"In Italia le cose andranno meglio". Decine e decine di rifugiati, giunti in Europa attraverso le rotte balcaniche, decidono di lasciare la Germania e l'Austria. Gli agenti di frontiera friulani sono costretti a rimandarli indietro, applicando le disposizioni che prevedono la permanenza dei rifugiati nel primo paese europeo in cui hanno richiesto asilo

Imtiaz, Muhammad, Alì. Sono alcuni dei nomi di ragazzi pakistani, afghani e iracheni che oggi vivono in Friuli Venezia Giulia. Imtiaz, Muhammad e Alì e gli altri vengono da diverse nazioni e parlano lingue diverse. Gran parte di loro, però, ha ?una caratteristica che li accomuna: sono entrati nella Ue via terra attraverso la rotta balcanica (quindi senza toccare il suolo italiano) e entrando poi in Italia dall’Austria, via Brennero, ma verso sud. In base ai famosi accordi di Dublino, dovrebbero ?stare nel primo paese Ue in cui hanno fatto le pratiche di riconoscimento e la conseguente domanda di rifugiati: Austria o Germania, appunto. Invece sono in Italia.

Come mai? La vicenda è complessa e rende l’idea dei cortocircuiti determinati dai trattati di Dublino. Questi ragazzi sono riusciti ad arrivare in Austria e in Germania prima che la rotta balcanica venisse chiusa. Una volta arrivati in quei Paesi, tuttavia, si sono accorti delle difficoltà a trovarvi protezione e asilo. E hanno pensato che forse, spostandosi verso l’Italia, le cose sarebbero potute andare meglio, avrebbero avuto qualche documento più facilmente. ?Così si è creata questa specie di transumanza alla rovescia: attraverso il Brennero, ma in direzione Italia. La situazione è diventata dunque paradossale: mentre al Brennero e a Villach, appena oltre il confine di Stato di Tarvisio, la polizia carinziana ?e l’esercito austriaco si cimentano nei cosiddetti “Schwerpunktkontrollen”, controlli improvvisi lungo le autostrade, migliaia di migranti che dovrebbero stare in Austria - al contrario - vengono in Italia.

E in Friuli Venezia Giulia a oggi sono presenti 4.875 richiedenti o titolari di protezione internazionale, per lo più afghani e pakistani, che non sono arrivati certo dagli sbarchi in sud Italia o da una delle navi delle Ong, ma via terra e da nord. Oggi in Friuli gli agenti italiani degli uffici immigrazione dei quattro capoluoghi di provincia si cimentano quindi nell’attuazione del trattato di Dublino: a cadenza regolare, la polizia scorta all’aeroporto di Trieste quei gruppi di migranti che, dopo essere stati identificati, hanno passato alcuni mesi sul territorio italiano prima di essere ritrasferiti nel Paese competente per la loro istanza di protezione internazionale, il primo stato europeo in cui hanno fatto domanda d’asilo.

Le destinazioni finali sono quindi sempre le stesse da cui sono partiti: Germania e Austria. E anche in questo caso il cortocircuito europeo è evidente: solo nel 2017 decine di migranti hanno trascorso attorno ai cinque mesi in Italia, in una specie di limbo giuridico che da un lato non consente al nostro Paese di esaminare le richieste d’asilo e dall’altro vieta ai migranti di lavorare. Quattro, cinque mesi in una “terra di nessuno”, con soltanto due opzioni per il futuro: l’inutile fuga dai campi di prima accoglienza - che non li porterà da nessuna parte, non potendo modificare il loro futuro giuridico in Europa – oppure l’attesa della decisione dell’unità “Dublino” a Roma e l’emissione del biglietto aereo di ritorno. Il tutto mentre da Vienna continuano a minacciare carriarmati e mezzi militari ?al confine con l’Italia. Proclami sempre più legati alle elezioni politiche che si terranno in Austria a ottobre piuttosto ?che alla realtà dei flussi migratori.