Marco. Fausto. Marta... Testimoniare le loro storie è già un atto di disobbedienza civile  e di attivismo politico

In un articolo sull’Espresso la scrittrice Michela Murgia dichiarava in modo inequivocabile cosa vuol dire oggi schierarsi: «Tirare una linea netta tra come è legittimo agire e come non lo è, e dire in modo inequivocabile che oltre quel confine… c’è qualcosa che cambia del tutto le regole dello stare insieme».

E quel che, a mio avviso, in questi mesi sta cambiando radicalmente le regole dello stare insieme democratico è lo spostamento capillare e martellante del discorso pubblico, istituzionale e dell’informazione sui profili social di alcuni membri di questo governo. Dopo la democrazia diretta gestita dalla piattaforma di Casaleggio, l’informazione diretta non sottoposta a verifica o a contraddittorio, rilanciata in rete in un caos violento di opinioni e consensi fomentati da chi riveste ruoli istituzionali delicatissimi con toni così asseverativi da renderne irrilevante il tasso di verità.

Proprio l’idea distorta secondo cui un discorso diretto non può che essere autentico mi sembra il pericolo più grave che oggi stia correndo il nostro Paese, la radice di un male su cui può edificarsi ogni arbitrio e ogni menzogna.

Ed è in questo territorio dell’indifferenza riguardo alla verità che dovrebbe incunearsi il ruolo dell’intellettuale così come lo ha incarnato una delle figure più lucide di questo tempo, Alessandro Leogrande, che alla fine de “La frontiera” (2015) definiva «l’unico modo di poter guardare all’orrore del mondo» come fa Caravaggio nel Martirio di San Matteo alla «giusta distanza», ma «dentro la tela, accanto alle cose». E il suo modo di stare accanto alle cose aveva molto a che fare con la capacità di dar voce agli altri, a chi quelle cose le aveva attraversate.
Dare la voce agli altri, andando oltre se stessi. Credo che questo sia oggi il compito più importante di chi ha un briciolo di visibilità o credibilità: far emergere almeno la punta dell’iceberg di un panorama che non rumoreggia, ma è molto più vasto di quanto non si creda. Così, io che scrivo da un’isola come la Sicilia che ha segnato spesso le sorti politiche d’Italia e che è stata rappresentata come la terra di chi attende il “reddito di cittadinanza”, dirò di giovani uomini e donne che, secondo la narrazione imperante, apparterrebbero alla generazione sconfitta e frustrata, per raccontarne la capacità di stare accanto alle cose, e di starci meglio della sottoscritta quando si parla di difesa di diritti, di testimonianza del male del mondo, o di progetti talmente innovativi da scardinare il modo di pensare impresa, lavoro, qualità di vita di una comunità.

Dirò di Marta Bellingreri, 32 anni, laureata all’Orientale di Napoli; dottorato di ricerca internazionale in Gender Studies in the Middle East, attivista, giornalista freelance soprattutto per testate internazionali come Al-Jazeera English, che da dodici anni vive tra la Sicilia e vari Paesi mediorientali: Tunisia, Siria, Libano, Giordania. E dirò del suo collega Alessio Mamo, un chimico diventato fotografo professionista per necessità e per passione. Entrambi hanno testimoniato storie di fughe e speranze. Ma sono due i progetti che hanno condiviso. Uno sui tribunali iracheni davanti ai quali sono stati portati gli uomini dell’Isis: e, nelle pagine di Marta, ho visto rinnovarsi la banalità del male, il confine labile tra vittima e carnefice, il modo in cui la normalità della vita quotidiana finisce per ricoprire gli orrori, soprattutto nel racconto delle case ritornate ai legittimi proprietari le cui figlie, che aprono la porta ad Alessio e Marta un anno dopo, non sanno niente di quel che si è consumato tra quelle mura.

