Dalle fabbriche di provincia al business globale. Dalla terra incantata, dove nascono fiabe, profezie e leggende, alla post-agricoltura. Tra i borghi più eleganti e il centro storico di Ascoli Piceno. Dove la scrittrice ha ambientato i suoi romanzi, tra cui l'ultimo "La nuova stagione"

Le Marche magiche di Silvia Ballestra, fra l'Adriatico e la California

Silvia Ballestra
Sbucano dietro i tornanti dell’antica via Salaria le montagne magiche dove fioriscono leggende che mescolano cristianesimo e paganesimo, stregoneria medievale e letteratura. Storie tramandate in versioni diverse, terribili o a lieto fine, che arrivano a noi dopo secoli, come quella della Sibilla che dà il nome alla catena dei monti Sibillini, nelle Marche meridionali. La regina bellissima che con le sue fate insegnava ai giovani l’arte della seduzione, depositaria della memoria e capace di predire il futuro.

Si racconta che la Sibilla, infuriata con le fate che ballavano con i pastori, scagliò contro di loro le pietre che diventarono poi Arquata, uno dei paesi rasi al suolo dal terremoto del 2016. A distanza di più di tre anni, al suo posto resta una distesa di macerie, lo stesso destino delle frazioni Piedilama e Pretare. Montagne punteggiate da paesini affacciati su profondi e verdi dirupi come Montemonaco e altri dai nomi inquietanti: pizzo del Diavolo, Infernaccio, Passo Cattivo.

Per entrare nel mondo di Silvia Ballestra bisogna attraversare questa zona misteriosa e incantata, dove è ambientato l’incipit del suo ultimo romanzo. “La nuova stagione” (Bompiani) narra la vicenda di due sorelle, Nadia e Olga, determinate a vendere la terra ereditata dal padre perché l’amore e il lavoro le hanno portate lontano, i figli sono all’estero, l’agricoltura è cambiata e «la gente vuole fragole e susine anche a gennaio». È la storia di una separazione dalle radici, viaggio a ritroso nelle pieghe familiari, odissea nella burocrazia italiana e comunitaria scandita da incontri esilaranti e surreali con ex mezzadri arricchiti, emissari di multinazionali della frutta, broker e intermediari cialtroni e senza scrupoli.

Sullo sfondo i contadini offesi dalla speculazione e dalle monocolture intensive, i cambiamenti climatici, ma il libro non vuole essere la fotografia di una sconfitta perché la scrittrice crede nella possibilità di cambiare le cose. «Sono a favore di Greta Thunberg, è una figura importante e ha già inciso sui comportamenti individuali di moltissime persone», esordisce Ballestra, jeans e maglietta azzurra, mentre sorseggia un caffè seduta al tavolino in piazza del Popolo, nel centro storico di Ascoli Piceno, salotto elegante e armonioso circondato da archi e palazzetti rinascimentali. La scrittrice condisce tutto con ironia e gusto del paradosso, che resta il suo tratto distintivo fin dai tempi di “Compleanno dell’iguana”, il romanzo d’esordio che piacque allo scrittore Pier Vittorio Tondelli e uscì nel 1991 per Transeuropa e per Mondadori, diventando poi un long seller tradotto in molti Paesi.

I luoghi degli scrittori
L'Abruzzo di Donatella Di Pietrantonio: «Il cibo è parte della mia identità»
20/8/2019
Un legame forte e ininterrotto, quello tra le Marche e Ballestra, che tuttora fa la spola fra Grottammare, sulla costa picena, e Milano, dove si trasferì a 26 anni nel 1995. Si potrebbe definire “La nuova stagione” un atto d’amore verso la sua terra ma soprattutto la rappresentazione dolceamara di un sogno infranto. «Molti fantasticano di andare a vivere in campagna come se fosse tutto rose e fiori, hanno una visione romantica del mondo contadino. E invece, una volta arrivati, scoprono che i contadini sono in via di estinzione, non si vive di agricoltura purtroppo», riflette la scrittrice, che con il suo libro demolisce il mito del buon selvaggio e al tempo stesso racconta un altro sogno spezzato, il cuore del romanzo: Olga e Nadia, infatti, sono le «fortunate proprietarie di un’ottantina di grosse palme a testa che costituirebbero una specie di bancomat: ogni tanto potrebbero venderne due o tre, o anche una decina, e avere un po’ di ossigeno per tirare avanti e coprire parte delle spese anche lì in campagna».

