La mentalità misogina e degradante è ormai sedimentata. Ed è un errore guardare solo ai vip perché si rischia solo di spostare l'attenzione dal nodo del problema
È accaduto anche a me. Quello che accade alle donne da tutta la storia. Sto parlando con un uomo, prendo parte alla discussione seduta a un tavolo di uomini, parlo a un’assemblea pubblica, quale che siano i rapporti di potere, se prendo parola, ancora, dopo anni di lotte, rivendicazioni, e rivoluzioni, come accade alle donne, posso non essere ascoltata, posso non essere vista, può succedere che quello che racconto non venga creduto, che la mia opinione non venga presa in considerazione, che la mia idea venga sottovalutata, copiata o scippata.
Ma da dove viene? Quale stereotipo, quale fenomeno culturale affiora tutte le volte che un uomo in modo più o meno sotterraneo mette su un piano non paritario la donna che gli sta di fronte? Cosa lo fa assecondare una mentalità misogina, che è umiliante, degradante, perfino quando è scherzosa?
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Alle donne accade ancora di sentirsi in difficoltà, incapaci di farsi ascoltare, indotte a dubitare di se stesse, più a proprio agio con lo scalino più basso convinte di non saper spostare l’interlocutore da quel trono dominante in cui sta seduto da secoli. Da tutta la storia, tra vita pubblica e vita privata, tra epica, mito, cinema, letteratura, televisione, pubblicità. Certo, una bella risata in faccia ci starebbe bene, ma quante e quali sono le donne con la prontezza di farlo? E lo so, ci sono. E ci sono anche quelle che di un certo mercato della dignità si sono giovate, si sono servite, asservendosi, pur di avere un piccolo posto, un piccolo potere, dentro casa, dentro un’azienda, dentro un partito, dentro un paese. Tante volte è stato per le donne più comodo, più opportunistico, meno doloroso, meno triste, stare zitte.
Essere interrotte mentre dicono la loro, essere zittite, minacciate se aprono bocca, picchiate perché hanno parlato, o ammazzate per farle tacere per sempre, è quello che accade alle donne. Potrebbe essere per mano, per bocca, del compagno, del marito, del padre, il loro superiore, il loro editore, un nuovo amore, o il tizio mai visto prima che ce l’ha con qualcun’altra ma crede che quella delle donne sia una categoria abbastanza ristretta perché lei possa farne le veci. Lo so, tra supporre che una donna non sappia il fatto suo e ucciderla c’è un abisso, lo stesso che c’è tra uno stronzo e un assassino.
Ma quale donna non si è sentita dire, Gli uomini si sa sono così per natura, hanno bisogno di sentirsi forti, virili, hanno bisogno di fare sesso, devono sfogarsi, sono aggressivi, fa parte della mascolinità, del Dna, della loro natura di maschi? E quale uomo ha messo in discussione i rapporti di forza storicamente disuguali tra i sessi che hanno finora determinato il linguaggio dell’amore, del sesso, il gesto amoroso e l’atto sessuale, i modi e le dinamiche di qualunque tipo di relazione? Come mai si può permettere di zittire una donna che ne denuncia i modi o le azioni o le parole, dicendole o urlandole: “Sei pazza, te la sei voluta, hai bevuto, sei confusa, paranoica, delirante, manipolatoria, maligna, bugiarda, isterica”?
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Il più delle volte gli uomini reputano stancante, esagerata, inopportuna, ogni richiesta di rivedere il proprio atteggiamento, il proprio linguaggio.
Ma qualsiasi donna è in grado di distinguere tra un desiderio e una molestia, tra un abuso e una proposta, tra un obbligo e una richiesta di avere o condividere un piacere. Non ha bisogno di censurare, censurarsi, limitare e limitarsi, evitare nessuna parola o gesto. Il piacere tra soggetti liberi di decidere di sé, soggetti desideranti e desiderati, non ha bisogno di codici, di limiti, di regole.
Ogni parola, e gesto, invece, che sottenda umiliazione, soggezione, presunzione di superiorità, dominio, ricatto di potere, è l’espressione di quella che le donne chiamano ormai da tempo “cultura dello stupro”, una cultura fondata sulla disuguaglianza che ha plasmato finora le relazioni. Questa cultura ricorda alle donne che il mondo non è loro, che i diritti di una donna non sono quelli di un uomo, che la libertà di una donna non conta quanto quella di un uomo. Quale uomo?
Se ci si convince che l’abuso di potere ha a che fare con la scala sociale o la gerarchia che governa il mondo del lavoro, ci si sta accontentando di osservare il fenomeno in ambiti in cui il potere è sinonimo di denaro, lusso, fama, carriera.
Ma veramente solo il produttore di Hollywood, il noto regista o il politico in carica si concedono di ricattare attrici e ballerine perché hanno il potere di fare di loro delle star o delle cameriere a vita? Non sono solo casi più eclatanti, di dominio più pubblico? Ed è diverso se anziché avvenire in una stanza dorata del Ritz Carlton avviene in un ufficio ai piani bassi, o in una casa di un quartiere periferico, o in un bar? L’abuso di potere ha a che fare con quale tipo di potere? Economico, sociale, giuridico? O semplicemente, e fatalmente, con il potere che la storia e la cultura hanno dato in parti diseguali agli uomini e alle donne? Chi si sente in diritto di controllare una donna, di esigere da lei, di decidere del suo diritto di vivere o morire, è un uomo che da tutta la storia si sente raccontare che può permetterselo, che ha lo stesso potere di un dio, in molti casi, che è dio.
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Il rischio di concentrarsi sul maschio di fama e potere demonizzandolo è una deviazione dell’attenzione. Non c’è nessuna innocenza in questo tentativo di svicolare. Si dovrebbe discutere di mascolinità, maschilità, di sessismo, di cultura patriarcale, si dovrebbe far rilevare che il luogo della vita lavorativa è solo un’espansione, un riflesso della vita privata, con la sua lunghissima storia di legittimità della violenza all’interno delle case, del matrimonio, delle famiglie, delle relazioni amorose, sessuali, come fanno le donne da almeno un secolo a più riprese e come continuano a fare rivoluzionando i ruoli e le leggi del comportamento sociale, collettivo e individuale.
In gioco c’è ovviamente la libertà delle donne. Ma soprattutto la libertà degli uomini. La libertà di continuare a fare, a dire, tutto come sempre, a essere come sempre.
Sarà per questo che la loro voce è ancora così flebile?
Se non arriverà la loro voce, cioè, sia chiaro, il loro pensiero, potrebbe venire il dubbio a tutti, uomini, donne, e a tutti gli altri, direbbe P. B. Preciado, che il motivo per cui non si interrogano e non si spostano da atavici secolari posizioni sia una forma di rifiuto intellettuale, e materiale. Che gli costi fare a meno della posizione di privilegio che la disuguaglianza economica, culturale, garantisce loro. Che gli pesi fare posto nella stanza dei bottoni e ricalibrare il valore economico che ne deriva, che non abbiano voglia di ridimensionare il loro tempo così ancora poco dedicato alla cura e all’accudimento se non di sé. Che gli riesca difficile rinunciare a un linguaggio che li determina, li coalizza e li arma ancora contro. Immaginiamo che fatica ripensarsi sulla base di un linguaggio non strutturato su una logica di potere, che implichi, presupponga, un tu paritario che potrebbe anche non riconoscersi in quel dettato, in quell’alfabeto.
Ma fino a quando potranno fare finta che il mondo, il modo di guardarlo e di pensarlo, sia nelle loro mani ancora per molto?
Che fatica, sì. E forse che paura. Eppure, che grande opportunità.