Bacchette d’assalto: gli eredi di Claudio Abbado alla conquista del podio
Giovani, preparati, aperti al mondo. Chi sono i nuovi direttori d'orchestra. «Poche le donne. Ma è un fatto storico: oggi non c’è discriminazione»
Effetto Federer: così, in un’inchiesta del settimanale inglese “The Economist”, il veterano direttore d’orchestra Marco Armiliato ha descritto il boom dei giovani colleghi connazionali sparsi per il mondo. «L’Italia sta vivendo questo fenomeno: un famoso professionista ispira molti giovani a seguire lo stesso percorso». Il fatto che gli italiani delle generazioni successive agli Abbado e ai Muti abbiano calcato le loro orme cosmopolite potrebbe non essere del tutto sorprendente.
Ma la vera novità è che oggi questi musicisti tra i 20 e i 45 anni riescono a programmare la loro attività con scadenze addirittura decennali, grazie alle possibilità che arrivano dall’estero. I teatri d’opera nostrani - il pane e il burro della produzione musicale del Belpaese, così li definisce “The Economist” - sono perlopiù attraversati da periodi di crisi: l’opera lirica per decenni ha traghettato la cultura e la lingua italiana in giro per il mondo, con i suoi grandi autori e i suoi titoli più celebri.
Ma oggi, raccontano i dati di “Operabase”, le produzioni vengono spesso cancellate e gli artisti pagati in ritardo, i festival economizzano, sono scarsi i finanziamenti, specie se tutto viene rapportato a ciò che avviene in paesi come Germania, Francia e Inghilterra. Quindi, tentando di costruire l'identikit della giovane bacchetta italiana, c'è da considerare la grande disponibilità ad andare a cercare nuove occasioni di ingaggio in giro per il mondo. Ce ne sono ovunque, di nostri connazionali sul podio: in Cina come nei paesi mediorientali, in Australia come nelle Americhe. Un’altra circostanza che spiega il loro successo è il repertorio. Significativo è il fatto che, in media, a farla da padrona nei festival stranieri siano spesso nomi e titoli italiani. Tra i primi cinque compositori più eseguiti nel mondo infatti tre sono nostri compatrioti (Verdi, Puccini e Rossini) e tra le prime dieci opere più rappresentate in assoluto ben otto hanno libretti nella nostra lingua, contandovi il “Don Giovanni” e “Le Nozze di Figaro” di Mozart.
A spiegare questo successo è anche la preparazione. Un altro veterano, Daniele Gatti, attuale responsabile del Concertgebouw di Amsterdam, spiega: «Le due più importanti linee di sangue sul podio sono l’italiana e la tedesca. Come mai? Sono convinto che nei nostri conservatori la preparazione non sia così scarsa come taluno sostiene. Prima di tutto siamo l’unica nazione in cui prima di andare a imparare direzione d’orchestra devi aver fatto almeno 6 o 7 anni di composizione. Questo non è richiesto all’estero. Là, uno suona per un po’ la tromba e poi prende la bacchetta e va a dirigere. Ma per diventare un importante direttore è meglio avere il controllo del brano musicale nella sua complessità».
Anche Andrea Battistoni, veronese di trent’anni, direttore della Tokyo Philharmonic Orchestra, pensa che la scuola italiana sia forte di «direttori che imparano fin da giovani ad affrontare con rigore lo studio delle partiture e che crescono poi nel teatro d’opera, cercando di impratichirsi il più presto possibile dei mille segreti che questa professione comporta». E mette il dito sulla piaga: «L’aspetto più delicato è come questo contatto col mondo del teatro sia lasciato all’intraprendenza personale e alla fortuna del singolo giovane direttore, raramente supportata da un ponte tra il mondo dei conservatori e quello della professione». E qual è stata la “molla” che l’ha fatta avvicinare alla bacchetta? «Ho visto nel suono dell’orchestra sinfonica, prima da ascoltatore, poi da violoncellista e infine come aspirante direttore, la possibilità di esprimere il mio mondo interiore, di portarlo alla luce. Un bisogno tutto privato cui è seguita in un secondo momento la passione per lo studio dei meccanismi che compongono le partiture e che permettono alle emozioni di divenire suono». Quali consigli darebbe all’aspirante direttore? «Di non farsi scoraggiare da chi dice loro: “È troppo presto per salire sul podio!”. Prima si comincia a prendere confidenza col proprio strumento, l’orchestra, meglio è. La strada per possedere la conoscenza e l’esperienza necessarie a potersi definire veramente direttori d’orchestra è talmente lunga che io, dopo dieci anni di attività professionale, comincio solo ora a vederci un po’ più chiaro. Conviene quindi mettersi in cammino il più presto possibile».