Fatto sta che le piante, con la loro promessa di prosperità, sul più bello vengono flagellate dal punteruolo rosso, il coleottero arrivato dall’Africa via Spagna che si è mangiato i giardini ornamentali di mezza Italia e le speranze di chi voleva arricchirsi. «Almeno, il loro padre ultimamente faceva così, anche se, da quando le palme le hanno ereditate loro, non ne hanno venduta neanche mezza». Svanisce il miraggio del business, la East coast adriatica che guarda alla California e si ritrova con un pugno di mosche.

Il desiderio di oltrepassare il limite, pensare in grande e guardare lontano, lasciarsi alle spalle la provincia, l’amarezza della disfatta. Vengono in mente gli sgangherati protagonisti di “La guerra degli Antò” (uscito nel 1992 per Transeuropa e Mondadori), da cui è stato tratto l’omonimo film diretto da Riccardo Milani, la storia di quattro giovani punk di Montesilvano, vicino a Pescara. Antò detto Lu Purk vuole fuggire, decide di andare a studiare a Bologna ma poi si stufa e va ad Amsterdam, dove lo raggiungerà l’amico Antò Lu Zorru, disertore, finché verranno rispediti in Italia dalla polizia dopo averne combinate di tutti i colori. E così i quattro Antò si ritrovano sul lungomare, tra lunghe chiacchierate in slang anglo-pescarese e progetti per il futuro. Anche una delle protagoniste del nuovo romanzo, Nadia, da giovane ha fatto esperienza a Londra, immaginando un avvenire diverso.

«La loro voglia di fuggire dalla provincia era stata anche la mia, quando a 18 anni andai a studiare a Bologna», racconta la scrittrice, mentre passeggiamo nelle piazze e nei vicoli di Ascoli Piceno: «Allora avevo la sensazione che le cose in quel preciso istante accadessero altrove: se penso ai miei anni in provincia mi viene in mente la ricerca affannosa di libri, dischi, vestiti, gli anfibi che non si trovavano». Anche oggi i giovani non vedono l’ora di andarsene o sono costretti a farlo perché non trovano lavoro, cosa è cambiato da allora? «Negli ultimi anni ho incontrato un sacco di persone della mia età con figli della stessa età dei miei, 20 e 15. I loro ragazzi sono sparsi ovunque - Canada, Germania, Inghilterra - per studio o per lavoro. C’è stata una accelerazione, non è solo la fuga dei grandi cervelli ma l’effetto della globalizzazione a tutti i livelli. Oggi con i viaggi low cost, il web, le tecnologie l’approccio dei giovani è radicalmente diverso, il mondo è diventato più piccolo. In un posto così isolato si sente ancora di più».

Letteratura
I luoghi degli scrittori: la Forte dei Marmi di Fabio Genovesi tra santi, eroi e strani maestri
26/7/2019
Silvia Ballestra viaggia, ma la bilancia dell’ispirazione creativa pende nettamente a favore della regione di origine. «Le Marche sono surreali, qui tutto prende una curvatura comica, dissacrata e dissacrante. C’è autoironia, consapevolezza dell’assurdo, i marchigiani non credono in nulla. Qui vedo la follia e la amo profondamente, è una terra che conosco bene, meno raccontata di altre, dunque piena di spunti», riflette la scrittrice, che aggiunge: «Il mezzadro marchigiano è molto laborioso, lavora la terra, cucina, fa l’olio, diversifica le attività. Nel Fermano c’è il distretto delle scarpe, fortissimo, una dimensione a metà tra la fabbrica di provincia e il business globale. Una rivoluzione che li ha trasformati da mezzadri a capitani d’industria nel giro di una generazione».

Nascono da queste parti figure come Armando, uno dei personaggi di “La nuova stagione”, cruciale quando le due sorelle Gentili decidono di vendere la terra. Uno dei famosi terzisti che, «partiti da mezzadri ma acquistati i mezzi agricoli negli anni, erano diventati i nuovi, veri latifondisti». Temibile trafficone, Armando continuava a prendere in affitto ettari su ettari ovunque, espandendosi fino a Osimo, fino alla Romagna, «al telefono era difficile beccarlo: sempre in giro, come un demonio, a spostare trattori, squadre di operai, mezzi». È lui, con il suo macchinone nero con i vetri oscurati, l’emblema del mondo nuovo, dell’agricoltura 4.0, il post-contadino del terzo millennio.

