Un paese dilaniato, violento e spaventato. Che, con le elezioni alle porte, potrebbe tornare al suo passato

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«Queste sono elezioni impossibili: incerte, confuse, violente. Non era mai accaduto nella storia del Brasile. Il paese si trova davanti a un baratro». La voce del professor Oscar Vilhena, docente di Diritto costituzionale alla Fondazione Getulio Vargas, è quasi un grido di dolore quando gli chiediamo quale futuro vede per il gigante dell’America latina. Un grido che esprime il senso di smarrimento vissuto dai 147 milioni di cittadini chiamati a eleggere la futura guida del paese fra una settimana, domenica 7 ottobre. Basta un’immagine per descrivere plasticamente questo sentimento: è la foto scattata il 7 settembre scorso durante il primo dei tre dibattiti televisivi programmati dal calendario elettorale. In studio erano presenti solo 9 dei 12 candidati. Gli altri tre erano stati costretti a rinunciare. Sono quelli che spiccano nei sondaggi. Ma erano assenti.

Il primo è Luiz Inácio Lula da Silva, 72 anni, il padre della sinistra brasiliana, l’ex operaio diventato sindacalista e poi presidente (2003-2011) per undici anni di fila. È in carcere, dove sta scontando una condanna a 12 anni e 1 mese per corruzione passiva e riciclaggio. Il secondo si chiama Jair Bolsonaro, 63 anni, leader del Partito Social Liberale (Psl), una formazione di estrema destra. Dal 6 settembre scorso, l’ex capitano dell’esercito, famoso per le sue battute al vetriolo, omofobo e razzista, giace nel letto di un ospedale a San Paolo dopo essere stato aggredito a coltellate durante un bagno di folla per un comizio nello Stato del Minas Gerais. Il terzo è Cabo Daciolo, 43 anni, indipendente, percentuale minima nelle preferenze di voto, si è ritirato in montagna dove sta compiendo uno sciopero della fame.

La loro assenza dalle tribune elettorali è un paradosso per il Brasile che affronta le più importanti consultazioni politiche della sua storia. Soprattutto quelle dei primi due: uno in carcere, l’altro in ospedale dopo aver rischiato di morire per una coltellata inferta all’addome. Si tratta delle due figure più rilevanti del panorama elettorale. La destra estrema e la sinistra. Nonostante la condanna in appello, poi fatta scontare con un verdetto del Tribunale Superiore Federale (Tsf), la massima istanza giuridica del Brasile, deciso dopo 12 ore di un drammatico e contrastato dibattito, Lula raccoglie ancora il 38 per cento dei consensi.

C’è voluto un nuovo, decisivo intervento del Tribunale superiore elettorale (Tse) per metterlo fuori gioco: i giudici hanno applicato il Clean Act, la legge che prevede l’inammissibilità dei condannati in appello nei registri elettorali. Al vecchio padre della sinistra brasiliana e sudamericana non è rimasto altro che abdicare a favore del suo delfino, il giovane ex ministro dell’Educazione nei governi del Pt ed ex sindaco di San Paolo Fernando Haddad. Un’investitura rimandata fino all’ultimo, alla vigilia della data fissata dal Tribunale elettorale, arrivata dopo tre confronti tra i due in cella. Con Lula furioso, per la serie ininterrotta di sentenze a lui sfavorevoli, e insieme rassegnato a un destino che solo pochi mesi fa neanche immaginava. Il rischio era l’esclusione del Partido dos Trabalhadores dalla corsa verso Planalto. Le divisioni nello stesso vertice del partito tra “lulisti” e “realisti” hanno finito per rimandare una scelta che a molti sembrava irrispettosa nei confronti del leader dietro le sbarre, ma che ha finito per azzoppare il piano B da tempo messo in piedi.

Vicepresidente del Pt, unico leader politico a non essere stato coinvolto nella tempesta “Lava Jato”, la grande inchiesta sulla corruzione che ha dilapidato le finanze pubbliche e travolto la mente del sofisticato sistema di mazzette, la holding delle costruzioni Odebrecht, Fernando Haddad avrà il difficile compito di drenare su di lui quel serbatoio di voti che i disciplinati militanti e i semplici simpatizzanti concentravano sul nome di Lula. L’esordio è stato un successo. Nonostante sia sconosciuto nel profondo sud e nel grande nord est del Brasile, il volto nuovo della sinistra è riuscito a crescere, in soli cinque giorni, di 11 punti (dall’8 al 19 per cento) nelle preferenze di voto.

