Carlo Lucarelli: «Nell'Italia di oggi il mio commissario De Luca non avebbe più scuse»

Una nuova indagine per il poliziotto fedele servitore dello Stato durante il fascismo. E il suo autore provoca: nel 2018 non avrebbe giustificazioni, così come non le abbiamo noi. Non si può essere distratti quando un ministro dice: venitemi ?a prendere e poi vedrete la gente che fa

Se il mio commissario De Luca vivesse adesso, non avrebbe scuse. Mi spiego. I personaggi della narrativa vivono su due binari temporanei paralleli, due stringhe cronologiche, una a direzione unica e l’altra a doppio senso. Uno, il primo binario, è quello della cronologia dei romanzi in cui appaiono, più a partire dalla data di uscita che dal momento in cui l’autore ha finito di concepirli. Da questo punto di vista il commissario è nato nel luglio del 1990, ventotto anni fa. Concepito, il commissario, per dare una risposta ad una domanda che avevo incontrato per caso, e che ai sensi del mio ragionamento sul fatto che oggi De Luca non avrebbe scuse, è particolarmente importante.
Mi spiego.
Raccoglievo materiale per una tesi di laurea in storia contemporanea - mai terminata - sulla polizia al tempo del fascismo, e avevo appena intervistato un vecchio maresciallo che aveva cominciato la sua lunga carriera nell’O.V.R.A., la polizia politica di Mussolini. La cosa strana era che per quarant’anni, finché non era andato in pensione, si era sempre occupato più o meno di politica. Come “ovrino” aveva perseguitato e schedato antifascisti, poi, dopo la Liberazione, attraverso complesse vicende anche quelle tipicamente italiane, era finito nella polizia partigiana dove aveva perseguitato e rastrellato ex fascisti, e poi nella polizia degli anni successivi per la quale aveva perseguitato e arrestato ex partigiani. E cosi via, trovandosi ogni volta ad occuparsi di quelli che erano stati prima colleghi e referenti politici.
Ad un certo punto mi è venuto spontaneo chiedergli: «Maresciallo, scusi, una domanda: ma lei per chi vota?».
Perché ero curioso di sapere se gli fosse capitato di mettere le manette a qualcuno e gli fosse dispiaciuto, tipo «guardi, anch’io la penso come lei, però purtroppo, cortesemente, se mi dà i polsi», e invece lui mi ha guardato male e mi ha detto, duro, «cosa c’entra, io sono un poliziotto!» e l’intervista è finita lì.
Non mi è sembrata una risposta sufficiente.

Non dico per me, quanto proprio per lui. Perché ci sono momenti, credo, in cui dire «sono un tecnico, è il mio mestiere, ho fatto solo il mio dovere, che c’entro io», ecco, forse non basta, e infatti a volte non è bastato ad evitare di finire contro un muro, in prigione o al limite sul giornale.

Non potevo più discuterne con il maresciallo, e così ho cercato qualcuno che potesse aiutarmi mettendo in scena i meccanismi che stavano dietro quella domanda, un altro poliziotto, naturalmente, un commissario, per esempio. E siccome l’ho cercato nell’ambito della narrativa, con la fantasia dello scrittore, ho potuto dargli quelle due caratteristiche che un personaggio deve necessariamente avere perché io riesca a raccontarne la storia.
Una contraddizione: il mio De Luca lavora nella polizia fascista, e pure in un settore particolarmente fascista, ma fascista non è.

Un’ossessione: il mio commissario è un detective da giallo, votato interamente al caso a cui lavora. Una tensione più verso la soluzione geometrica del mistero, la sua matematica dimostrazione, che nei confronti della Giustizia o della Verità, con le iniziali maiuscole.

Trovato il commissario l’ho infilato in guaio da giallo, appunto, in un momento storico in cui dire «sono un poliziotto» forse non sarebbe bastato, e mi sono messo di lato a guardare, come fanno gli scrittori del mio tipo e come faccio sempre io.