Affondano in questa terra le radici di Ballestra, una marchigiana a Milano come Tullio Pericoli, l’artista di Colli del Tronto trapiantato anche lui nella città italiana più vicina all’Europa (arrivò nel 1961, in tasca una lettera affettuosa di Cesare Zavattini), che attraverso i disegni ha reso famosi i paesaggi delle basse Marche. Si intitola “Le colline di fronte” (Rizzoli) la biografia di Pericoli, oggi 83enne, firmata qualche anno fa dalla scrittrice. «Per noi marchigiani Milano fino all’altroieri era un luogo piuttosto insolito. Ai tempi di Pericoli praticamente non esistevamo e quando sono arrivata io eravamo in pochissimi, mi scambiavano per romana», prosegue Ballestra, mentre attraversiamo le sale del medievale Palazzo dei Capitani, dove è allestita la mostra “Forme del paesaggio 1970-2018” (fino al 3 maggio 2020), a cura di Claudio Cerritelli, con 165 opere esposte.

L’inconfondibile tratto di Pericoli si ritrova anche nelle dieci cartoline che impreziosiscono un librino di Giorgio Manganelli dal titolo significativo: “Esiste Ascoli Piceno?” (Adelphi), scritto quando una rivista marchigiana chiese un breve contributo allo scrittore, nei primi anni Ottanta, e Manganelli rispose con uno stupefacente gioco di prestigio linguistico, negando l’esistenza della città. Un breve racconto iperbolico per sottolineare l’isolamento di Ascoli, eletta a simbolo della provincia italiana sconosciuta. «Ascoli esiste, eccome», ribatte Ballestra, che ne dà la sua definizione: «È la summa dei tanti paesi che sorgono qui intorno, una costellazione di borghi, diversi ma che si assomigliano. Uguali e diverse, ecco cosa sono le Marche. Poi c’è la lingua, le tante lingue, ognuna è un mondo e un modo di pensare».

La scrittrice rappresenta bene il mix marchigiano: nata a Porto San Giorgio, è cresciuta a San Benedetto del Tronto. Aveva una nonna di San Ginesio (Macerata), un’altra di Pedaso, vicino a Fermo; i nonni erano di Ascoli e di Offida, lo splendido borgo medievale dove il nostro viaggio termina al tramonto, nella chiesa di Santa Maria della Rocca. «È uno dei gioielli poco conosciuti, dimessa e sontuosa, severa fuori nel suo gotico imponente eppure accogliente e raccolta. Mi sta molto a cuore per la posizione, circondata da dirupi che affacciano sulle colline coperte da viti, campi e calanchi, ma non è il solo posto a cui mi sento legata», dice.

Le radici, infatti, non sono una gabbia e Ballestra non cede all’autofiction, non si sovrappone ai protagonisti dei suoi libri anche se molti spunti nascono dall’osservazione della realtà, attingono alla memoria di fatti, persone e luoghi rimossi. Come nel romanzo “I giorni della Rotonda” (Rizzoli), forse il più riuscito, in cui l’autrice rievoca avvenimenti diversi a San Benedetto del Tronto - il naufragio del peschereccio Rodi nel 1970, la rivolta dei marittimi sostenuti dai militanti di Lotta Continua che portò al primo contratto di lavoro nazionale di categoria, il tragico rapimento di Roberto Peci, fratello del primo pentito delle Brigate Rosse - ma soprattutto ripercorre attraverso la voce del giovane compagno Aldo Sciamanna e la testimonianza della quindicenne Mari le storie di una generazione di ragazzi annichilita dall’eroina, che nei primi anni Ottanta trasformò la Rotonda del paese marchigiano, come altre località sparse per l’Italia, in un ritrovo di zombie.

«Trovo più facile narrare mondi marginali proprio perché sono meno raccontati», conclude Ballestra, che ha deciso di illuminare quel capitolo dimenticato della cittadina in cui è cresciuta: «Quando ho scritto questo romanzo ho sentito il dovere di ricordare e rendere omaggio a tante persone che conoscevo, che frequentavano la Rotonda e oggi non ci sono più, stroncate dall’eroina».

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Un Leone contro Trump - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso

Il settimanale, da venerdì 16 maggio, è disponibile in edicola e in app