La signora, una bella donna sulla quarantina, stringe forte la pistola con entrambe le mani. Giubbotto leggero, pantaloni mimetici grigi, grandi cuffie antirumore, occhiali, punta l’arma verso una delle quattro sagome ancorate a terra da pneumatici. «Fuoco! Centrato! Riassesta, non devi abbassare, metti sulla linea mediana l’asse della canna! Brava, bravissima!», la incalza l’istruttore, mentre lei indietreggia continuando a sparare. Alle loro spalle un gruppetto di allievi più o meno esperti - in maggioranza donne, giovani e meno giovani - non vede l’ora di mettersi alla prova e impugnare la semiautomatica.

Soffia un vento torrido al Pisana Shooting Club, una landa tra la zona di Malagrotta e l’aeroporto di Fiumicino, uno dei tanti poligoni privati disseminati in tutta Italia. Oltre sessanta, soprattutto al Nord, secondo le stime della rivista specializzata “Armi e tiro” che di recente li ha censiti, considerato che neanche il ministero dell’Interno è in grado di fornirne il numero esatto. A cui si aggiungono le 263 sezioni del Tiro a segno nazionale, dalla Lombardia alla Sicilia. Poligoni per chi pratica il tiro a segno sportivo e, allo stesso tempo, palestre a cielo aperto per gli appassionati di tiro operativo, addestrati a usare le armi per difesa personale.

Sono sempre più numerosi gli italiani che hanno paura e invocano sicurezza, nonostante la riduzione dei reati. Pronti a maneggiare una pistola o un fucile da usare all’occorrenza, in caso di aggressione, rapina o violazione del domicilio. Senza contare chi flirta per gioco con revolver e carabine, travestito da cowboy con tanto di musica country-western di sottofondo, cimentandosi in gare di tiro al bisonte corrente (sagome di metallo) nei poligoni autorizzati.

Circa quattro connazionali su dieci, del resto, sono favorevoli all’introduzione di criteri meno rigidi per il possesso di un’arma da fuoco, secondo il Rapporto Censis sulla filiera della sicurezza in Italia, in netto aumento rispetto a pochi anni fa. Mentre risultano in crescita le licenze per porto d’armi: quasi un milione e quattrocentomila nel 2017, il 13,8 per cento in più rispetto al 2016. Negli ultimi tre anni hanno scoperto la passione per i poligoni di tiro circa 200mila italiani, molti dei quali per imparare a difendersi. Basta scambiare due chiacchiere con i frequentatori del Pisana Shooting Club per rendersi conto che le statistiche non sono campate in aria.

«In Italia c’è un bisogno crescente di sicurezza, di sentirsi protetti nella propria abitazione o per strada. Un bisogno primario, legato all’esigenza di sopravvivere di fronte a una minaccia incombente, grave e attuale per la vita», sottolinea Antonino Troia durante una pausa del suo seminario tecnico-promozionale, all’ombra di un pergolato tra colleghi, amici e allievi. Di difesa se ne intende il generale di brigata, 61 anni di cui quasi quaranta nell’arma dei carabinieri, fisico atletico e capelli corti brizzolati, paracadutista del reggimento Tuscania con un curriculum costellato di missioni in Iraq, Balcani, Afghanistan, e operazioni contro la criminalità organizzata: «L’uso delle armi per difendersi nasce da questo bisogno primario, non ha nulla a che vedere con la volontà di autorealizzazione, tipica dell’attività sportiva. Confonderli può determinare conseguenze molto gravi sul piano pratico», aggiunge il generale, che sul tema ha pubblicato anche un libro, “L’addestramento e la cinestesia per il tiro da sopravvivenza” (Falco editore).

Troia ci tiene a mostrare il basco color amaranto dei parà nella tasca interna della giacca, poi spiega con tono concitato come, quando ci si trova in un conflitto a fuoco, anche in ambiente domestico, non c’è tempo per mirare. Lo stress, l’istinto di sopravvivenza, domina ogni comportamento con tutti i rischi connessi, per questo serve una formazione adeguata. «Quando entra in casa una persona armata, ostile e pericolosa, per la legge attuale la prima cosa da fare è barricarsi in una stanza e chiamare le forze dell’ordine, lasciando la comunicazione aperta. Avvisare ad alta voce l’intruso che si è armati e pronti a sparare in caso di aggressione. Se la minaccia diventa potenzialmente mortale, deve essere neutralizzata anche con l’impiego di un’arma da fuoco. La cautela è d’obbligo», aggiunge Troia.

