Riscaldamento globale, bisogna agire adesso per fermare l'Apocalisse
Nel 2018 un nuovo record di emissioni di CO2. Per contenere il disastro servono ?900 miliardi di dollari l’anno da qui al 2050, l’uno per cento del Pil globale. Rapporto sulla sfida che decide il nostro futuro
A qualcuno piace caldo. A Satana, per esempio. È nota la preferenza diabolica per le alte temperature e lo ha ricordato all’Italia, se non al mondo, il capo di gabinetto del ministro leghista Lorenzo Fontana. Cristiano Ceresani ha individuato nell’anti-Cristo il responsabile del cambiamento climatico, contro il parere dello stesso pontefice che in Laudato si’, enciclica pubblicata nello stesso anno degli accordi di Parigi sul climate change (2015), attribuisce il disastro prossimo venturo a «una conseguenza drammatica dell’attività incontrollata dell’essere umano». Ma Francesco che ne sa? Nel contesto politico dilagante, in Italia e nel mondo, uno vale uno e chi ha sorriso della rivelazione tv di Ceresani dovrebbe pensarci due volte.
La Cop24, la ventiquattresima conferenza sul clima tenuta in dicembre a Katowice in Slesia, nel cuore dell’Europa a trazione sovranista, è stata una partita dal risultato incerto. Per alcuni è stata una vittoria, per altri un pareggino. Per Greta Thunberg, quindici anni e grinta da leader, è un trionfo dell’ipocrisia e una sconfitta del futuro. «Bisogna tirare il freno a mano», ha detto la studentessa svedese dal palco di Katowice ricordando gli impegni presi tre anni fa a Parigi per salvare il pianeta da una catastrofe a puntate. Le emissioni di CO2 sono in crescita costante e il 2018 sarà peggio del 2017. «L’unico momento in cui le emissioni sono scese è stato il biennio della crisi 2008-2009», dice Marco Bindi dell’università di Firenze, uno degli italiani autori dell’allarmante rapporto Onu-Ipcc pubblicato in ottobre.
Eppure a giugno del 2017 Donald Trump ha annunciato di volere uscire dagli accordi di Parigi sul clima e in occasione dei catastrofici incendi in California dello scorso novembre se l’è presa con le guardie forestali Usa minacciando di revocare i fondi federali. In Polonia ha mandato una delegazione a sostenere i grandi benefici dei combustibili fossili che stanno ammazzando il pianeta. Intanto i rappresentanti di Vanuatu, lo stato del Pacifico meridionale che sta già finendo sott’acqua, accusano di sabotaggio i negazionisti.
«L’obiettivo delle zero emissioni nel 2050 è ancora raggiungibile», dice Paolo Bertoldi del Joint research centre (Jrs) dell’Ue e coautore dell’allarmante rapporto Onu-Ipcc uscito in ottobre. «Certo non sarà facile. Se si va oltre un aumento di 1.5° tutti i fenomeni si moltiplicheranno per intensità e frequenza. Il Mediterraneo si riscalderà mettendo a rischio la biodiversità con un impatto importante sui sistemi produttivi italiani. C’è ancora molto da fare dal lato dei trasporti, delle biomasse, dell’assorbimento del carbonio ed è difficile capire che cosa fanno i singoli paesi. Di sicuro ognuno di loro è titolare di una quota di emissioni e ognuno di loro gioca ad aspettare i movimenti delle superpotenze».
La contrapposizione fra negazionisti e realisti si ripropone da cinquant’anni ossia dalla fondazione del primo gruppo di studiosi del clima nel 1968. È il Club di Roma, nato su iniziativa del torinese Aurelio Peccei, ex partigiano di Giustizia e libertà diventato industriale e manager Fiat. Quattro anni dopo, anche grazie a un finanziamento di 50 mila dollari da parte della Volkswagen, usciva “Limits of growth”, vero e proprio libro della Genesi per gli studi sul cambiamento climatico a firma di quattro scienziati del Mit poco più che ventenni: gli statunitensi William Behrens, Donella e Dennis Meadows e il norvegese Jørgen Randers.