Adesso tallona il suo rivale, l’ex parà della destra radicale, l’uomo nero frequentatissimo sui social e nella rete, famoso per le sue battute omofobe («Castrazione chimica per i gay»), contro le donne («Non devono lavorare perché restano incinte»), contro artisti e femministe («Favoriscono la pedofilia»), contro l’ex presidente Fernando Henrique Cardoso e il miliardario di origini ungheresi George Soros («Sponsorizzano il comunismo»). Ma soprattutto per i suoi proclami intrisi di vero odio che fanno ben capire cosa sarebbe, con Jair Bolsonaro presidente, il Brasile del futuro. Dai plausi alla dittatura militare (1964-1985) di cui auspica un ritorno, con conferme e smentite che ritmano i suoi discorsi fino alla battuta più cliccata sul suo profilo Facebook («L’errore più grande dei militari fu di torturare troppo e uccidere poco»), all’invito per i poliziotti a sparare per uccidere («Perché un agente che non uccide non è un agente»).

La forza di Bolsonaro è sul web. In Brasile è lo strumento di comunicazione e informazione più usato. Ha oltre 3 milioni di follower tra Instagram e Facebook; 2 solo su Twitter. Oltre la metà (60 per cento) dei suoi potenziali elettori sono giovani, con meno di 34 anni. Appartengono alla classe media, hanno studiato, conseguito una laurea ed esprimono quell’anima conservatrice diventata dominante nel paese. L’aggressione subita da parte di uno sconosciuto ex militante dell’estrema sinistra si è trasformata in un volano che lo ha proiettato in testa ai sondaggi, con un 28-30 per cento che gli garantirà il passaggio del primo turno. Sia Ciro Gomes, candidato del Partito Democratico laburista (Pdb), sia Gerarldo Alckim, del Partito Socialdemocratico del Brasile (Psdb) di centro destra, restano distanti: all’11 e 7 per cento. Stessa cosa per la quarta competitor. Marina Silva, del Partito Network, ambientalista con profonde radici evangeliste al punto di essere fermamente contraria alle unioni dello stesso sesso, registra addirittura un calo con il 6 per cento dei consensi.

Il Brasile del dopo Lula, della recessione, della disoccupazione e della violenza è un paese polarizzato tra due estremi. Come accade in moltissimi paesi dell’America latina si trova a fare i conti con il distacco dalla politica che è diventato un fossato. L’incriminazione di mezzo Parlamento, le centinaia di arresti tra piccoli e grandi amministratori, assieme ad altrettanti industriali sono stati la costante di un declino che non è stato solo economico ma anche morale.

La gente, e quindi gli elettori, ha scoperto che non bastava spodestare Dilma Rousseff con un impeachment da molti considerato un golpe bianco per risolvere il dissesto. Che le responsabilità del collasso finanziario, con le casse pubbliche prosciugate da una pratica corruttiva diffusa e tollerata, non potevano essere addossate solo ai 13 anni ininterrotti di sinistra al governo. I brasiliani hanno scoperto che rubavano e dilapidavano tutti. Indistintamente. I due grandi eventi sportivi (Olimpiadi e Mondiali) che tanto avevano fatto sperare hanno lasciato come testimoni di questo disastro gli stadi, le piste, le piscine, le palestre completamente abbandonati e svuotati dalle bande di ladri. La crescita è crollata fino a 3 punti sotto zero; le amministrazioni hanno avuto difficoltà a pagare gli stipendi per poliziotti, pompieri, infermieri e insegnanti. Si è arrivati a oltre 13 milioni di disoccupati. La violenza ha ripreso slancio.

