Dieci anni dopo la crisi, l'Europa non ha imparato la lezione. Deve riscoprire solidarietà e diritti contro gli egoismi del passato

Massimo Cacciari
Sarà certo, il prossimo, un anno decisivo, per il nostro Paese e per l’Europa. Guai però a impostare il confronto opponendo “ismi” a “ismi”, tra “europeisti”, da una parte, e “populisti”, “sovranisti”, o come diavolo si vuol chiamarli, dall’altra. Posta così la faccenda, temo che la battaglia per i primi sia già perduta in partenza. Se “Monsieur le Peuple” esiste soltanto al nobile fine di sbarrare confini e individuare Nemici, altrettanto poco esiste “Madame l’Europe”. L’Europa sono tante, così come il popolo sono soggetti diversi, interessi anche contrastanti, che di “liquido” hanno ben poco, culture che si confrontano anche polemicamente. Sono i Capi o gli aspiranti Capi a volere il popolo Uno. Sono i nemici dell’unità politica europea a difenderne un’immagine centralistica, burocratica, astorica, incapace di riconoscerne l’intrinseco pluralismo, tanto quanto coloro che gelosamente custodiscono sovranità perdute da mezzo secolo almeno.

Le idee di Europa sono tante, e occorre dire per quale ci si batte, non che si è “europeisti”. Ci sono “europeisti” corresponsabili in pieno della catastrofe culturale, etica e politica che attraversiamo. Ci sono, invece, “europeisti”, a partire dal XVIII secolo, ben prima di molti dei “padri fondatori”, che ne hanno (invano?) coltivato un’immagine di “Arcipelago”: uno spazio composto da realtà ben distinte, da tempi distinti, e tuttavia in navigazione gli uni verso gli altri, senza alcuna velleità egemonica o omologante. Realtà capaci di distinguere ambiti diversi di responsabilità e di competenza, cioè di sovranità: per alcuni la sovranità deve appartenere all’Arcipelago nel suo insieme, per altri alle singole isole che lo compongono. Evitando con cura sovrapposizioni e conflitti di interessi. E per entrambi le procedure debbono essere democratiche, sulla base del principio di maggioranza. O nulla potrebbe mai funzionare. In che materie debba esercitarsi la sovranità comune, è evidente: sono quelle stesse per le quali il primo pilastro non può che essere quello della solidarietà , le politiche monetarie, economiche e sociali, la politica estera, in cui va strategicamente collocato lo stesso, tragico problema del governo dei flussi migratori e dell’integrazione.

A questa idea di Europa si è fermamente opposta negli ultimi decenni un’altra, dominata da astratte finalità omologanti, all’ombra delle quali ha prosperato ogni sorta di egoismo statale. La grande crisi di cui si “celebra” il decennale lo ha messo a nudo, e proprio a partire dalla culla della civiltà europea, l’Ellade. Tra i padri fondatori del “populismo” attuale, ormai egemonizzato quasi dovunque da leader e ideologie di pura Destra, vi sono certamente questi “europeisti”. L’idea del tutto reazionaria che si possa oggi essere sic et simpliciter “padroni a casa propria”, che nel mondo contemporaneo si possa essere economicamente, produttivamente, scientificamente competitivi restando nel confine degli antichi staterelli, e che si possa in tali confini mantenere una reale autonomia - il successo di questa leggenda, degna di chi si sente “padrone” quando sta rintanato nel suo villino difeso dalle statuette dei sette nani, è l’effetto inevitabile delle forme in cui, dopo l’euro, l’unità politica europea non è stata perseguita e in cui si è affrontata, di conseguenza, la crisi di dieci anni fa (pronta a ripresentarsi).