“Limits of growth”, tradotto in trenta lingue con 30 milioni di copie vendute, ha polarizzato fin dall’inizio il dibattito. Con loro grande sorpresa gli scienziati del Mit si sono visti classificare come eversori bolscevichi o, nella migliore delle ipotesi, come seguaci del teorico del controllo demografico, l’inglese Thomas Robert Malthus. Se si pensa alla definizione dell’ultraliberista Friedrich Hayek, che definisce l’economia del capitale come il diritto di «produrre, vendere e comprare tutto ciò che è suscettibile di essere prodotto, venduto e comprato», l’accusa ha un vago fondamento.
Un pilastro della critica marxista si basa sulla dinamica di crescita esponenziale del capitalismo che non può conoscere «alcun limite morale o naturale». I riflessi di questo antagonismo vennero replicati con le critiche di Ronald Reagan a “Limits of growth” durante il discorso di insediamento del suo secondo mandato (1985). Il successore di Reagan alla Casa Bianca, George Bush senior, fu ancora più esplicito nel discorso alla conferenza mondiale di Rio de Janeiro, lo Earth Summit del giugno 1992: «Venti anni fa alcuni parlarono dei limiti dello sviluppo. Oggi sappiamo che lo sviluppo è amico dell’ambiente».
Oggi la divisione ideologica resta netta. Jair Bolsonaro, neopresidente del Brasile, promette di travolgere ogni resistenza ambientalista sullo sfruttamento intensivo dell’Amazzonia. In Europa i quattro del gruppo di Visegrad (Polonia, Cechia, Slovacchia, Ungheria) sono schierati su una posizione non interventista verso la minaccia ambientale mentre il movimento francese dei gilet gialli contro la carbon tax sul carburante introdotta dal governo Macron è stato strumentalizzato da Marine Le Pen fin da prima degli scontri di piazza che hanno portato a oltre 2 mila arresti e hanno obbligato Macron alla retromarcia. Il presidente francese aveva già perso a fine agosto una pedina prestigiosa della sua squadra di governo, il ministro della Transizione ecologica Nicolas Hulot, dimissionario perché deluso dall’immobilismo dell’esecutivo. [[ge:espresso:plus:articoli:1.330106:article:https://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2019/01/03/news/emissioni-gas-serra-1.330106]] In Italia, si segnalano gli scetticismi di Beppe Grillo sulla strage di alberi in Veneto e Friuli, nonostante il ministro grillino dell’Ambiente Sergio Costa, in visita a Katowice fino al 13 dicembre, abbia una posizione sensibile ai temi del cambiamento climatico. Che poi l’ex generale protagonista delle indagini sulla terra dei fuochi in Campania riesca a tradurre la teoria in pratica di governo è un altro discorso. Per adesso al suo attivo c’è un accordo sul clima con gli Emirati Arabi in settembre, una posizione contraria agli inceneritori chiesti dall’alleato leghista e una proposta di mettersi all’avanguardia dell’Ue nella riduzione delle emissioni.
La buona volontà non basta e viene dopo il consenso. Il tentativo grillino di inserire in manovra un’ecotassa sulle utilitarie da trasformare in bonus per l’acquisto di auto ecologiche è stato bocciato in un batter d’occhio da parte dell’alleato di governo Matteo Salvini («con il sostegno della Lega non passerà mai») e del comparto produttivo una volta tanto unito nella lotta tra imprenditori, Fca in testa, e una larghissima parte del sindacato.
Dittatori redenti Con questi dati di cronaca, il tema politico è se la democrazia sia il sistema più efficace per contrastare il cambiamento climatico in una finestra così stretta di anni utili per intervenire.
Dennis Meadows, coautore di “Limits of growth” e del sequel del 1992 “Beyond the limits”, propende a malincuore per il no. Oggi la risposta più energica in termini di contrasto al climate change viene, a sorpresa, dalla Cina post-maoista che ha annunciato il grande balzo in avanti per raggiungere gli obiettivi dell’accordo di Parigi (- 40 per cento di emissioni di gas serra entro il 2030). Il governo di Pechino, pecora nera dell’inquinamento su scala mondiale, investirà 2500 miliardi di yuan (circa 317 miliardi di euro) nella lotta al CO2 entro il 2020 creando 13 milioni di posti di lavoro nel settore delle energie rinnovabili.
