Ignorano i concetti base della politica: compromessi, accordi, alleanze. Usano la Rete per scatenare le opposte tifoserie. Per loro va bene solo il comando assoluto, di un partito o di un singolo. Se non è possibile scaricano la responsabilità su un comitato di tecnici

C ’è un soggetto che avanza in questa crisi infinita, fanno due mesi il 4 maggio, un soggetto extraparlamentare, con cui pure bisogna comporre la maggioranza, perché senza il suo appoggio non è possibile stipulare contratti, comporre alleanze, costituire i governi. È la Rete, il popolo dei social network, su cui impazzano gli sciacalli che non si sono bloccati neppure di fronte alla salute di una persona anziana, Giorgio Napolitano. Un convitato non certo nuovo, in realtà, ma che mai come in queste settimane ha assunto un peso determinante, soprattutto negli ultimi giorni di trattative incrociate, di colloqui estenuanti, tra il Movimento 5 Stelle e il Partito democratico, un percorso pieno di trappole e di vipere velenose pronte a mordere da sotto gli arbusti.

Nei giorni successivi al primo mezzo contatto ravvicinato tra il presidente della Camera in esplorazione Roberto Fico e la delegazione del Pd guidata dal segretario reggente Maurizio Martina (agghiacciante lo spettacolo offerto dal quartetto all’uscita: Graziano Delrio tormentoso-inquieto, Andrea Marcucci con lo sguardo perso nel vuoto a tormentarsi il labbro inferiore con i denti, Matteo Orfini che sembra sempre più il Flaminio Piccoli del Pd, quello che Aldo Moro chiamava «un misto di abnegazione e opportunismo», Martina improvvidamente esaltato...), la rete delle opposte tifoserie si è scatenata.

Pochi minuti dopo la pagina facebook Matteo Renzi News, che già tanto male ha fatto alla causa renziana (deve essere guidato dalla Casaleggio associati, nessun nemico di Renzi e del Pd sarebbe in grado di fare altrettanto), ha messo in rete un enorme No! e l’hashtag #senzadime per contrastare l’ipotesi di un dialogo con M5S. E i commenti sono arrivati immediatamente: «Non farò mai parte di un partito che fa accordi con chi non conosce la democrazia. Per me sarebbe una grave delusione che mi imporrà di bruciare la mia tessera. Per me esiste solo il bene del partito, perciò nessun contratto con la Casaleggio associati e viva la libertà» (Vincenzo Leone). «Le forbici son pronte sulla tessera Pd del 2017. Quella del 2018 non l’ho ancora rinnovata per attendere gli eventi. #senzadime» (Dino Marocchi). «Pronta ad abbandonare il partito. Dov’è andata a finire la sovranità del popolo? Ma a chi stanno prendendo in giro? Se ci dovesse essere l’alleanza, saluterò per sempre il Pd» (Patrizia Vilardi). Su Twitter ancora peggio: «M5S-PD Il solo pensiero che qualcuno possa ipotizzare simile accordo mi provoca un enorme disgusto emotivo. Ho votato quello che credevo essere l’opposto di un partito bugiardo, violento e antidemocratico come il M5S, eppure mi ritrovo ancora qui, a ribadire il mio #senzadime» (Andrea Cerri). «Caro Dario Franceschini, dici di essere sconcertato da chiusura di alcuni esponenti Pd nei confronti dei 5stelle, invece io sono altamente schifata dalla tua apertura, non hai il minimo rispetto per i militanti a cui è stato detto di tutto. Il NO è forte! #senzadime» (Angelina Scanu).