I due Cartelli egemoni in Brasile, il Comando Vermelho (Cv) e il Primeiro Comando da Capital (Pcc), hanno rotto la loro storica alleanza che aveva garantito una sorta di pace sociale per 20 anni. I primi, dominanti a Rio de Janeiro, hanno dovuto stringere nuovi patti con la decina di bande che agiscono nella sterminata periferia della città carioca. Per fronteggiare l’offensiva dei secondi, forti a San Paolo, decisi a conquistare fette sempre più grandi di territorio. Non è raro leggere delle telefonate allarmate degli abitanti delle favela alla polizia nelle quali denunciano l’arrivo, nottetempo, di piccoli eserciti di sicari mandati in avanscoperta per occupare nuovi quartieri. La crisi economica si è riflettuta sul sociale: sono stati tagliati i cardini di quel welfare creati dai governi Lula, la classe media si è ritrovata improvvisamente povera, i ricchi sono diventati ricchissimi. Conta la forza in questa giungla di piccoli e grandi interessi dove il mercato illegale sostituisce quello reale. Non c’è solo la droga destinata ai mercati statunitensi e europei che impone il controllo del corridoio amazzonico che unisce la Bolivia con il Perù e la Colombia. Ci sono i taglieggi, le estorsioni, le protezioni su ogni bene di prima necessità. Sono risorte le milizie, Cartelli formati da ex poliziotti e vigili del fuoco, molti ancora in servizio, che pretendono l’acquisto di acqua, gas, benzina, lo stesso cibo, oltre agli abbonamenti per tv e collegamenti internet, dai loro fornitori. Un Anti-Stato che domina nelle favelas abitate da decine di migliaia di famiglie. Al punto di diventare un’impresa che investe, compra, costruisce case e scuole, indica chi ne può usufruire e chi ne è escluso.
Le denunce cascano nel vuoto. Perché si tratta di una realtà radicata sul territorio, difficile da estirpare.

L’omicidio di Marielle Franco, l’attivista umanitaria e consigliere comunale a Rio de Janeiro, è stato l’esempio più eclatante di una battaglia persa in partenza. La donna aveva denunciato più volte la violenza arbitraria della polizia con gli omicidi di ragazzi e ragazze che sembravano vere esecuzioni. A distanza di 6 mesi da quell’assassinio non c’è ancora un responsabile. In questi due anni in cui abbiamo vissuto a Rio siamo stati testimoni dell’aumento costante di una violenza spicciola, quotidiana, quasi arrogante. Piccoli delinquenti che assaltano, sparano, uccidono anche solo per uno smartphone. Non è tanto un problema di impunità ma di esasperazione. La ciudad maravillosa si è lentamente spenta. Hanno chiuso negozi e bar famosi, come i ristoranti e i club che l’avevano resa celebre in tutto il mondo negli anni 80 del secolo scorso.

Jair Bolsonaro ha fiutato l’aria. Ha raccolto l’umore dei suoi ex compagni d’armi, lo sfogo di migliaia di persone che sui social esprimono la loro rabbia e impotenza, assieme alla paura che ti costringe a convivere con il coprifuoco. L’estremista di destra ammette di non sapere nulla di economia; la sua terapia per riportare il Brasile ai fasti del passato si basa su ricette semplici. Ma dice di volersi affidare ai tecnici che porterà a Plantalto in caso di vittoria. Il bisogno di sicurezza, di rilancio, di garanzie, di quell’orden y progreso che campeggia sotto la bandiera giallo-oro, lo spingono sempre più in alto. La Confindustria lo appoggia, così come la stessa potente Confederazione delle Chiese evangeliche. A difesa di una democrazia fragile e minacciata c’è il blocco dei diseredati che Lula era riuscito a riscattare dalla miseria e dalla povertà. Lottano per evitare un ritorno al buio del passato. Ma la vera diga che si oppone alla prospettiva diventata realtà è formata dalle donne. Diviso e assopito, il movimento femminista ha ripreso vigore dal 30 agosto.

Un gruppo ha aperto un profilo su Facebook “Le donne contro Bolsonaro” e ha raccolto in una settimana 400 mila adesioni. Adesso sono 1,2 milioni. Per l’uomo che vuole governare il Brasile con il pugno di ferro sono un pericolo. Le donne rappresentano il 52,5 per cento dell’elettorato, 77,3 milioni degli aventi diritto al voto. Sono la maggioranza e si recano tutte alle urne. La squadra di attivisti sul web che affianca lo staff di Bolsonaro ha cercato di boicottarle con nuovi profili social alternativi e con intrusioni informatiche attribuite a misteriosi hacker. L’effetto è stato opposto. La battaglia è intensa, furibonda. Si tratta di convincere gli indecisi che sono ancora il 30 per cento. Per far crescere il consenso attorno a Fernando Haddad e lanciare la sfida finale a Jair Bolsonaro.