La politica è disarmata di fronte a chi dice che la democrazia è un inganno o una confisca

Ezio Mauro
“L’uomo bianco” è il nuovo libro di Ezio Mauro, in uscita per Feltrinelli (144 pagine, 15 euro). È un’inchiesta sull’Italia di oggi, a partire dagli spari di Macerata del 3 febbraio, quando Luca Traini ferì sei immigrati dopo il delitto ?di Pamela Mastropietro. Ne anticipiamo uno stralcio.

Basta fare un passo nel buio, nel vuoto della strada, nel silenzio delle finestre chiuse della casa di fronte per entrare di colpo in quel quadro notturno di Hopper. E qui, una volta dentro, bisogna sbirciare ogni tanto l’uomo con il cappello in testa e il bicchiere davanti alle mani appoggiate sul bancone del bar, che è venuto a sedersi sullo sgabello di fianco: da solo sotto la luce al neon, che stanotte sembra quasi gialla. Non parla, rimugina. E intanto fuma, perché viene da un’altra epoca e comunque da un mondo dove le abitudini, anche cattive, contano più delle regole.

Si capisce che ha un pezzo robusto di vita dietro quelle spalle incurvate, ne ha viste tante, per arrivare stanotte fin qui deve aver superato ogni illusione consumando qualsiasi speranza. Non crede più in nulla, anzi sta in guardia, come se gli avessero tolto qualcosa. Potrebbe raccontarlo, magari a quella donna che beve da sola vestita di rosso: ma forse un’altra volta, stasera preferisce che ognuno si faccia i fatti suoi, il suo silenzio magari farà sentire in colpa il resto del mondo. Tanto basta un gesto per chiedere un altro bicchiere, e andare avanti nella notte.

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Eppure, perché ci sembra di averlo già visto, così perfetto e maledetto nella sua solitudine? Perché il nuovo soggetto pubblico che attraversa l’Occidente dall’America all’Europa, il risentimento universale che cammina, ovunque si condensa, si rende visibile e si mette in proprio, la rabbia che dappertutto si fa politica, forse è meglio chiamarla sottopolitica, addirittura soltanto vendetta sociale. Poco importa. Lui è tutto questo, lui lo sa, è la miccia. È l’outsider che ha preso a schiaffi l’establishment, buttandolo giù dal trono. Il risentimento è appagato: per il resto, vedremo.

Poiché non abbiamo un nome nuovo, per descrivere quest’ultima creatura della mondializzazione usiamo vecchie categorie che hanno contrassegnato fenomeni antichi: antipolitica, contropolitica, ribellismo, populismo. Ma invece quel che accade è figlio legittimo e riconosciuto della postmodernità, anzi del suo Big Bang finale tra la società aperta come mai avevamo conosciuto e la crisi più lunga del secolo, con le chiusure che ha lasciato dietro di sé mentre procedeva, una dietro l’altra, a cascata. A una a una, come dopo i terremoti, cadono le vecchie case della politica novecentesca - i partiti -, si squarciano i grandi contenitori culturali di tradizioni e di valori, come destra e sinistra, ripiegano e si confondono le stratificazioni sociali che davano identità collettiva, coscienza di classe, appartenenza, con un disegno di società che concedeva una dinamica interna e contemplava il conflitto.

Tra le macerie, cammina lui: un superstite solitario, prima scartato dalla crescita, poi ferito dalla crisi, comunque deluso dalla rappresentanza, convinto di aver accumulato un credito che essendo inesigibile ha finito per trasformarsi in una lunghissima cambiale di rancore privato, da spendere o almeno da ostentare in pubblico. Poiché ciò che è accaduto nell’ultimo decennio ha fiaccato le istituzioni, ha reso impotenti i governi, ha spinto ancor più lontano gli organismi internazionali e ha finito addirittura per indebolire la democrazia, l’uomo che si sente solo scopre che nell’improvvisa fragilità del sistema la sua rabbia può diventare un surrogato della politica, potente.

Nel rimescolamento degli scambi e nel sovvertimento dei valori, la marginalità della sua collera chissà come trova un mercato, dunque acquista improvvisamente una rilevanza, scopre degli attori sociali interessati a interpretarla, diventa centrale: tutti ne parlano, da sentimento sommerso, coperto, quasi inconfessabile diviene un pubblico sentire.

La rabbia dell’uomo sconosciuto non riesce a proporre soluzioni, a disegnare progetti e a farsi governo. Ma basta per presentare a chiunque il saldo di tutto ciò che non va, per chiedere conto di un mondo fuori controllo, per dare una colpa universale alla classe generale che ha esercitato il comando fino a oggi, chiudendosi in se stessa per tutelarsi autoriproducendosi.

