La Rete? Un labirinto virtuale che ci lascia smemorati e confusi
Internet ha modificato il modo di conoscere e ha abolito il senso moderno di memoria. Perciò il suo anniversario è caduto nel silenzio
Perfino dell’uscita di Abbey Road, il disco dei Beatles, è stato ricordato in questi giorni il cinquantenario. Se “chiedi chi erano i Beatles” ancora oggi ti rispondono eccome, al contrario di quello che a metà degli anni Ottanta in una sua canzone temeva un poeta, Roberto Roversi. Con ancora più clangore poche settimane fa è stato celebrato in tutto il mondo, o quasi, un altro cinquantenario, quello dello sbarco americano sulla Luna. Questione di nemmeno un paio di mesi da allora e, senza avvedersene, l’umanità iniziava davvero mezzo secolo fa a mutare carattere, a modificare radicalmente ma inconsapevolmente la propria relazione con il mondo.
Non però perché la Luna c’entrasse qualcosa, al contrario. Ma perché giusto cinquant’anni fa nasceva la Rete, e nulla o quasi sarebbe più stato davvero come prima. Al punto che tale decisiva ricorrenza è l’unica che in questi giorni non ha avuto alcuna celebrazione, è passata sotto un silenzio talmente fragoroso da suscitare perplessità, se non incutere addirittura timore. “1610: abolito il Cielo” scriveva Bertolt Brecht nel suo Galileo, cioè l’idea di cielo che vi era prima, quella aristotelica. 1969 allora: abolita la memoria, l’idea moderna di memoria, quella per cui esiste un rapporto, di cui si ha soggettiva coscienza, tra ciò di cui si ha ricordo e la sua effettiva rilevanza rispetto al funzionamento della realtà.
Questo accade perché l’avvento della Rete ha insensibilmente e progressivamente modificato, negli ultimi decenni, tutti i modelli cognitivi con i quali ancora fino a qualche tempo fa si faceva fronte al reale, si affrontava quel che ci sta intorno. Fino a mettere in pericolo la stessa memoria della memoria, senza la quale non può esservi intelligenza. E ciò va inteso alla lettera: abbiamo smesso quasi ogni rapporto frontale con le cose che ci circondano, abbiamo quasi cancellato l’esistenza degli oggetti, termine che in tedesco si dice proprio con una parola che significa quel che frontalmente si erge davanti a noi. Di qui ad esempio il perdurante (ma soltanto perché archeologico) fascino del calcio di rigore nel gioco della palla, paradigma della postura frontale che discende direttamente dal duello tra Teseo (il calciatore) e il Minotauro a guardia della soglia (il portiere), secondo la forma archetipica della relazione tra soggetto e oggetto.
E di qui, prima ancora, dalla rottura di tale mitologico schema, di tale netta distinzione tra i due opposti termini, deriva appunto la crisi della memoria moderna, che può riassumersi in una sola formula: la crisi dello spazio, e delle “condizioni al contorno”, come direbbero i fisici, che hanno presieduto alla sua nascita. La Rete infatti è l’esatto contrario dello spazio, nel senso che funziona sulla base di presupposti che ne rovesciano da cima a fondo il regime. Ha scritto Louis Dumont che la modernità nasce quando al rapporto tra un essere umano e l’altro si sostituisce quello dell’essere umano con le cose. Lo spazio è l’intervallo, metricamente calcolabile, che si spalanca appunto tra l’oggetto e il soggetto concepiti come a metà Seicento Cartesio stabilisce, l’uno irriducibile e perciò irrimediabilmente discosto rispetto all’altro.
Senza tale frattura lo spazio moderno non sarebbe mai nato. E ancora oggi il linguaggio reca la traccia del “mondo di ieri” in cui il dato oggettivo e quello soggettivo, la cosa e la persona, quel che è inanimato e quel che invece è animato non sopportavano invece scissioni: ad esempio diciamo ancora “una ridente cittadina”, e in tal modo ci riferiamo senza più saperlo all’epoca in cui gli edifici di cui le città si compongono non avevano ancora una facciata ma avevano invece una vero e proprio viso, un’espressione umana. Basta guardare con attenzione qualsiasi ritratto urbano precedente il Seicento per accorgersene, alla faccia (è proprio il caso di dire) delle odierne “città intelligenti”.
Con la Rete il soggetto e l’oggetto tornano invece a far l’un l’altro corpo, risultano non più off line ma on line tra loro, e in duplice modo. Da un lato tutte le macchine contengono al proprio interno un pensiero, dentro ogni hardware vi è un software, un programma di manipolazione simbolica, che è il nome che, dopo Turing, si dà all’intelligenza. Dall’altro, oltre che da macchine e programmi la Rete si compone di donne e uomini che per farla funzionare vi sono incorporati senza alcun divario o intervallo, e almeno dal punto di vista funzionale “fanno globo” con essa, come avrebbe detto il Machiavelli: è infatti per lo più impossibile stabilire, nel caso di una transazione finanziaria di natura elettronica, se all’altro capo della Rete e del mondo vi sia, oltre lo schermo, un uomo, una donna o una macchina appositamente programmata.
E tale configurazione, retta dall’equivalenza e dall’assenza di ogni soluzione di continuità tra soggetti ed oggetti, si è tradotta nella ripresa del paradigma cognitivo di natura estetica chiamato paesaggio, che da tempo ha sostituito (anche se vi si fa scarso caso) la moderna idea di territorio, secondo il tragitto che dal materiale conduce all’immateriale. Al riguardo la Convenzione Europea del Paesaggio, che dal 2000 vale anche da noi oltre che in altri trentadue paesi, non lascia alcun dubbio: dal momento che territorio, ambiente e tutti gli altri concetti fin qui serviti per rapportarsi alla faccia della Terra sono risultato della percezione, essi diventano appunto paesaggio.
Sulla ragione profonda di tale mutazione non si dice nulla, ma è evidente: il paesaggio funziona esattamente come la Rete, nel senso che si tratta di un modello fondato sull’assenza di ogni mossa spaziale cioè metrica, e sulla fusione invece che la separazione tra il soggetto e tutto ciò che lo circonda, sull’immedesimazione di quello in questo all’interno di un’unica totalità. È la mossa che spiega l’attuale passaggio d’enfasi dalla ragione all’emozione e alla retorica della “grande bellezza”. Ma è anche quella che spiega, ad esempio, la diffusione delle notizie false, all’interno di un dispositivo che mostra di aver ricordo di tutto fuorché di se stesso e della propria natura.