Sulla pagina Fb di Di Maio l’ipotesi di un accordo con il Pd non ha ricevuto migliore accoglienza, con 15mila commenti. «Grazie a te Luigi che stai per decretare la fine del M5S. Stai anteponendo la tua voglia di Presidenza del Consiglio al bene del Movimento. Le cose sono due, o avete sempre bluffato o sei un incapace» (Mattia Maffeis). «Ho votato cinque stelle per non avere tra le palle il Pd. Il Movimento Cinque Stelle è contro: jobs act, Fornero e banche. Invece il Pd ne è il paladino. Mi spieghi che razza di contratto farai e su cosa? Hai chiuso troppo presto la porta in faccia a Salvini... Noi ti abbiamo votato per il cambiamento!» (Carmelo Lo Faro). «Di Maio... alleati col Pd... se si andasse a votare ora cambierei il mio voto per te ... fare un governo col Pd dopo che avete fatto una campagna elettorale contro di loro ... vergogna .. siete tutti lo schifo della terra ... lo schifo» (Peppe Grippi).
renzi

Toni e voci molto simili. Con l’accusa per l’amico di partito che non la pensa come loro, ricorrente, di essere un rinnegato, un traditore. In rete le differenze si appianano, e coloro che si presentano come alternativi si comportano allo stesso modo: lo stesso linguaggio, lo stesso comportamento, la stessa idea di politica. Un mondo dove non esistono gli altri, ci sono solo i nostri.

Un tempo per sondare gli umori della mitica base della sinistra era necessario fare lunghi viaggi, tra le sezioni e le feste di partito, tra le pentole e i fornelli, sperando che si materializzasse quel che i semplici iscritti e militanti davvero pensavano delle tante svolte che i dirigenti stavano preparando blindati nel centralismo democratico, l’unanimità di facciata, oppure consultare faticosamente la rubrica delle lettere dell’Unità a caccia di un segnale di dissenso. E per manifestare la critica o il sostegno ai leader di turno nella Dc si organizzavano i pullman di invitati, a riempire le gradinate del palazzo dello sport dell’Eur, per applaudire il capocorrente amico e fischiare quello avversario. Oggi per misurare la temperatura delle presunte basi di riferimento basta fare un giro sui social e calcolare i click, le condivisioni, i like, non c’è più bisogno di andare fisicamente a cercarsi persone in carne e ossa che riversano le loro idee, i sentimenti e i risentimenti. Ma non è questa la differenza con il passato. Il vero cambiamento riguarda i leader, la classe dirigente diffusa, il rapporto che hanno con la base che ribolle, come si usa dire, sui social. E questa storia ha molto a che fare con la gestione di questa crisi: la spaventosa immaturità politica, ignoranza delle regole, incapacità di portare avanti una discussione sul futuro del Paese che sta ancora una volta e più che mai portando alla luce.

C’è un candidato premier, il capo politico del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio, che dopo aver preso undici milioni di voti sembra non sapere che farsene. Affida a un professore autorevole e stimato, Giacinto della Cananea (ne parla Denise Pardo nella sua rubrica), l’analisi delle compatibilità programmatiche dei vari partiti.

Stabilisce un’equidistanza, o un’equivicinanza, tra M5S e Pd e Lega. Promette di affidare il destino di un’eventuale alleanza con il Pd al pronunciamento della piattaforma Rousseau. E infine minaccia il ritorno al voto se le sue condizioni non saranno esaudite. Sul fronte opposto, il leader dimissionario Matteo Renzi ha approfittato della festività del 25 aprile per rompere un lungo silenzio che durava dall’indomani del voto, con una passeggiata a Firenze in cui ha chiesto ai cittadini simpatizzanti il loro pensiero sull’alleanza con M5S. E il ministro Carlo Calenda, neo-iscritto al Pd da un mese e mezzo, ha minacciato di restituire la tessera se ci farà l’accordo con Di Maio.

Sarebbe un record, nessuno sarebbe stato iscritto meno tempo di lui. Ma non sono soltanto trovate comunicative, dietro ognuna di queste uscite c’è l’effetto del cambiamento politico più profondo degli ultimi anni.

Le leadership che si presentano come fortissime, invincibili, unte dal Signore, consacrate dal voto di milioni di elettori, e che poi non sanno guidare, dirigere, comandare. Non sanno mettersi alla testa del loro popolo. Semmai, preferiscono seguirlo, o simulare di farlo. Sempre che faccia comodo, naturalmente.