L’India del democratore Narendra Modi sta mobilitando capitali pubblici e soprattutto privati con l’obiettivo di portare al 57 per cento la produzione di elettricità da fonti pulite entro il 2027. Nella lista degli investitori ci sono colossi come il gruppo Softbank del tycoon giapponese Masayoshi Son (20 miliardi di dollari nell’energia solare) e i francesi di Edf con 2 miliardi di dollari da investire nelle rinnovabili in India. In parallelo, il subcontinente ha bloccato l’apertura di nuove fabbriche alimentate a carbone e sta incentivando l’uso di veicoli elettrici.
Il primo e il secondo fra i paesi più popolati e più inquinati al mondo si stanno muovendo con una forza d’urto proporzionale alle loro dimensioni e applicando processi decisionali molto abbreviati.
Così non stupisce che il Marocco sia finito nella parte alta all’elenco compilato a ottobre dal gruppo di ricerca Climate action tracker. Il regno di Mohammed VI è all’avanguardia nell’applicazione di Parigi 2015 e punta a quota 42 per cento da energie rinnovabili entro il 2020 grazie alla costruzione del più grande impianto di energia solare del mondo. L’unico altro paese che ha la possibilità di raggiungere l’obiettivo di un aumento di soli 1,5° di temperatura è il Gambia.
Buoni propositi a parte, l’Italia fatica a emergere nelle classifiche della compliance ambientale.
Secondo l’analisi di Climate action su 56 paesi, la Svezia guida la graduatoria con un punteggio vicino a 75 punti su 100 ottenuto con una politica che mira a emissioni zero entro il 2045. Seguono Lituania, Marocco e Norvegia. L’Italia è sedicesima dopo India e Francia. I peggiori cinque sono gli Stati Uniti di Trump, seguiti da Australia, Corea del Sud e Iran. Ultima è l’Arabia Saudita di Mohammed bin Salman.
A marzo del 2017 era andata peggio. In un’altra classifica, quella del Climate leader board dell’Ue, l’Italia era penultima a pari demerito con altri sei paesi e la Polonia delle miniere di carbone ultima. Al tempo il governo Gentiloni e il suo ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, venivano segnalati fra quelli che «spingevano per indebolire la proposta della Commissione europea» sull’applicazione degli accordi di Parigi.
La finanza vota verde I predicatori del Cop 24 a Katowice si sono trovati fra l’incudine del potere governativo, il cui indice di gradimento finale è la creazione di posti di lavoro, e le imprese private, che hanno il profitto come parametro di giudizio finale. Le due istanze possono convergere verso una economia pulita capace di dare una spinta alla crescita valutata da uno studio della Global Commission on the Economy and Climate in 26 mila miliardi di dollari.
Il rapporto dell’Ipcc pubblicato in ottobre, una sorta di vademecum intermedio fra il quinto assessment (2014) e il prossimo in uscita nel 2022, sottolinea che l’investimento annuale in opere di mitigazione necessarie a contenere l’aumento delle temperature a quota 1.5° è stimabile in 900 miliardi di dollari da qui al 2050. Riferito al pil globale (74,5 trilioni di dollari nel 2016 contro 87,5 previsti per il 2018), la cifra oscilla poco sopra l’1 per cento. Un report recente di Bank of America-Merrill Lynch ipotizza che l’impegno contro il riscaldamento globale potrebbe creare 65 milioni di posti di lavoro.
