposto dei sudici strascichi dei costumi di Geraldine Page ed Elizabeth Hartman nel film di Don Siegel, metonimia della macabra, lurida immoralità dei caratteri degli attori. «Per ricostruire i personaggi ci siamo ispirati ai ritratti di John Singer Sargent», conclude la regista, «ma anche, con un salto postmoderno, alle foto di donne di William Eggleston degli anni 70, alle atmosfere di "Tess" di Roman Polanski e ovviamente alla suspence dei film di Hitchcock. Abbiamo poi scelto un vecchio formato di 1:66 per dare più spazio alla fisicità degli interpreti. Delle musiche se ne è occupato mio marito (il cantante dei Phoenix, n.d.r.)  che ha scritto il tema ispirandosi al Magnificat di Monteverdi: volevamo qualcosa di veramente minimale e rarefatto».