Pubblicità

L'identità di Torino passa dalla scena rap

La musica di protesta, gli spazi riconvertiti, il nodo delle periferie. L’ex città-fabbrica sta cambiando. Ve la raccontiamo tra le rime dei suoi nuovi cantanti: Ensi, Willie Peyote, Muso, Shade e Fred De Palma (Foto di Martina Cirese per L'Espresso)


«Questione di lingua, mi spiego/ Conosco la tua senza Google Translator/ Ho il sangue meticcio da parte di mamma/ Un po’ del Montenegro/Sicilia da parte di padre/ Che per qualche metro non è nato negro». Scandisce le rime Ensi, nome d’arte di Jari Ivan Vella, voce di punta del rap italiano, aria da duro e fisico roccioso.

Intorno a lui, nella clip, si muove il pianeta intero: una ragazza sexy con i ricci afro, due tizi dai lineamenti orientali in tunica beige, un giovane albino, un ragazzo biondo che potrebbe venire dall’Europa dell’Est. “United Colors of Torino” verrebbe da dire, ma niente buonismo. Nella canzone “Tutto il mondo è quartiere” il rapper 33enne racconta la periferia, dove l’integrazione non è un pranzo di gala e i vecchi immigrati meridionali si mescolano con i nuovi - cinesi, romeni, africani - guardandosi spesso con diffidenza, anche se galleggiano sulla stessa barca traballante. «I soldi parlano la stessa lingua in tutto il mondo/La miseria non vede i colori come i cani./Ci sono storie ad ogni angolo e io ci ballo il tango», canta Ensi, padre catanese e madre veneta di origine nomade.
williepeyote-jpg

Figlio perfetto di Alpignano, il paese alle porte di Torino dove è nato e cresciuto, terra d’approdo dal Mezzogiorno per decenni, quando la Fiat e le aziende dell’indotto assumevano a rotta di collo. Altri tempi, adesso molte fabbriche hanno chiuso e la disoccupazione giovanile è alle stelle. «Qui siamo tutti terroni di seconda generazione, non c’è un piemontese doc neanche a pagarlo oro. Tutti pugliesi, siciliani, calabresi, veneti», sintetizza il rapper, piumino giallo e berretto nero di lana, mentre attraversiamo piazza Enrico Berlinguer circondata da palazzine tirate su nel dopoguerra, sotto la torre Telecom che i meno giovani chiamano ancora torre Sip, un cilindro grigio di cemento sbucato da un vecchio film di fantascienza.

Da ragazzo abitava con la famiglia in una di queste case - suo fratello Alex, alias Raige, fa anche lui il rapper - adesso Ensi vive a Milano in via Padova, il quartiere più multietnico del capoluogo lombardo. «La canzone “Tutto il mondo è quartiere” si ispira a questa zona di Milano ma è la metafora di tutte le periferie d’Italia. Sono fiero di essere italiano ma noi stessi siamo un popolo di immigrati», racconta il rapper alla vigilia dell’uscita del suo nuovo album “Clash”, freestyle e atmosfere introspettive.
shade-jpg

A Torino una generazione di musicisti trentenni, rapper e trapper, fa una musica con mille sfumature, dall’hip hop duro e puro fino all’indie e al pop da classifica. Si sfidano a colpi di rime sul tema dell’identità - in molti hanno genitori e nonni meridionali - e ragionano sul conflitto tra culture, in chiave ironica e autoironica: a volte in maniera quasi inconsapevole e leggera, appena accennata, oppure esprimono le proprie idee politiche in maniera esplicita. Ciascuno a proprio modo, per dire che Torino era e resta una città meticcia. Insieme ad alcuni di loro - Ensi, Willie Peyote, Muso e Shade, in gara in coppia con Federica Carta al prossimo Festival di Sanremo - abbiamo cavalcato la nuova onda musicale sabauda, dal centro alla periferia. Li abbiamo seguiti ai concerti, alle prove, nelle strade e nelle piazze, saltando qua e là tra i testi delle loro canzoni.