Tra i più sensibili al tema ci sono proprio gli investitori privati cioè quelle istituzioni finanziarie, fondi, società di asset management e banche di investimento che hanno l’utile come stella polare. A giugno del 2018, quattro mesi prima che l’Ipcc lanciasse l’allarme, entità private che insieme gestiscono un patrimonio da 26 trilioni di dollari hanno chiesto ai paesi del G7 di aumentare il loro impegno contro il cambiamento climatico. A guidare la consorteria era, non certo a caso, il colosso della banca assicurazione Allianz che, come l’intero settore, si trova in prima fila a pagare i danni delle devastazioni indotte dai gas serra. E sono già passati dieci anni da quando un gruppo di fondi pensione svedesi ha chiesto alla Banca Mondiale di elaborare il primo “green bond”, un’obbligazione ambientalmente corretta che ha raccolto 500 miliardi di dollari a oggi. Secondo dati raccolti da Bloomberg, nel 2017 i bond verdi hanno raggiunto vendite record nell’ordine di 160 miliardi di dollari.
La finanza Usa ha già accettato di fare i conti con i disastri ambientali prossimi venturi dopo una serie di uragani, da Sandy nel 2012 a Florence nello scorso autunno. Ad aprile la newsletter di Jp Morgan asset management sull’energia ha indicato come possibile investimento la costruzione della barriera per proteggere le coste di New York e di parte del New Jersey (2,7 milioni di dollari al metro) sottolineando che i fondi pubblici non basteranno a pagare il conto e si dovrà ricorrere a emissioni obbligazionarie o ad appalti ai privati.
Le Seychelles, che sono minacciate da vicino come tutti gli stati composti da piccoli arcipelaghi, hanno da poco emesso il primo “blue bond” a sostegno di progetti di tutela dell’ambiente marino. Lo stesso ha fatto Fiji.
Fanny Mae, l’istituto di credito fondiario Usa scampato al fallimento durante la crisi dei subprime del 2008-2009, ha raccolto oltre 27 miliardi di dollari nel 2017 dalla vendita prodotti finanziari verdi.
Naturalmente non manca la speculazione ai limiti dello sciacallaggio di chi sta facendo incetta di terreni a basso prezzo in zone interne vicine ai paradisi immobiliari, come la Florida, destinati a subire l’impatto di tifoni, nubifragi e inondazioni sempre più frequenti. Per alcuni la distruzione può essere un affare da trasformare in cash a breve termine. Ma resta il fatto che le iene della finanza e del real estate andranno a raccogliere quanto seminato da una politica urbanistica irresponsabile. In inglese si chiama Urban-wildland interface. Sono le megaresidenze dei ricchi costruite in zone isolate, in mezzo alla natura e lontano dai centri di soccorso. Per un’ironia della storia le ville delle star di Hollywood, da Will Smith a Lady Gaga, da Orlando Bloom a Miley Cyrus, sono esposte al pericolo ambientale quanto le palafitte sull’Oceano lungo la costa dell’India orientale e del Bangladesh.
Doppio forno con CO2 La svolta ambientalista dei giganti Cina e India è uno dei pochi segnali che inducono all’ottimismo dopo il vertice di Katowice insieme all’approvazione di un libro delle regole e delle sanzioni che è il nuovo punto di riferimento internazionale. Bisogna però fare i conti con una certa quota di ipocrisia e di politica del doppio forno. La neovirtuosa Cina non mostra alcuna intenzione di sospendere gli investimenti nel turismo che stanno cambiando faccia alla costa in Cambogia e Vietnam.
Poi ci sono quelli che virtuosi non sono e forse non possono essere. I produttori di petrolio sono di solito agli ultimi posti nella classifica dell’economia pulita. È il caso dell’Iran e del suo nemico acerrimo, l’Arabia Saudita. Il reggente Mohammed bin Salman punta a investire 500 miliardi di dollari nella costruzione di Neom, la nuova smart city sulla costa nordoccidentale che porterebbe alle stelle i consumi energetici a combustibile fossile. Dopo l’assassinio su commissione del giornalista Jamal Khashoggi, le perplessità degli investitori internazionali e di archistar come Norman Foster hanno messo in stand-by Neom e l’altro colosso caro a Mbs, una centrale solare da 200 miliardi.
