Patrice Nganang. Pinar Selek. Ahmet Altan. Gli scrittori e gli autori che in Africa, Turchia, Europa pagano per le loro parole. Perché la democrazia ?si difende con la scrittura
Cose come queste sono sempre accadute solo che prima non si sapevano». Questa considerazione di «buonsenso» l’ho sentita pronunciare da una persona che non nutriva alcun senti mento di ostilità verso nessuno. Constatava come «è sempre andato il mondo» quanto a diseguaglianze.
Una frase dall’aria innocua, se non fosse che adattarsi all’idea dell’ingiustizia significa legittimarla, permettere che si perpetui. E se non fosse che proprio sul crinale tra il sapere e il non sapere dilaga la colpa più peculiare del nostro tempo, quel lasciar fare da ignavi di chi preferisce galleggiare nel caos delle opinioni e stare in pace con se stesso.
Così, già voler sapere o indagare ciò che si tace o si dissimula ha a che vedere con una forma di dissenso, in un mondo dominato dall’idea che il tasso di realtà o verità sia proporzionale all’intensità del martellamento, al modo capillare con cui si diffonde una certa idea di mondo, umanità, società in cui l’accertamento dei fatti è irrilevante.
Eppure basterebbe concentrarsi su qualche dato statistico riguardante anche un piccolo frammento temporale per essere colti da un soprassalto dinanzi a verità incontrovertibili che esigerebbero scelte politiche ispirate a quell’«obbligo a una responsabilità generale» che la filosofa Hannah Arendt metteva alla base di una «politica moderna».
63 milioni di profughi nel mondo (2milioni in più in un paio di anni). Un incremento delle morti nel Mediterraneo che provocherebbe sommosse e terrore, se quelle stesse morti riguardassero nostri connazionali (da 1 su 39 dell’anno scorso, a 1 su 6 di quest’anno). 65 giornalisti uccisi nel mondo solo nel 2017, di cui 39 eliminati perché minacciavano interessi politici economici criminali, come la giornalista maltese Daphne Caruana Galizia esplosa insieme alla sua macchina l’anno scorso appunto, o il giornalista saudita Khashoggi, entrato una mattina di ottobre di quest’anno al consolato saudita di Istanbul per sbrigare delle pratiche, e lì dentro scomparso. Fatto a pezzi. Giusto per ricordare un paio di nomi che hanno campeggiato per qualche giorno tra le notizie, perché c’era in ballo la credibilità di un paese dell’Unione Europea come Malta o perché si chiamava in causa l’Arabia Saudita che, nonostante le pesantissime denunce di violazioni dei diritti umani e civili tra esecuzioni segregazioni torture, in terra saudita, e massacri in Yemen, ha visto nel 2016 un suo ambasciatore a capo del Consiglio per i diritti umani dell’Onu.
La sensazione è che si sia completamente perduta memoria del preambolo stesso della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: il «riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili» quale «fondamento della libertà, della giustizia e della pace».
È quella Dichiarazione del 1948 l’asse portante della
17esima edizione di Più libri più liberi . Nel 70esimo anniversario di quella carta rifondativa di un mondo devastato da orrori in cui si finì per compiere scientificamente la «demolizione dell’uomo». In questo momento significa porre attenzione verso le minoranze, etnico-religiose o di genere, oggetto di discriminazioni e violenze in molti Paesi. Attenzione che oggi troppo spesso, in troppi Paesi, porta uomini e donne a finire nella terra di nessuno chiamata «dissenso».
È accaduto a
Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, di cui si accerteranno le responsabilità giudiziarie, ma a cui si è contestato prima di tutto un modello d’inclusione che smentisce l’equazione tra immigrazione e sicurezza, immigrazione e conflitto. Cavallo di battaglia di una delle forze più influenti nel definire la linea del nostro governo.
È accaduto allo scrittore e poeta camerunense
Patrice Nganang, prelevato dall’aereo con cui stava tornando dalla sua famiglia per aver rivolto accuse al governo camerunense sulla condizione della minoranza anglofona . Eppure Nganang è uno di quegli autori che, con la sua opera pubblicata da 66thand2n, sta riattraversando momenti fondativi del ’900 ribaltando il punto di vista dell’eurocentrismo per cogliere la complessità di una Storia in cui è stato estromesso lo sguardo di chi, quella Storia, ha contribuito a farla. Gli africani che, come racconta nella Stagione delle prugne, hanno dato un tributo di sangue altissimo per la «Francia libera», anche se le loro canzoni della foresta cantate marciando nel deserto non sarebbero mai state ricordate negli archivi militari francesi.
È accaduto alla sociologa e attivista turca
P?nar Selek, esule in Francia, accusata di complicità con il PKK e di terrorismo. Una figura scomoda già con i suoi primi libri in cui dava la parola ai giovani curdi o alle giovani leve militari, togliendo veli d’ipocrisia, facendo il proprio mestiere. Perché è anche questo, fare bene il proprio mestiere, che disturba una cattiva politica, e rende «dissidenti». Sarà presente a Più libri più liberi con il romanzo La casa sul Bosforo in cui ripercorre 20 anni di storia della Turchia, dal colpo di stato del generale Kenan Evren (1980) fino al 2000, a ridosso cioè dell’ascesa al potere di Erdogan. E il dissenso, la clandestinità che si scontra con il desiderio di sentirsi parte della vita, l’esilio e il legame viscerale con un paese dalle molteplici anime (curde, armene, greche) uniti al sentimento vertiginoso di percepirsi cittadina del mondo sono i temi che ritornano in molte pagine del libro.