Improvvisamente, nel ribaltamento dei vizi e delle virtù, l’élite ha la colpa di tutto, non solo dei suoi comportamenti ma anche del suo sapere, che è sospetto perché nell’Anno Zero ciò che non germoglia spontaneamente dal nulla sa di casta, come la scienza professionale, la dottrina accumulata, la perizia tecnica.

Alla fine, l’élite è responsabile della custodia e della trasmissione di una cultura legata alla storia e al divenire del Paese, funzione equivoca per chi immagina l’autogolpe perenne delle classi dirigenti, impegnate in un’opera immane di continuo inganno ai danni del popolo.

E qui scatta la molla populista, che unisce l’uomo solo alla nuova predicazione universale che parla di ribellione e di protezione. La politica tradizionale, che gli avrebbe proposto la reintegrazione, l’emancipazione dal rancore, il riscatto, al prezzo della pazienza, delle compatibilità, dei vincoli e delle priorità, ha fallito l’aggancio e da queste parti non si è vista. Nel campo libero è arrivata un’altra politica che cercava proprio lui, fatta per lui, uguale a lui, che non esorcizza la sua protesta ma la incamera. Con il suo linguaggio, le sue paure, i suoi stessi nemici e la medesima convinzione, definitiva: la democrazia così com’è oggi è un inganno, o una confisca.
All’appuntamento con l’uomo solo, si presenta così qui da noi un doppio populismo, senza un progetto per il Paese ma perfettamente in grado di riempire l’immaginario ostile, rancoroso, ribelle che cerca affermazione e rivalsa. Il principio di attrazione reciproca dei due populismi - leghisti e grillini - si basa infatti su un istinto politico di destra che fonda la sua superstizione nativa su un comune racconto della fine del mondo. A ogni passo che compiono nel loro separato cammino, si dipingono alle spalle un paesaggio perenne di macerie e distruzione, un mondo di ieri corrotto e fradicio, che non merita nemmeno di essere ereditato, ma va soltanto soppiantato.
Poco importa che i leghisti siano ormai il più vecchio dei partiti esistenti, abbiano partecipato al banchetto dell’epopea berlusconiana, condividendo tutto, ascesa, titanismo e caduta: il sovranismo salviniano ne fa un partito nuovo, lo proietta ben al di là del Po, sostituisce Odino con Orbán nel pantheon, e Roma con Bruxelles come nemico. Un nuovo mondo che ha dichiarato guerra al vecchio universo dominante. Anzi, ne è uscito fuori, anche se per farlo deve compiere un’inversione di marcia, dichiarare la fine della globalizzazione e del cosmopolitismo, tornare nel guscio degli Stati nazionali, come se il passato fosse il rifugio del futuro.

La fine del mondo è il perenne inizio della storia grillina. Loro sono nati alla politica per annunciarlo. La continua, meccanica dichiarazione di non essere né di destra né di sinistra, scegliendo come cifra costante una somma zero identitaria, andrebbe aggiornata e completata nella dimensione della storia. È come se dicessero: noi non abbiamo un prima, e il dopo è irrilevante. Viviamo nell’oggi, perché ciò che conta è la rottura. Noi siamo qui a testimoniare la frattura, la nostra bandiera è piantata nel punto politico in cui il ghiaccio si sta rompendo, questa è la nostra funzione. È il racconto biblico di una fine del tempo politico incombente, rigeneratrice ma pur sempre apocalittica.

Queste due diverse mozioni degli istinti danno vita, potremmo dire, a un racconto dell’Anno Zero, di cui l’uomo scartato si sente parte. Perché lui è antropologicamente una sorta di uomo-zero. Il vento nuovo lo mette a proprio agio, perché soffia alle sue spalle stanche mentre intanto sta sospingendo chissà dove il Paese. Quel vento agisce in privato come nel pubblico, penetra nell’individuale come nel collettivo.

È questo che trasforma l’uomo-zero in un soggetto politico inedito, proprio lui che era rimasto ai margini di tutti i processi. E adesso è in sintonia improvvisa - la prima volta - con quel che accade intorno a sé. Anzi, dopo anni in cui tutti lo ignoravano e lui sentiva di non avere alcun peso sociale, ecco che arrivano segnali di riconoscimento, la sua visibilità è trasformata, lui è sempre solo ma è proprio la sua solitudine che improvvisamente acquista valore.