Fra i re del petrolio c’è la Norvegia di Jørgen Randers, uno degli autori di “Limits of growth”. Il regno scandinavo deve il suo benessere alla rendita del brent, il greggio del Mare del Nord che ha riempito le casse del più ricco fondo sovrano del mondo, il Norge bank investment management (oltre mille miliardi di dollari di valore). Una piccola parte di questa somma (50 milioni di euro) è finita nella banca dei semi agricoli, piantata in un bunker sotto il pack delle isole Svalbard. Ma fa uno strano effetto che uno dei paesi leader nella transizione verso le emissioni zero sia anche uno dei maggiori produttori globali di inquinamento. Un effetto ancora più strano ha suscitato la nota spese dello zar norvegese dell’ambiente presso l’Onu, Eric Solheim, costretto alle dimissioni a fine novembre per 500 mila dollari di aerei e alberghi.
Dissesto Italia Per restare alle contraddizioni dell’Europa, il gruppo a guida indiana e sede lussemburghese Arcelor Mittal ha da poco perfezionato l’acquisto dell’ormai ex Ilva di Taranto. Il governatore regionale Michele Emiliano si è visto rimandare al mittente la richiesta di decarbonizzare lo stabilimento. «Non c’è sostenibilità aziendale, se non lavoriamo sul carbone», ha tagliato corto il nuovo amministratore delegato Matthieu Jehl. Il manager ha poi mitigato l’impatto delle sue dichiarazioni con la promessa di investire 1,15 miliardi in bonifiche e di ridurre l’emissione di CO2 del 15 per cento. Il presidente Aditya Mittal ha poi chiarito che servono standard “verdi” uguali per tutti.
Su scala generale il Mediterraneo è, a parere unanime degli scienziati, uno dei punti più critici per il cambiamento climatico: acidificazione del mare, sommersione delle coste, spostamento verso a nord della fascia climatica temperata e conseguente desertificazione con danni all’agroalimentare e alla pesca, settori importanti dell’economia nazionale.
L’Italia ha, in più, la spada di Damocle del rischio idrogeologico. Combinando i dati più recenti di Istat e Ispra, l’istituto per la protezione e la ricerca del ministero dell’ambiente, il riassunto è il seguente. Case abusive: 20 per cento (50 per cento al Sud). Comuni a rischio idrogeologico (frane e alluvioni): 91 per cento. Quota del territorio complessivo esposta a massimo rischio: 16,6 per cento. Residenti nei territori vulnerabili: 7 milioni di persone con massima concentrazione in Emilia-Romagna, Toscana, Campania, Lombardia, Veneto e Liguria. Beni culturali minacciati: 38 mila. Il Wwf ha chiesto invano al governo una conferenza nazionale sui cambiamenti climatici.
Tradizionalmente, la politica italiana sceglie poco e male. Il caso delle inondazioni che minacciano il sito di stoccaggio di rifiuti radioattivi di Saluggia è parte di anni di indecisione sul deposito nazionale delle scorie nucleari, con i ministeri (Ambiente e Sviluppo) titubanti su una decisione impopolare.
Quando invece si tratta di investire miliardi di euro i appalti fuori controllo per opere di dubbia utilità come il sistema delle dighe mobili a Venezia, la città d’arte più direttamente minacciata dall’innalzamento delle acque, lo Stato dona generosamente.
«Io che ho combattuto il Mose perché la considero una pazzia ingegneristica», dice Luigi d’Alpaos dell’università di Padova, «non vedo l’ora che inizi a operare per capire se funziona o no. È vero che gli studi sul cambiamento climatico sono basati sulle modellazioni, che hanno un limite. Ma in laguna l’innalzamento delle acque è un fatto empiricamente dimostrato. Qui la domanda non è se il Mose possa reggere questo aumento di livello, perché la risposta è che può. Il punto è che in queste condizioni non sono più credibili le previsioni sul numero delle manovre e sulla durata delle chiusure, che sono destinate a crescere.
Se la laguna resta sbarrata per due o tre giorni, diventa anossica con danno per la fauna. Inoltre, cade l’idea di salvare la portualità veneziana. Nessun armatore spedisce una nave a Venezia perché stia giorni davanti alle dighe chiuse.
Gli olandesi, che dovevano sbarrare il canale dal mare fino al vecchio porto di Rotterdam, hanno scartato la soluzione delle dighe mobili perché aveva costi di gestione e manutenzione insostenibili».