L’altro progetto oggi invece è una mostra itinerante, “L’ospedale di tutte le guerre”, inaugurata ad Amman, con foto di Alessio e testi di Marta. Un lavoro durato un anno e mezzo nel più grande ospedale del medio oriente di Medici senza Frontiere in Giordania. Un reportage sulle ferite di guerra che devastano corpi ed esistenze, ma anche su come tornare alla vita. «Come raccontare la bellezza in un luogo di guerra». «Come arrivare a fotografare con delicatezza…» sono le domande che trovano una sola risposta: mettersi alla giusta distanza accanto alle cose, attendere che la diffidenza si trasformi in desiderio di raccontare. Da questa attesa e dalla fiducia arriva la foto della ragazzina irachena Manal con cui Alessio Mamo ha vinto il World Press Photo, 2° posto, sezione People.

Dirò di Fausto Melluso. «Militante volontario» si definisce. Responsabile Migrazione Arci Sicilia e Presidente del Centro Arci Porco Rosso aperto a Ballarò perché «qui c’era già un tessuto associativo molto fitto che andava dal mondo cattolico al mondo laico: l’oratorio di Santa Chiara, il coworking MoltiVolti, il Centro Astalli, Mediterraneo Antirazzista, che da 11 anni pratica l’integrazione attraverso lo sport». Un esempio di come tessere trame di relazioni territoriali (Sos Ballarò) per riqualificare un quartiere e, allo stesso tempo, uno sportello per offrire un aiuto di primo livello agli immigrati, in collaborazione con le istituzioni e con «la clinica legale per i diritti umani», avvocati volontari e studenti di giurisprudenza che dal 2013 offrono assistenza a migranti e richiedenti asilo. «E la stragrande maggioranza sono avvocatesse», precisa Fausto.

Dirò di Marco Cascio Mariana, geologo, con un master in protezione civile, che a 47 anni ha rimesso in gioco il proprio percorso lavorativo, fondando x-pop, una startup innovativa, con un capitale sociale di 50 euro, specializzata, tra le altre cose, in pianificazione smart di città e comunità. Così, x-pop ha messo a punto il primo piano di smart city per la città di Menfi. L’obiettivo è far dialogare in digitale i diversi strumenti di pianificazione di un territorio e avere un monitoraggio continuo dei dati che permetta di valutare istantaneamente la ricaduta delle scelte compiute sulla qualità della vita delle persone. «O abbiamo un controllo e una visione condivisa della gestione dei dati tra organi governativi, tessuto culturale, imprenditoriale e cittadini», precisa Marco, «o diventeremo sempre più pedine di strategie economico-politiche sotto algoritmi a beneficio di chi li sa gestire e programmare. Al centro della nostra startup, con cui abbiamo vinto Padova Smart city 2015, c’è la persona».

E sulla persona, sulla libertà di scelta, sul valore del tempo ragiona Danilo Costa, 30 anni, laureato in informatica, fondatore di Coderblock, una piattaforma digitale che nasce dalla «constatazione di una presenza di professionisti digitali in Italia a spasso assurda, considerata l’enorme richiesta del mercato inglese e americano». L’unica piattaforma che non si limita a mettere in contatto aziende e liberi professionisti, ma gestisce anche la collaborazione, offrendo vari strumenti, tra cui un monitoraggio che associa una «reputazione» ad aziende e freelance, e uno spazio di lavoro: un ufficio virtuale in 3d che, con un visore di realtà virtuale, ti catapulta attorno a un tavolo ovale all’altro capo del mondo.

Barriere e confini geografici in «questa dimensione in cui lavori per obiettivi, da remoto, con aziende che operano su mercati e territori diversi» non significano più niente per Danilo che favorisce collaborazioni tra liberi professionisti in cui la reputazione diventa uno dei parametri fondamentali per scegliere con chi lavorare (come azienda e come freelance) in un mercato del lavoro sconfinato. «Però aiuti l’economia locale», precisa Danilo. «Perché i soldi li guadagni in America, ma poi li spendi in Sicilia».

«Avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza… di tutto il nostro entusiasmo…», scriveva Gramsci nel 1919. E, ascoltando queste voci di uno spicchio d’Italia che può orgogliosamente stare nel mondo (visti i riconoscimenti e viste le attenzione di cui godono intelligenze così), senti le parole d’ordine di sovranisti e xenofobi marcire in bocca come cibo avariato buono per alimentare un consenso sterile, non per creare opportunità e costruire un futuro condiviso.