«Minoranze e diritti civili sono bei princìpi. Che però piacciono solo nelle metropoli di sinistra». Il controcanto del politologo Mark Lilla

Joe Biden
Il candidato democratico per le presidenziali del 2020? Ho una sola certezza: se si vuole vincere dovrà essere un maschio e bianco». Mark Lilla, professore di “Humanities” alla Columbia University, non ha dubbi, i risultati delle elezioni di Mid Term (6 novembre scorso) confermano la teoria su cui si basa il suo libro più recente, “The Once and Future Liberal: After Identity Politics” (in Italia pubblicato da Marsilio con il titolo “L’identità non è di sinistra. Oltre l’antipolitica”). Un libro che all’interno del partito democratico e più in generale della sinistra americana ha provocato diverse polemiche e non pochi dissensi.

Camera ai democratici, Senato ai repubblicani. Il risultato è contraddittorio?
«Sì, questa è la prima cosa che viene in mente. Ma è ovvio che non ci troviamo di fronte a un solo risultato, quelli da analizzare sono almeno tre. Quanto accaduto nella elezione dei deputati per la Camera dei Rappresentanti è più o meno quello che tutti si aspettavano, i sondaggi questa volta sono stati abbastanza precisi. E non c’è dubbio, anche se forse qualcuno sperava in qualche seggio in più, che la vittoria dei democratici non è discutibile. E questa è una buona notizia, per la sinistra e per gli Stati Uniti, soprattutto in vista di quello che ci attende nei prossimi due anni».

Il Senato?
«È stato un vero disastro. Nessuno pensava che potesse andare così male e la cosa più evidente è ormai la differenza tra il voto popolare per il Senato - che i democratici hanno vinto - e i seggi conquistati (sono due per ogni Stato degli Usa, indifferentemente dalla popolazione e dal numero dei votanti, ndr), o forse sarebbe meglio dire persi, cosa che non fa intravedere nulla di buono per il futuro. Quello che appare adesso chiaro è che il partito democratico non è più in grado di vincere nelle regioni rurali dell’America e che se non cambiano atteggiamento e strategie in queste aree rischiano di passare solo attraverso nuove sconfitte. E questa è per i democratici una pessima notizia».

E il terzo risultato qual è?
«È una buona notizia, anche se pochi, anche tra i democratici, l’hanno considerata, e molti la stanno sottovalutando. È quella che riguarda le sfide per i governatori dei diversi Stati degli Usa. Prima di queste elezioni i repubblicani ne controllavano praticamente due terzi, adesso siamo più o meno al cinquanta per cento per ognuno dei due partiti».

Quanto è importante?
«Molto. Perché i singoli Stati determinano le regole per quello che viene chiamato il gerrymandering, vale a dire l’alterazione dei “confini elettorali” tra i diversi distretti che può avvantaggiare un partito piuttosto che un altro. È importante, soprattutto in vista delle elezioni future. Più sono i Governatori democratici, più sono i Congressi statali dove hanno una maggioranza, più può cambiare il gerrymandering dei distretti elettorali che tenga conto dei cambi demografici e delle nuove realtà economiche».

Perché i democratici non gli danno troppa importanza?
«Non solo i democratici, anche i repubblicani. Gli americani in genere guardano troppo alle elezioni nazionali e troppo poco ai risultati delle urne nelle elezioni statali o locali. Queste elezioni sono state presentate, e lo sono diventate, come un grande referendum pro o contro Trump. Perdendo di vista quello che era importante, sia nazionalmente che a livello locale, per il pubblico interesse».

La vittoria democratica alla Camera non è arrivata proprio grazie a questo referendum contro Trump?
«Forse, ma non è detto. In alcune aree hanno contato altre cose, le tasse, la riforma sanitaria, l’emigrazione, l’ambiente, i problemi locali. Io credo che i democratici non possano e non debbano presentarsi davanti al paese con un programma che è solo negativo, contro l’attuale presidente. Devono avere un programma positivo, per conquistare voti decisivi che oggi ancora non hanno. Ed è per questo che penso abbiano ancora molta strada da fare in prospettiva delle presidenziali del 2020».

Non vede un cambio di atteggiamento?
«Se guardo alle prime dichiarazioni dopo il voto, no, non lo vedo. Prendiamo ad esempio le prime dichiarazioni fatte da Nancy Pelosi, la leader del partito democratico alla Camera. Si è limitata a commentare i risultati che interessano solo parte dell’elettorato, solo una parte di gruppi, le donne, le minoranze, le questioni etiche. Non ha inquadrato le elezioni in una prospettiva più grande, che interessi tutti, anche chi non ha votato per i democratici».

Nancy Pelosi non è detto che venga confermata alla guida del partito al Congresso, sono tanti quelli che vorrebbero una nuova leadership. Ci sarà un ricambio?
«Non lo so, ma non credo. Non vedo questa ondata di nuovi dirigenti, di giovani carismatici o di 50enni o anche di 60enni capaci di dare una vera svolta. È per questo che in chiave 2020 sono piuttosto preoccupato».

Per il 2020 è pessimista?
«Sì, ma sono pessimista di natura, quindi occorre fare un po’ di tara».