Il savoir faire incazzato della gente mia/ L’umore cupo grigio come il fumo della Fiat/ Dalla borghesia più ricca in corte a palazzo/ Agli immigrati clandestini di Porta Palazzo/ È il suo melting pot, il suo tessuto sociale/ Che mi ha reso ciò che sono nel bene e nel male», canta Ensi in “Torino State of Mind”, manifesto della torinesità in versione rap: «Quartieri con più santi che nel calendario: Santa Rita, San Paolo, San Salvario/ Dove gli Agnelli mangiano come un leone/ E fra i santi in paradiso scelgo sempre San Simone», il santo che dà il nome al liquore simbolo della città. Non facciamo in tempo a entrare nel bar che già ci riempiono il bicchiere, lo buttiamo giù d’un fiato e ci salutiamo con un abbraccio.
toro4-jpg

Melting pot in salsa sabauda
Negli ultimi anni Torino ha cambiato identità, per farsi un’idea bisogna allontanarsi dal centro storico. Qualche numero aiuta a capire. Anzitutto è sempre più spopolata: oggi conta poco più di 880mila abitanti, un calo demografico costante a favore delle zone confinanti, parzialmente attutito dall’immigrazione: i cittadini stranieri, in aumento rappresentano il 15 per cento della popolazione residente, quasi il doppio rispetto alla media italiana, concentrati nelle zone di Aurora, Barriera di Milano, Borgo Vittoria. Soprattutto romeni, marocchini, cinesi e peruviani. E non si sono fermati neanche gli arrivi dal Mezzogiorno: lavoratori e studenti, sparsi ai quattro angoli della città, frequentano l’università e contribuiscono a svecchiare la popolazione. Un po’ come gli immigrati che nel dopoguerra partivano dal Sud sui “Treni del Sole”, anche se oggi i numeri sono molto più contenuti. Basti pensare che tra il 1951 e il 1971 sbarcarono qui in 600 mila e la città superò il milione di abitanti.

Un tempo città-fabbrica, Torino cerca di diventare capitale dell’immateriale. Con luci e ombre: come indica l’ultimo Rapporto Rota, i turisti sono aumentati ma l’accoglienza segna il passo, le mostre attirano visitatori ma spesso il confronto con Milano non regge. La ricerca di una nuova identità passa attraverso uno dei luoghi emblematici dell’architettura industriale: le Ogr-Officine Grandi Riparazioni, costruite a fine Ottocento come stabilimento per la manutenzione dei treni, oggi riconvertite in polo culturale e di innovazione tecnologica.

Uno spazio enorme, 20 mila metri quadrati: nel piazzale di ingresso, come omaggio all’industria che fu e ai suoi lavoratori in gran parte immigrati dal Sud, campeggia una scultura in metallo nero di William Kentridge: “Procession of Reparationists” è una processione di addetti alla riparazione dei treni dal forte valore simbolico. «Ogr ha colmato un vuoto in una città in deficit di spazi per concerti», dice il direttore artistico Nicola Ricciardi entrando nella sala imponente destinata agli spettacoli dal vivo. L’elenco degli artisti ospitati è lungo: musica classica, Torino Jazz Festival, musica africana contemporanea (Tony Allen & Jeff Mills, Amadou & Mariam, Bombino), grandi nomi e artisti emergenti del clubbing e dell’elettronica.
toro2-jpg

Nonostante il fermento Torino non abbonda di luoghi per la musica dal vivo. Chiusi sette anni fa i Murazzi lungo il Po, la movida si è spostata a San Salvario e in altri quartieri, mentre resta in vigore l’ordinanza della sindaca Chiara Appendino contro la vendita notturna degli alcolici, dopo i tragici fatti di piazza San Carlo e della discoteca di Corinaldo. Tra i locali resiste Hiroshima Mon Amour, fondato nel remoto 1986 da un gruppo di giovani ex militanti di Lotta Continua. Roccaforte di cultura giovanile underground, organizza concerti, mostre e spettacoli teatrali. In zona Barriera di Milano, invece, Spazio 211 è un punto di riferimento per gli appassionati di hip hop e dintorni.