Una delle stelle di questa nuova generazione è Michele Mariotti, pesarese 38enne, responsabile musicale del Teatro comunale di Bologna. Gli danno del raccomandato, ricordando il padre Gianfranco, storico sovrintendente del Rossini Opera Festival, e lui risponde con i fatti, con il suo talento: tanto per dirne una, nella prossima stagione sarà ospite con tre spettacoli dell’Opéra di Parigi. Che cosa ha in comune con le altre bacchette nate nel nostro paese? «C’è qualcosa che fa parte del nostro Dna. Vivere l’opera in un certo modo, l’importanza che si dà al linguaggio, la pronuncia, la musicalità della parola. Noi italiani queste cose ce le abbiamo dentro». E cosa consiglia ai giovanissimi? «Il rispetto e la conoscenza del passato sono alla base del futuro e del progresso. Il saper ascoltare chi ci sta attorno. Il non fingere, non copiare, essere se stessi, perché quando ci troviamo dinanzi a un’orchestra abbiamo cinquanta-sessanta persone che ci scannerizzano e dobbiamo esser forti e preparati per il dialogo». Con gli strumentisti bisogna allora essere «autorevoli e non autoritari. Accettare le loro idee, quando sono migliori delle nostre. Si è perso questo aspetto democratico del fare musica».
Francesco Lanzillotta, 41enne romano, figlio di violoncellista e organizzatore musicale, direttore del raffinato Macerata Opera Festival, sostiene che ciò che contraddistingue la scuola di bacchette nostrane «si può allargare anche agli strumentisti. È la ricerca di un suono e di un fraseggio che sia identificativo dei mille colori che un musicista della nostra nazione porta dentro di sé». La sua vocazione è sbocciata «come un percorso inevitabile, nato parallelamente allo studio della composizione, l’altra mia grande passione; volevo dirigere i miei pezzi e mi iscrissi al corso di direzione in conservatorio». Al direttore apprendista consiglia anche lui «lo studio della composizione, quindi armonia e contrappunto, la fuga, orchestrazione, la variazione: sono tappe imprescindibili per avvicinarsi alla bacchetta».
Anche il papà di Lorenzo era un musicista, il direttore Marcello Viotti morto a cinquant’anni per un ictus che lo ha colpito sul podio. Ventotto anni, nato a Losanna da famiglia di origine italiana, incoronato migliore bacchetta emergente agli International Opera Awards, mostra un’altra faccia della nuova generazione di direttori, quella del “ragazzo della porta accanto”: ama la boxe, il surf, il mare d’Italia. Come è entrato nel mondo delle grandi orchestre? Dopo gli studi a Lione ha svolto un’intensa attività di percussionista con molti ensemble. Essere uno strumentista gli ha dato l’opportunità di veder lavorare tanti grandi maestri. Inoltre, stando a contatto degli esecutori, ha potuto conoscere la loro particolare psicologia.
Pure Jader Bignamini, cremasco quarantunenne, viene dalla pratica di strumentista. Racconta: «Ho iniziato a suonare a nove anni il clarinetto piccolo. Nella mia famiglia non c’era nessun musicista», la mamma casalinga, il papà operaio metalmeccanico dell’Olivetti, «a 10 anni sono entrato in banda. Amavo molto il mio strumento, ma ero incuriosito anche dalle partiture. Quando avevo 19 anni il direttore della banda smise di dirigere e mi chiesero se volevo provare: l’ho fatto e mi è piaciuto». Tanto che ormai è di casa nei maggiori teatri di tutto il mondo.
Come Bignamini, anche il trentanovenne palermitano Gaetano d’Espinosa non è figlio d’arte ma di genitori insegnanti, è stato orchestrale (violinista) e ha avuto modo di farsi apprezzare in patria alla guida della Verdi di Milano. Precedentemente, dal 2001 al 2008, è stato Konzertmeister della gloriosa Staatskapelle di Dresda. A quel periodo risalgono il debutto come direttore d’orchestra alla Konzerthaus di Berlino e l’incontro decisivo con Fabio Luisi, che lo invitò come suo assistente a Vienna. Dalla Milano bene proviene il trentaquattrenne Daniele Rustioni, attuale direttore Principale dell’Opéra National de Lyon e dell’Orchestra della Toscana. «Non mi ci vedevo nei panni del manager, come mio padre, però mi è servito per tenere i piedi per terra», chiarisce. Le numerose esperienze lo hanno fortificato. «Arrivare dall’estero accresce le probabilità di dirigere in Italia», dice.
Una cascata di capelli rossi, il gesto ampio ed espressivo, la 45enne romana Speranza Scappucci, figlia di giornalista e di insegnante, un passato di maestro collaboratore, è la capofila delle italiane sul podio, che hanno fra i nomi più promettenti Maria Luisa Macellaro 37enne palermitana, Beatrice Venezi 28enne lucchese, Valentina Peleggi 35enne fiorentina.
La Scappucci non crede che per le donne sia problematico esercitare questa professione. «In giro per il mondo ho trovato gente in gamba in maniera equa, uomini o donne. E anche per la mia precedente attività di pianista e maestro collaboratore, non ho mai subito alcuna discriminazione di genere». Per lei i numeri minoritari sono «una contingenza storica, un retaggio del passato. Questa professione per duecento anni è stata prevalentemente maschile perché la società era organizzata così. Stiamo assistendo a ciò che è avvenuto per le donne-pilota o per le donne-ministro».
Altri nomi da tenere d’occhio? Eccoli: Matteo Beltrami, genovese 42enne che ha rilanciato il Teatro Coccia di Novara; Valerio Galli, viareggino 38enne, specialista pucciniano; Michele Gamba, 34enne milanese di casa a Berlino, assistente di Daniel Barenboim; Giacomo Sagripanti, Pier Giorgio Morandi, Daniele Calligari, Alberto Maniaci, Giampaolo Bisanti.