È deluso dal risultato in Florida e Georgia, dove il partito democratico aveva puntato molto su due candidati afro-americani? Oppure ha avuto conferma della sua teoria sull’identità?
«Né l’uno, né l’altro. Mi spiego meglio. Sia la Georgia sia la Florida hanno una tradizione repubblicana. Molto radicata nel caso della Georgia, meno in quella della Florida, che è stato uno “swing State”, uno Stato in bilico dove i democratici hanno vinto diverse volte. Ma sta cambiando anche la natura dell’elettorato in Florida. Per decenni c’è stata una forte componente di ebrei pensionati, che avevano scelto il Sunshine State come loro ultima dimora. Un elettorato, ebreo e anziano, che ha sempre votato in larga maggioranza per i democratici. Ora molti tra loro non ci sono più e non sono stati sostituiti da un elettorato simile. La nuova immigrazione, quella dei latinos, non vota o vota ancora poco e quindi la Florida si sta configurando come uno Stato sempre più saldamente repubblicano. Quanto alla Georgia per presentarsi come donna e nera alla sfida per diventare Governatore in quello che era una delle aree più razziste ci vuole molto molto coraggio. E Stacey Abrams lo ha avuto. Ma nel suo caso, come in quello di Andrew Gillum, anche lui afro-americano, in Florida, non mi sembra che l’identità abbia avuto un ruolo determinante».

In che senso?
«Perché, ed è importante sottolinearlo, sia in Georgia che in Florida i due candidati democratici hanno fatto una campagna elettorale tradizionale, non l’hanno assolutamente resa personale, non hanno calcato i temi razziali e divisivi. Al contrario. E non possiamo dimenticare che Stacey Abrams ha avuto come avversario il segretario di Stato della Georgia, cioè l’uomo che ha stabilito le regole del voto, penalizzando, su questo non ho dubbi, la sua avversaria. Quindi se guardiamo al risultato oggi possiamo dire che la Georgia può diventare, in un futuro anche prossimo, una bella sfida per i democratici».

L’America è politicamente molto divisa ed è soprattutto spaccata in due: da una parte l’America rurale, sempre più radicalmente repubblicana, dall’altra quella urbana e suburbana. Cosa devono fare i democratici per parlare all’altra America?
«Questo è un serio problema, anzi è il problema. E non riguarda solo le aree rurali, ma anche il tema della “education”, del livello di istruzione, decisivo per il futuro degli Stati Uniti. Perché se analizziamo i flussi democratici vediamo come i giovani delle zone rurali che hanno un maggior livello scolastico, appena possono se ne vanno nelle aree metropolitane, quelle dove più facilmente trovano lavoro. L’unica cosa che in tempi brevi si può fare a mio avviso è cercare di conquistare i loro voti analizzando i loro interessi economici. Occorre lasciar perdere il focus sui singoli gruppi per cercare di avere una visione più larga, più complessiva. Ci sono esempi che si possono fare».

Uno di questi?
«Mi viene in mente l’immigrazione, che è una delle cose che nelle zone rurali degli Stati Uniti preoccupa di più. In apparenza è una cosa senza senso, nei grandi Stati del Midwest o in quelli montagnosi del Nord-Ovest non hanno praticamente mai visto un immigrato in vita loro. Però hanno questa diffusa sensazione di essere economicamente fragili e pensano che i nuovi immigrati li renderebbero ancora più fragili. Ecco, sul terreno dell’immigrazione i democratici hanno sbagliato in molte occasioni».

Molti hanno criticato anche Obama su questo punto.
«Perché Obama come presidente ha deportato molti più immigrati di quanti non ne abbia deportati George Bush nei suoi due mandati. Su questa cosa il partito democratico è stato troppo ambiguo e silenzioso. Sull’immigrazione si può discutere molto, perché è anche una questione di democrazia. E in democrazia occorre decidere insieme su quanti immigrati debbano e possano entrare nel paese».

Uno sguardo al prossimo futuro. Quale sarà il partito democratico, oggi ancora molto diviso, da qui a due anni?
«Non ne ho idea e non so come si possa risolvere il problema delle divisioni. Mi sembra che sia un partito che nel momento in cui occorre giocare la partita decisiva - e quella del 2020 lo è - non ha molta gente valida in panchina».

Le nuove generazioni, giovani, soprattutto donne?
«Non riesco a prendere troppo sul serio questi candidati radicali o socialisti. Quasi tutte donne, è vero, ma quasi tutte elette in “Blue State”, in distretti elettorali dove la maggioranza democratica è schiacciante. Se in un’elezione presidenziale guadagni l’1 o il 2 per cento in California o a New York non cambia assolutamente nulla. Il problema vero è come conquistare quelle aree del paese che non sono ancora completamente “red”, repubblicane, ad esempio la Florida di cui parlavamo prima. Manca però una strategia globale, che richiede prima di tutto un cambio di mentalità. Che in questo momento non vedo».

Chi vedrebbe bene come candidato? Una donna come la senatrice Elizabeth Warren?
«No. Devi avere un candidato maschio, punto. Devi avere un candidato maschio e bianco, punto. Se Elizabeth Warren dovesse vincere la candidatura democratica alla Casa Bianca sarebbe l’ennesimo segnale dell’istinto suicida del partito democratico. Perché per i maschi bianchi d’America sarebbe una candidatura “tossica”. Forse anche per me».

Chi allora?
«Perché non Joe Biden? Non è giovane, ma per un mandato di quattro anni va benissimo. Mancano ancora due anni e allora mi domando se non ci sia qualcuno che oggi non vediamo, qualcuno che non venga percepito come un allarme per l’elettorato moderato. Uno che non abbia grandi messaggi o straordinarie visioni, ma che sia un’alternativa, vera, contro Donald Trump».

Se lo scrivesse oggi cambierebbe qualcosa nel suo libro?
«Neanche una virgola».

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