Sarà, ma la sensazione è che in Italia di pistoleri improvvisati ce ne siano già troppi in circolazione, come mostrano ogni giorno le cronache, e che il Far West sia dietro l’angolo. Per non parlare dei casi di tiro al bersaglio con pistole e carabine ad aria compressa contro rom e immigrati. Alla riapertura dei lavori parlamentari, il tema della legittima difesa (articolo 52 del codice penale) è destinato a infiammare il dibattito politico, mentre in commissione Giustizia al Senato proseguirà l’esame dei cinque disegni di legge di riforma, presentati rispettivamente da Lega, Forza Italia (due), Fratelli d’Italia e un testo di iniziativa popolare. Come previsto nel contratto per il governo gialloverde, sottoscritto da Luigi Di Maio e Matteo Salvini, l’idea è estendere la fattispecie: in particolare, l’obiettivo della proposta del Carroccio è modificare la proporzionalità tra difesa e offesa, introducendo una presunzione di legittima difesa per chi si reagisce con le armi a una intrusione con violenza o minaccia di uso di armi. Di fatto, il superamento del principio di proporzionalità, anche se resta l’obbligo per poter sparare di avere un’arma regolarmente denunciata e il porto d’armi.

Oggi, se si violano questi principi si cade nell’eccesso colposo, previsto dall’articolo 55. Contro questa modifica si è scagliata anche l’Associazione italiana dei professori di diritto penale, mentre il Movimento 5 Stelle esclude che la riforma spalanchi la strada alla liberalizzazione. «Non basta che qualcuno varchi la soglia della mia casa per avere il diritto di sparargli. Ma una cosa è certa: chi entra lo fa a suo rischio e pericolo, e nel caso voglia sopraffare me e la mia famiglia con violenza, è giusto considerare legittimo l’uso della forza», ragiona Marco Lorenzini, 58 anni, appassionato di armi, prima in campo sportivo poi nel tiro operativo.

Titolare a Milano di una società che gestisce centri medici polispecialistici, una decina di anni fa prese il porto d’armi da difesa per il timore di essere rapinato. «Avevo paura di non essere all’altezza, perché è una grande responsabilità, come avere un’auto da corsa dopo aver guidato una utilitaria fino al giorno prima. E invece, per assurdo, il possesso dell’arma mi ha sedato. È uno strumento che finora, per fortuna, non ho mai dovuto usare», aggiunge Lorenzini, che nel frattempo ha ottenuto la licenza di istruttore di tiro operativo nel poligono del capoluogo lombardo. «È un lavoro che faccio a titolo gratuito», tiene a precisare per prendere le distanze da chi invece, cavalcando l’onda della paura, organizza corsi a prezzi salati.

Lorenzini collabora con Alessio Carparelli, tenente colonnello dei carabinieri di lungo corso, ideatore e formatore di Tirooperativo.it, scuola di formazione teorico-pratica per chi possiede un’arma e vuole utilizzarla in condizioni di sicurezza. Un corso della durata di due giorni, sedici ore in tutto di cui sei in aula e dieci di tiro. «Negli ultimi anni c’è stato un cambiamento epocale, i crimini violenti e le invasioni domestiche sono all’ordine del giorno, le persone si sentono molto più fragili», dice Carparelli: «Il nostro corso si rivolge a tutti coloro, donne e uomini, che avvertono l’esigenza di preservare l’incolumità propria e della famiglia. È solo l’inizio di un percorso formativo per accrescere la possibilità di sopravvivere. In giro c’è tanta confusione, persone che non sanno gestire un’arma in un conflitto a fuoco. Perché sparare è facile, non sparare è molto più difficile», conclude l’istruttore.

Collegato alla legittima difesa c’è poi l’altro tema, assai controverso, che riguarda il porto d’armi. Troppo facile ottenerlo, secondo alcuni: oltre al porto d’armi effettivo per difesa personale (oltre 18 mila nel 2017, in calo progressivo negli ultimi cinque anni secondo il Viminale) esistono le altre licenze, per la caccia e per il tiro a volo, senza contare il nulla osta per chi eredita un’arma, tenuto a denunciarla alla questura. In questo caso si possono detenere fino a un massimo di tre armi comuni da sparo, sei armi sportive e un numero illimitato di fucili da caccia. Un piccolo arsenale domestico. Per prendere il porto d’armi basta essere incensurati, non essere tossicodipendenti o alcolisti cronici, non soffrire di turbe mentali o psichiche.
«Il corso di maneggio delle armi dura solo mezza giornata. Così, facendone richiesta alle questure, si può ottenere una licenza che dura sei anni», commenta Piergiulio Biatta, presidente dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal), a Brescia. Secondo Opal, tra l’altro, le licenze per uso sportivo o venatorio in molti casi diventano una scorciatoia per detenere un’arma per la difesa personale. Se si vuole modificare la legge sulla legittima difesa, sostiene Biatta, bisognerebbe cambiare anche la legge sul porto d’armi. «Va studiata la possibilità di introdurre una specifica licenza per la difesa abitativa o dell’esercizio commerciale, utilizzando armi solo a scopo difensivo, come ad esempio il taser, dunque non letali. Ma soprattutto intensificare i controlli sulle persone». Una cosa è certa, comunque: più armi in circolazione, più uccisioni. Negli Stati Uniti, nel 2016 si sono verificati oltre 14mila omicidi volontari con arma da fuoco (4,5 ogni 100 mila abitanti), contro i 150 avvenuti in Italia, dove le leggi sono più restrittive, pari a 0,2 per 100 mila residenti (Rapporto Censis). I numeri non mentono.