La copertina dedicata dall'Espresso ai cronisti di frontiera del nostro Paese, giornalisti che combattono la mafia dal territorio, senza ribalta, per informare e mettere in discussione il potere, racconta di una missione essenziale. E ricorda come il giornalismo di qualità abbia ancora «un impatto fondamentale sui meccanismi democratici e sui processi sociali», come riprende ora Matteo Scanni, direttore dei “DIG Awards”, festival dedicato a “Documentari, inchieste e giornalismi” che si terrà dal primo al tre giugno a Riccione.
Sulla scena ci saranno in questo caso inchieste video. Con una giuria internazionale, guidata dal cofondatore di The Intercept Jeremy Scahill, che indicherà i lavori vincenti fra oltre 200 opere arrivate per il concorso da tutto il mondo. Accanto alle proiezioni, dibattiti e laboratori che servono, spiega Scanni, a «far incontrare nuove generazioni e a condividere strumenti trasparenti per sostenere le inchieste che valgono. Vorremmo essere un crocevia di autori, progetti e produttori. Perché il giornalismo investigativo ha in Italia molto pubblico, potenzialmente, ma pochissimo spazio. Per questo il nostro obiettivo è creare occasioni, dare opportunità».
Le opere in concorso, racconta, parlano «di corruzione, diritti violati, di nuovi ghetti, guerre, ma anche delle conseguenze dell'economia globalizzata. Sono lavori d'inchiesta o reportage. Che io chiamerei però semplicemente di giornalismo di qualità. Un giornalismo che richiede tempo e soldi». Su cui in Italia si investe troppo poco. «La situazione italiana in questo senso non è paragonabile a quanto vediamo in Francia, Germania o Gran Bretagna. Mancano fondi strutturali, come potrebbero essere quelli del Centre National du Cinéma francese, che sostiene anche gli approfondimenti, e non solo i film. Per finanziare documentari di questo tipo non ci sono punti di riferimento», riflette Scanni: «Ma soprattutto manca, spesso, la consapevolezza da parte delle reti televisive, specialmente pubbliche, del ruolo che svolge e dovrebbe svolgere l'informazione da parte di chi ha voce».
Fare giornalismo investigativo, continua: «significa applicarsi a un tema e portare alla luce elementi nuovi. Non solo riassumere, riferire. Ma scavare». Per farlo, bisogna innanzitutto scrollarsi di dosso vecchi dogmi: «Il grande giornalismo, ad sempio, non è mai “neutrale”, non insegue una forzata “obiettività”. È sicuramente opinionated, nel senso che ha dietro un autore, uno sguardo, una capacità di leggere dei fenomeni. E di portarli in superficie», Con un alert: «quando penso ad “autori” non mi riferisco al protagonismo a volte stucchevole di alcuni narratori. Ma alla capacità di avere una visione».
Nelle ristrettezze, c'è della luce, sostiene il direttore del festival: «Stiamo vedendo crescere anche in Italia una generazione di giovani autori e videomaker che hanno molta più consapevolezza», spiega: «Che sanno di dover mettere insieme percorsi non tradizionali per sostenere i propri progetti, cercando alleati anche all'estero. Giovani che si fanno meno illusioni ma che hanno voglia di dire la loro. Nei documentari che vediamo ci sono un valore e un'energia tali...».
È a loro che si rivolge il festival, per far conoscere i meccanismi produttivi, per insegnare ad articolare progetti che sappiano sfidarsi anche nelle arene europee. «Il futuro del giornalismo investigativo? Sarà sempre più collaborativo», conclude: «Le inchieste importanti saranno condotte sempre più attraverso consorzi, team capaci di far convergere competenze miste (analisti, giornalisti, avvocati), in paesi diversi. Saperi e modalità stanno cambiando. A vantaggio dei nuovi autori».