L’idea che il dissenso abbia a che fare non propriamente con l’ostilità, con il gusto di mettersi di traverso, ma con la passione per tutto ciò che è umano e con la creatività torna forte e chiaro anche nella dichiarazione che ci rilascia. «L’esilio è una lacrima, per poterlo oltrepassare, bisogna creare... in tutti i campi… E la creazione passa attraverso la follia». Una follia che, dice la Selek, è chiaroveggenza. D’altro canto, cosa fu, se non una folle chiaroveggenza, quella che portò i confinati nell’isola di Ventotene (Spinelli, Rossi, Colorni…) a immaginare l’unico futuro possibile per l’Europa nell’unione delle nazioni mentre infuriava la guerra?
Creazione, ironia, paradosso sono invece la cifra dello scrittore turco Ahmet Altan, condannato all’ergastolo. In nome del quale parlerà a Più libri più liberi la compagna, giornalista, critica letteraria e attivista
Yasemin Congar. Le sue parole saranno lette e interpretate da Valerio Mastandrea.
Persino le accuse che gli sono state mosse sembrano concepite in omaggio alla più fervida fantasia: aver mandato «messaggi subliminali» per incoraggiare la rivolta durante un talk show favorendo il tentato colpo di Stato del 2016.
È l’arbitrio, l’inverosimiglianza delle accuse che dà la misura di cosa intendesse il drammaturgo e presidente cecoslovacco Václav Havel quando evocava fra i tratti propri di un regime autoritario l’uso intimidatorio della legge e il ricorso sistematico alla menzogna, alla falsificazione del presente, del passato, del futuro, dei dati statistici…
«Potete mettermi in carcere, ma non potete tenermi in carcere. Io faccio una magia. Passo attraverso i muri», scrive nel suo memoir Non rivedrò più il mondo
Ahmet Altan, rivendicando l’autodeterminazione propria dello scrittore. Un concetto che ribadisce facendoci arrivare dal carcere le sue parole: la scelta di pubblicare i libri scritti in carcere non in Turchia ma in Italia (per la casa editrice E/O e per Solferino), la consapevolezza della potenza liberatoria della scrittura. «Per uno scrittore, la vera prigione è l’impossibilità di scrivere… Per questo mi sento libero». E poi aggiunge: «Come la maggior parte degli scrittori, non cerco la luce della speranza per lottare. Piuttosto lotto per crearmi, da me, quella speranza. Perciò sperare e combattere per me non cessano mai».
Non piegarsi, smaterializzare le barre di una prigione, usare l’arma dell’ironia, dissacrare ciò che è più sacro al potere in questione, la turchità, scrivendo un pezzo dal titolo Atakurd (che già anni fa lo aveva portato dritto in galera) sono forse le manifestazioni più irriducibili che il dissenso possa assumere, spostando il gioco su un tavolo in cui il potere, di per sé incapace di ironia, rimane nudo dinanzi alla propria maschera grottesca.
Eppure, mentre l’umanità converge sempre più verso un destino comune di cui gli esodi di massa sono la manifestazione più evidente, mentre le circostanze in cui viviamo esigerebbero un ritorno radicale a quell’universalità dei diritti concepita nel ’48, mai come oggi, dal secondo dopoguerra, il discorso pubblico nazionale e internazionale è stato così profondamente attraversato da pensieri violenti e discriminatori che vanno di pari passo a quel martellamento di cui parlavo all’inizio in cui l’attendibilità non è rilevante, ma la natura delle parole pronunciate sì.
E la natura di quelle parole (scandite da Putin, Trump, Orbán, Salvini, o dal neo eletto presidente del Brasile Bolsonaro…) è sempre la stessa: «salvaguardia di valori morali, identitari, culturali, religiosi e anche sessuali» (2013, discorso di Putin). Pure i tratti, le posture sono simili: poco propense a calare la legge nel contesto della vita reale, e molto orientate verso un’idea di società dove è più importante inquisire, punire, intimidire, criminalizzare… sempre in nome della sicurezza e dell’integrità nazionale tanto più granitica quanto più inverosimile. Inverosimile, sì, se si considera, ad esempio, che nel nostro paese due tra i maggiori scrittori italiani che hanno raccolto attorno a sé altri scrittori e artisti per sostenere il monitoraggio del Mediterraneo da parte della Mare Jonio in difesa del diritto elementare a non essere lasciati annegare nell’insensatezza di chi vorrebbe chiudere il mare si chiamano Helena Janeczek e Hamid Ziarati, e hanno storie che evocano la complessità e intimità, aggiungerei, di questo nostro mondo.
Dalla negazione di tale complessità, con la violenza che ne consegue, è maturato l’assassinio della consigliera comunale di Rio
Marielle Franco, cresciuta in una favela: femminista, lesbica, attivista impegnata nella difesa dei diritti umani e civili. Una morte che ha nomi precisi scanditi dalla sua compagna Mônica Benício e dall’attivista Fernanda Chavez con parole nette: «razzismo», «omofobia», «misoginia», «fascismo», «una democrazia in serio pericolo». Non dicono una «democrazia illiberale», come si usa dalle nostre parti, elaborando mostri linguistici, cortocircuiti paradossali, nonsense, temendo o non riuscendo a nominare con i nomi propri le cose.
Ecco, oggi anche organizzare una fiera dell’editoria vuol dire anche questo, compiere con coraggio culturale scelte del genere: mettersi in mezzo al mondo e allungare lo sguardo in ogni direzione per provare a comprendere e immaginare una via d’uscita da un’idea sempre più imperante di umanità in cui o stai dentro il recinto del consenso o scegli il silenzio, oppure finisci nella terra interdetta del dissenso con il marchio di «nemico» addosso.