Sono arrivato in fondo al mio romanzo, sono successe tante cose, cose che mi sono piaciute, che mi hanno appassionato, che mi hanno sempre sorpreso, ma non ho trovato la risposta alla mia domanda.
Anzi, ne ho incontrate tante altre, di domande, e anche più complesse. Tra cui quella tecnicamente necessaria per costruire una serie, e cioè cosa succede ancora al protagonista dopo l’ultima pagina del libro, altrimenti si sarebbe fermato tutto lì, per me a quel giovedì di luglio del 1990, e per il mio commissario al 25 aprile 1945.
Non sto divagando. L’ho presa necessariamente alla lontana ma ci arrivo a riflettere su cosa farebbe il commissario De Luca se vivesse adesso.
Non avrebbe scuse.

Perché dopo il primo libro, ecco che comincia il secondo binario temporale, quello a doppio senso, dal momento che si estende come una lunga stringa sia prima che dopo quell’ultima pagina, 25 aprile 1945. Tempo narrativo, però, quindi più flessibile rispetto a quello reale, un po’ più generoso, anche se non troppo per gli scrittori del mio tipo, che ad una certa verosimiglianza ci tengono.
In “Carta Bianca” il mio commissario stava a cavallo dei trent’anni. In “Intrigo Italiano”, nel ’54, sta attorno ai quaranta e in quest’ultimo “Peccato Mortale”, torniamo indietro al 1943, sta sotto i trenta, quanto esattamente non importa, è la flessibilità generosa di cui parlavo.
Anche perché ad un certo punto gli ho dato un altro parametro esistenziale determinante, quando l’ho fatto entrare in polizia nel 1928, un anno in cui ci fu una leva speciale che ammise al rango di commissari anche i non laureati - puntiglio da fuori corso che non ha mai finito la tesi, lo so - e quindi allora doveva avere più o meno vent’anni.

Risultato: ad occhio e croce il commissario De Luca dovrebbe essere nato attorno al 1908.
Per cui se vivesse oggi dovrebbe avere circa centodieci anni, un longevo vecchino con il bastone e il plaid sulle ginocchia, fotografato assieme al sindaco il giorno del compleanno, magari ancora lucido e acuto come il Numero Uno di Alan Ford. (Bella idea per un personaggio nuovo, me la segno).
Oppure, per quelle magie che solo la narrativa ti permette, ancora uguale a sé stesso, come Maigret, Sherlock Holmes, o il commissario Sanantonio.
Ma non avrebbe scuse.
Perché quando De Luca entra in polizia come vicecommissario aggiunto, spinto dalla tensione verso la soluzione del mistero appresa dalla lettura dei romanzi di Émile Gaboriau ed Edgar Allan Poe, Mussolini è al governo già da quattro anni. È quello il sistema in cui il giovane De Luca si mette in tasca il tesserino da poliziotto, quello fascista, che esprime il Ministro degli Interni e tutte le Eccellenze dell’Amministrazione che è tenuto a salutare a braccio teso e con il voi. Ha sicuramente giurato fedeltà al Re e allo Statuto, ma le leggi che si trova ad applicare sono già quelle “fascistissime” del 1926, con le altre che seguono, e il mondo in cui si trova progressivamente a vivere è quello del fascismo.
Per come ho imparato a conoscerlo, anche prima, da liceale, per esempio, non è che il commissario avesse una gran coscienza del momento storico che stava vivendo, e comunque non se ne occupava. Un ragazzo di provincia, figlio di una onesta famiglia di piccola o media borghesia, tranquillo e per niente politicizzato, gran lettore di romanzi, che poi entra in polizia.
Una polizia che non aveva nessuna necessità di apparire democratica. Neanche prima, ai tempi di Giolitti, quando i deputati socialisti andavano ai comizi con le tasche delle giacche cucite per evitare che i delegati di pubblica sicurezza ci infilassero dentro un coltello, per farli arrestare. Figuriamoci dopo, col fascismo, quando apparire garantista è solo sintomo di debolezza.
Va bene, lui non è così, non è fascista, non è un violento, non è neppure un prepotente, è abbastanza in gamba da vedere quello che succede, la corruzione, l’arbitrio, le ipocrisie del potere e le manovre del sottogoverno. Lo sa che quel certificato di morte su cui un medico compiacentemente leale ha scritto tubercolosi come causa del decesso, significa che il fermato è stato picchiato troppo forte sulla schiena. Lo vede che il TSO, il trattamento sanitario obbligatorio, emesso dall’autorità di PS nei confronti di un anarchico, poi diventerà una diagnosi, sempre ad opera di un medico lealmente compiacente, di mania politica che lo sbatterà per sempre in manicomio. Ha imparato anche, magari un po’ a sue spese, che il socio del fratello dell’amante del gerarca di turno, ecco, quello no, meglio non toccarlo.
Però lui certe cose non le fa, di certa gente lui non se ne occupa, lui è un cane da caccia, uno della criminale, impegnato a correre dietro a quelli che per tutti i regimi e in ogni tempo, da qualunque punto di vista, sono i cattivi: gli assassini da romanzo giallo.
E così, distratto dai brillanti successi di cui è costellata la sua carriera, un passo dopo l’altro, il mio commissario De Luca scende sempre più in basso.
Non dirò come, quanto e con quali conseguenze, ci ho messo tutto un romanzo, “Peccato Mortale”, a raccontarlo. Credo di aver capito, però, come sia potuta avvenire una certa resistibilissima ma non per questo meno difficile discesa agli inferi.
E non solo per il mio commissario: in fondo ho scritto sempre dello stesso argomento, in tutti i miei romanzi sia storici che contemporanei, e cioè di un certo modo di essere italiani, e qui, per evidenziarlo, ho scelto un momento molto particolare, pieno di contraddizioni, come quello che va dalla caduta di Mussolini all’arrivo dei tedeschi. Un mondo alla rovescia, dove, come dice uno dei personaggi, «sono finito dentro per aver detto cose che oggi sarebbero un editoriale del Corriere della Sera».
Non sto giustificando il mio commissario e gli italiani come lui, ci mancherebbe. C’è stata gente migliore che lo ha capito subito come sarebbero andate a finire le cose, e di occasioni per farlo ce sono state parecchie.
Già il 3 gennaio del 1925, quando Mussolini sfida la legge assumendosi la piena responsabilità del delitto Matteotti: che vengano a prenderlo, lui parla col favore del popolo e della sua rivoluzione. Va bene, De Luca era ancora al Liceo, ma con le leggi razziali del ’38 no, li ha visti, i colleghi, schedare e censire gli ebrei. E nel 1940, quando Mussolini finisce di sfidare gran parte dell’Europa e porta l’Italia nella catastrofe della guerra. E così via, sempre peggio.