Una visione “naturalistica” dei processi e delle grandi trasformazioni cui facciamo riferimento parlando di “globalizzazione” ha dominato le politiche dell’Unione dopo l’89. Si è pensato che questa “globalizzazione”, a differenza di quella di fine Ottocento, avrebbe fatto funzionare spontaneamente o quasi le diverse aree del mondo a mo’ di vasi comunicanti. Facendo sviluppare Paesi in via di sviluppo, permettendo di entrare nelle “meravigliose sorti e progressive” a quelli “arretrati”, spostando forza-lavoro da una parte all’altra in base alle auree leggi della domanda e dell’offerta. In fondo, non era avvenuto così tra Europa e Stati Uniti nella “prima globalizzazione”? E tra Italia e altri Paesi europei fino al secondo dopoguerra? Allo stesso modo si è pensato - o fatto come si pensasse - che la moneta unica avrebbe trainato fatalmente il processo dell’unità politica. Sempre, cioè, si è operato in base a un ferreo presupposto: che le pretese “leggi” dell’Economico fossero al potere . Si badi: non che avessero uno straordinario potere e che occorresse il più ravvicinato confronto con esse, che è cosa necessaria (e a vuote parole contestata oggi dai “populisti”), ma che esse detenessero la sovranità effettiva o almeno dovessero guidarne l’esercizio.

La crisi del 2007-2008 ha dimostrato drammaticamente il carattere tutto ideologico di tale costruzione, ma siamo ben lungi dall’esserne usciti. Si tratta, con tutta evidenza, di una costruzione che de-politicizza l’idea dell’unità europea. È curioso, e molto istruttivo: assolutamente analoghe sono le strategie delle destre nazionalistiche che muovono all’assalto di conservatori e popolari. Come? Non sono proprio queste invece a rivendicare di nuovo il “put politics in command”? Osservate con me: l’asse della loro azione è caratterizzato dalla eliminazione di ogni “corpo intermedio” tra il “popolo”, in quanto tale massa di puri individui , e l’esercizio della sovranità. La radicale de-politicizzazione del “pubblico” va perciò di pari passo alla insofferenza, tipica del “populismo”, nei confronti di ogni funzione che non appaia legittimata da un voto popolare, nulla importa in che forma questo venga espresso (con una scheda una tantum , con un clic o altro). La destrutturazione di ogni autonomia all’interno del corpo sociale, e cioè appunto la sua irrilevanza politica, è il perno di ogni idea di democrazia plebiscitaria, quale in tutta evidenza si manifesta nelle attuali destre europee. Guai a sottovalutarne il peso e anche le profonde radici storiche, che l’Unione europea era chiamata a superare e che con la sua azione, almeno negli ultimi due decenni, ha invece contribuito a rinfocolare. Il problema sta nel fatto che i “sovranismi” giunti al potere manifesteranno inevitabilmente tutta la propria impotenza non dico a contrastare, ma a “dialogare” con le potenze economico-finanziarie e finiranno con l’esserne mille volte più sudditi dell’Europa semplicemente commerciale-monetaria.

Immaginate lo scenario, apocalittico o quasi: staterelli animati da ideologie nazionalistiche in impotente lotta contro le potenze cosmopolite, e costrette perciò a massacrarsi a vicenda per mantenere un proprio spazio vitale (fu detto Lebensraum ). No, non accadranno Grandi Guerre come una volta - allora erano ancora grandi Stati che si illudevano di poter svolgere un ruolo globale e egemonico. Nessuna Guerra, bensì concorrenza spietata (sul piano commerciale e fiscale, proprio al fine di attrarre quei “poteri forti” che si voleva combattere!), sotto lo sguardo impietoso dei grandi Imperi, di cui uno solo, nel bene e nel male, mantiene un qualche rapporto con la nostra cultura e un qualche interesse per i destini di questo antico Centro del mondo, sempre più propenso a precipitare in una vecchiezza sine nobilitate.

Il prossimo anno deciderà: se qualche spirito vitale emergerà in nome di un’Europa delle nazioni, della solidarietà, dei diritti, e perciò a difesa dell’“isola” di ciascuno, quel precipizio potrebbe ancora essere evitato. Altrimenti, con Euripide, canteremo «Europa, talamo d’Ade».