Michael Walzer ha spiegato più di trent’anni fa in “Esodo e rivoluzione” come nel racconto dell’uscita dall’Egitto del popolo ebraico in cerca di una terra promessa sia contenuto il significato della politica moderna e contemporanea: la spinta al cambiamento, al passaggio da uno stato all’altro, il cammino verso una terra promessa laicamente intesa, ovvero una missione da compiere, che ha bisogno di un condottiero. Ma se Mosè avesse interrogato la piattaforma Rousseau o i suoi elettori in piazza, la carovana non sarebbe mai partita verso il deserto. È questo il motivo per cui la classe dirigente italiana, i vecchi e i nuovi, faticano così tanto a confrontarsi con le parole base della politica: alleanza, compromesso, mediazione. Preferiscono, i leader attuali, restare incontaminati nell’innocenza delle posizioni pure: abbiamo vinto, tocca a noi, abbiamo perso, restiamo all’opposizione.

Faticano a comunicare alle loro basi di riferimento che senza alleanze in Parlamento e nella società non si costruisce cambiamento e non si fa movimento. Preferiscono il governo di tutti al governo di alcuni che hanno fatto un patto di governo. Il documento del professor della Cananea nella pagina finale arriva a una conclusione paradossale: «Qualora, nel corso dell’azione di governo, emergano diversità per quanto concerne l’interpretazione e l’applicazione del presente accordo, le parti si impegnano a discuterne con la massima sollecitudine. Nel caso le diversità persistano, verrà convocato un comitato di conciliazione, i cui componenti saranno nominati in pari numero dalle parti. Le azioni riguardanti i temi controversi saranno sospese per almeno dieci giorni, in modo da dare al comitato di conciliazione il tempo necessario per raggiungere un’intesa e per suggerire le scelte conseguenti».

Così il mito della democrazia diretta si capovolge nel suo opposto, il trionfo della delega. Quando l’alleanza va costruita si scatenano le opposte tifoserie sulla rete per tagliare alla radice ogni possibilità che l’accordo si faccia. E qualora il governo dovesse nascere, i contrasti interni sarebbero affidati a un comitato di conciliazione chiamato a sciogliere l’impasse e a suggerire le soluzioni. Così muore la politica, che ha esattamente il compito di cercare accordi tra parti diverse e trovare vie di uscita che mettano d’accordo le parti che faticano a parlarsi, arrivando da posizioni opposte. O il comando assoluto, di un solo partito o di un solo capo, o lo scaricabarile delle responsabilità da assegnare ai professori e ai tecnici, da anni la politica italiana si muove tra questi due estremi. La lunga crisi della primavera 2018, qualunque sia la sua conclusione, rivela, una volta di più, leadership ansiose, nevrotiche, e alla fine evanescenti come un algoritmo. E sarà l’eredità più pesante di queste settimane alla ricerca del governo di tutti e del niente.

Ps Per capire come andrà a finire ho ripreso in mano il romanzo anonimo del 1975 “Berlinguer e il Professore”, in cui si raccontava in chiave fantapolitica come sarebbe avvenuto il compromesso storico tra Dc e Pci. Dopo una crisi infinita, e una catena di omicidi che avevano riguardato gli incaricati a formare il nuovo governo, i capi della Dc si accordarono per affidare la guida del governo a uno sconosciuto. «Tutti si sarebbero accontentati di non veder prevalere i rivali», scriveva l’autore, si rivelò essere poi il giornalista Gianfranco Piazzesi. «E così fu. L’incarico fu dato a Ruggero Bertolon, un coltivatore diretto della campagna vicentina. I ministri furono sorteggiati, uno per regione. Nessuno protestò, e la saldezza del quadro politico venne nuovamente assicurata». Chissà che non sia un’idea: un governo Bertolon.