Distratto, ossessionato, abituato a certe cose, il mio commissario non se ne accorge. È solo, dice, «un poliziotto», anche se ormai sa anche lui che a giustificarsi non basta.
Adesso, però, non avrebbe scuse.
Dopo settantatré anni di democrazia basata sui principi di una Costituzione come la nostra, dopo aver studiato e capito quello che è successo, dopo aver visto trame e intrighi, bombe, golpe e stragi, metterla in costante pericolo quella democrazia così bella e così fragile, dopo aver visto diritti e principi affermarsi nelle coscienze, anche loro così belli e così fragili, e così sempre in pericolo, ecco, adesso non avrebbe scuse.

Lo saprebbe cosa significa quando un uomo di governo dice venitemi a prendere e poi vedrete la gente che fa.

Quando ci sono persone classificate e schedate in quanto categorie etniche e culturali - la parola razza è di per sé un’aberrazione e non la uso - persone che non possiamo cacciare via perché purtroppo sono, ancora, cittadini nostri. Quando chi commette un reato, e addirittura in divisa, viene coperto perché i nostri ragazzi non si toccano. Quando un paese mette i pugni sui fianchi e fa la faccia feroce agli altri, magari a torso nudo, per mostrare i muscoli con la scusa di difendere la Patria in cielo, in terra e in mare. Quando i sentimenti dominanti sono l’odio, la rabbia e la voglia feroce di farla pagare a qualcuno.
Certo, sarebbe fortunato, perché a fare il poliziotto, oggi, gli basterebbe davvero applicare la legge, e con quella difendere la democrazia e la Costituzione.
Ma non avrebbe scuse per essere distratto.
Non le aveva allora e tantomeno adesso.
Non ce le ha più nessuno.

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