Rime hip hop al Teatro Regio
Per decenni i giovani rapper si sono dati appuntamento alle spalle del Teatro Regio, interminabili battaglie a colpi di rime e breakdance su una scalinata adesso quasi in disuso. Ora Shade è una star, ma da adolescente trascorreva tutti i pomeriggi da queste parti. Nei prossimi giorni salirà sul palco del Teatro Ariston, e magari qualche fan della prima ora storcerà il naso. «Ho imparato guardando Ensi, quando arrivava al Regio andavamo tutti nella speranza di fare due barre (i versi del rap, ndr) con lui. Quando torno qui mi viene il magone, mi piacerebbe vedere ragazze e ragazzi fare freestyle oppure trap. E invece è il deserto», dice Vito Ventura, il rapper torinese meglio noto come Shade, 31 anni, volto sbarbato da bravo ragazzo.

Ha scritto alcuni tormentoni che con il rap hanno poco a che fare, come “Amore a prima Insta”, “Bene ma non benissimo”, collezionando valanghe di visualizzazioni e like per il suo ultimo album, “Truman”. Attore e doppiatore, Shade non sfugge al gioco delle identità, anche se nelle canzoni non sbandiera le radici. Genitori pugliesi e origini ebraiche («Come i Beastie Boys», scherza), ha studiato la lingua ebraica, la Torah e frequentato la sinagoga del capoluogo piemontese, ma tra i suoi seguaci sono in pochissimi a saperlo. «Torino è una città meticcia, certo. Personalmente ho vissuto meno la discriminazione, ma so bene che all’inizio erano i meridionali, poi gli albanesi, poi i marocchini e i romeni. Oggi ho tanti amici di etnie diverse e da ragazzo, quando facevo da baby sitter al figlio di una banchista del mercato di Porta Palazzo, ho visto il mazzo che si facevano i giovani marocchini che lavoravano con lei», aggiunge Shade.
ensi-jpg

I rapper torinesi si conoscono tutti, hanno condiviso la strada, i primi palchi, la notorietà sulla Rete grazie a video cult come quello girato davanti al club Lavanderie Ramone, sessione epocale di freestyle con Shade, Ensi e Fred De Palma, quasi cinque milioni di visualizzazioni su YouTube. E organizzano concerti sold out come quello di Willie Peyote al Teatro della Concordia a Venaria. Più di duemila spettatori, qualche giorno fa, per una delle ultime date del tour dell’album “Sindrome di Tôret” in cui Guglielmo Bruno, questo il suo vero nome, affronta il tema della libertà di espressione e dei suoi limiti nell’era social.

«Mi hanno detto: non esiste più la destra e la sinistra/ Fanculo! Io so riconoscere un fascista!», canta il rapper 33enne, un po’ punk iconoclasta un po’ indie, nella canzone “Portapalazzo”, ispirata al grande mercato simbolo del melting pot torinese. Willie Peyote racconta i fatti suoi ma in realtà parla di politica. «Un giorno camminavo a Porta Palazzo quando ho incontrato una ex compagna di università, mi ha detto che si candidava alle elezioni. Allora mi è venuto in mente di associare la politica alle malattie sessualmente trasmissibili», racconta il rapper nella sala prove Blumusica in via Spalato, dove sono passati tutti, dai Subsonica a Calcutta. «Per i 5Stelle la politica è come una scopata e via. E invece la politica è studio, non è buttare giù la porta a calci, non è l’incompetenza al potere», aggiunge facendosi serio. Poi torna a cantare: «Sai quel mio vecchio compagno di scuola si è candidato/Quello con i pezzi di scooter rubati nello scantinato/Ma lui si è sbattuto e tu hai procrastinato/Fa: “Sei troppo raffinato, io mio figlio non l’ho neanche vaccinato”».

Nell’album “Educazione sabauda”, invece, Willie riflette sull’identità, omaggio riuscito alla Torino dai mille colori, anche se lui è più piemontese di altri: padre della periferia torinese e madre di Biella. E nel brano “Io non sono razzista ma...” tocca un tema scomodo, l’ipocrisia di chi scarica sugli stranieri le proprie frustrazioni. «C’hai un lavoro di merda e il tuo capo è cinese/O c’hai un lavoro di merda e il tuo capo è italiano/Tanto ormai lo sappiamo è palese, tutto il mondo è paese». Come cantano i rapper, Torino è eterogenea per vocazione, non a caso a settembre si è svolta qui la prima edizione del Festival delle migrazioni: quattro giorni di incontri (tra gli altri Amitav Ghosh), spettacoli teatrali, cene conviviali, concerti, reading, nell’ambito di Terra Madre In. Agli eventi hanno partecipato in 4.500, a settembre si replica.

La parola immigrati, sulla bocca di tutti, chiama in causa un’altra parola. Tra i nuovi rapper c’è chi affronta apertamente il tema del razzismo, per ribaltare luoghi comuni e sensibilizzare i più giovani. Nato in Guinea trent’anni fa Jacob Bamba, in arte Muso, ha vissuto in Italia gli ultimi venti, prima a Napoli poi a Torino, ma non ha ancora la cittadinanza italiana. A Barriera di Milano, periferia nord, il quartiere di Torino con la più alta concentrazione di immigrati, lo conoscono tutti, anche perché una delle sue canzoni prende il titolo dal nome di questa zona, tra le più difficili, ad alto tasso di spaccio, degrado, prostituzione. Di lavoro il rapper fa il mediatore culturale, collabora con associazioni, tiene corsi di rap per bambini, ha vinto il Diaspora Award, premio alle personalità che si distinguono per l’impegno sociale.

«Canto in italiano perché mi sento italiano, è la dimostrazione che amo l’Italia», premette il rapper mentre sorseggia un caffè nel bar dei Bagni Pubblici in via Agliè, la Casa del quartiere di Barriera di Milano. Accanto a lui è seduto Alessandro Bulgini, artista che ha messo la zona al centro delle sue azioni. Muso ha finito di registrare “Cittadino del mondo” su identità e pregiudizi, ora lavora al secondo disco. «Quindi fatti un esame di coscienza/Quando mi vedi camminare pensi che vivo di spaccio/Fai di tutta l’erba un fascio/ Ma non sai ciò che faccio/», canta Muso, che racconta la realtà anche se è scomoda. «A volte anche gli africani mi guardano male: non parlo come uno straniero, molti sono invidiosi o indifferenti. Tanti connazionali giovani preferiscono giocare a pallone che partecipare a una manifestazione antirazzista».

C’erano una volta i Murazzi
Oggi i giochi sono complicati, la realtà è più conflittuale. Ma a Torino le cose accadono in anticipo: già vent’anni fa ai Murazzi, epicentro della movida e della scena musicale torinese (Subsonica, Linea 77 e tanti altri), si scatenò una vera e propria guerra. Italiani contro nordafricani, nordafricani contro albanesi, ultras contro buttafuori. Finché un giorno Abdellah Doumi, un ragazzo marocchino di 26 anni, fu inghiottito dal Po dopo una rissa, mentre decine di persone gli tiravano addosso bottiglie, lo insultavano. E nulla fu più come prima. Una vicenda di cronaca terribile, rievocata da Enrico Remmert nel suo bel libro “La guerra dei Murazzi” (Marsilio).

«Proprio per la sua storia, legata all’immigrazione dal Sud, Torino doveva essere già vaccinata contro il razzismo. E invece a fine anni Novanta era già guerra, teatro di uno scontro epocale di identità», racconta lo scrittore mentre passeggiamo sulla banchina deserta del fiume. Un tempo qui c’erano decine di locali strapieni ogni notte, un caos indescrivibile, abusi edilizi e decibel alle stelle, risse, esposti e carte bollate, finché nel 2012 i Murazzi furono chiusi e con loro tramontò un pezzo di storia della città, a suo modo laboratorio di convivenza. «Oggi il problema è legato al colore della pelle. Gli stranieri sono i neri», conclude Remmert: «Le cose sono peggiorate in maniera radicale: l’Italia è un paese tutto sommato razzista, Torino non fa eccezione».

L'edicola

La pace al ribasso può segnare la fine dell'Europa

Esclusa dai negoziati, per contare deve essere davvero un’Unione di Stati con una sola voce

Pubblicità