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Cultura
ottobre, 2019

Ezio Bosso: «La mia musica di rigore, sacrificio e disciplina nel tempo triste in cui viviamo»

Ezio Bosso
Ezio Bosso

L'Orchestra come società ideale in cui vige la meritocrazia assoluta in contrapposizione a una politica che premia l'incompetenza. La bellezza di scoprire un nuovo aspetto di Schubert. E la tristezza per il "personaggio" che gli è stato costruito adosso. Il maestro si racconta a tutto campo in questo lungo dialogo

Il 15 maggio si è spento a soli 48 anni il musicista Ezio Bosso. Era nato a Torino il 13 settembre 1971.


Frantumare la statuina del personaggio Ezio Bosso; è questo che gli sta più a cuore adesso. Disgustato dalla recente bufera mediatica che ha travolto la sua vita privata, concentrato sui nuovi progetti, il Maestro torinese è un fiume in piena. Nella lunga conversazione con l’Espresso si racconta con affabilità non priva di un rigore etico meno noto: dall’infanzia a San Donato allo sconcerto per l’Italia di oggi, dalla didattica nei Conservatori alla distanza di idee con Muti sui flauti a scuola. E poi, sopra ogni pensiero, la Musica, dea fosforescente di ogni sua parola. Un racconto in cui la cartolina dell’artista “ispirato” cede il passo alla grammatica del merito e del sacrificio.

Via Principessa Clotilde, dove è nato, è nella periferia nordovest di Torino; un quartiere percorso dalle lotte sociali degli anni ’70. Piuttosto distante dal loft bolognese dove abita ora, spoglio più che minimale, salvo uno Steinway&Sons del 1877 in palissandro, “ma era apprezzato anche perché con la cassa chiusa diventava un pratico tavolo,”, scherza.

Il suo album Roots si riferisce alle radici. Le sue sono a Torino?
Non bisogna confondere le origini, che sono quelle da cui si proviene, dalle radici, che sono date dai rapporti sociali, dalla cultura di cui fai parte. Io ho avuto un’infanzia estremamente umile, in una società operaia fatta di immigrazione. Sono nato in un isolato enorme, dove eravamo una delle poche famiglie piemontesi, per il resto c’erano i palazzi di napoletani, calabresi, siciliani. Era bellissimo, ma anche pericoloso, perché sono cresciuto durante gli anni di piombo e delle prime gang giovanili. A volte arrivava l’avvertimento “tutti a casa stasera, che poi succede qualcosa” e arrivarono pure sparatorie.

Cosa rimbalzava di quel clima in famiglia? 
Molto, anche per l’impegno politico che i miei genitori non hanno mai risparmiato. Loro erano, come altri, concentrati nella speranza di un mondo migliore, era alimentati da grandi ideali.

E poi?
Poi è arrivata la grande delusione. Li ho visti piangere per i cambiamenti che andavano in senso opposto, la speranza è stata soppiantata da una forma di indolenza terribile, quel constatare che: “no, a noi non è dato, non possiamo migliorare la nostra condizione”. E c’è ancora in me una parte che lotta e una che dice: “non me lo merito, non è un mondo fatto per me”.

In casa come è stata accolta la scelta di suonare?
A mio padre fu detto: “I figli degli operai fanno gli operai, i figli dei musicisti fanno i musicisti”. In qualche modo una parte dei miei genitori ha creduto a ciò e immaginavano per me un istituto tecnico industriale. Questo è stato il dolore più grande; forse le parole più violente sentite nella vita. Ma da lì è iniziata la mia lotta per esautorare quella frase così idiota. La ribellione, per me, l’ha fatta la musica, che mi ha fatto scappare di casa, andare a Vienna a 16 anni, fare incontri fondamentali. Però resto anche il ragazzino di allora, ribelle anche verso me stesso, uno più adatto a frequentare i baretti più che i “Palazzetti”.

Poi è arrivato il Conservatorio. A proposito, tra allora e oggi, cosa è cambiato di quel tipo di formazione?
Semplicemente io non li capisco i conservatori oggi, mi fanno problema, a partire dal principio di selezione dura. I maltrattamenti dei miei insegnanti hanno fatto di me il musicista che sono, non solo il complimento ma il rinforzo negativo è quello che forma. Ancora adesso io sono il peggior critico di me stesso. Oggi vedo una mercificazione, alla faccia delle lotte che abbiamo fatto al fianco di Piero Farulli per evitare i diplomifici. Trovo incredibile che ci siano titoli accademici di Pop, basati su regole che non sono quelle dei bassi da armonizzare. Non riesco a farmene una ragione. Si scrive e si dice di me che io sia tanto “aperto”, proprio no! lo trovo aberrante!”
 

Ezio Bosso al festival di Sanremo del 2016


Si intravede un Bosso più tradizionalista che new age … 
Ed è così. La musica è un investimento pesante, difficile. Quando mi sono diplomato non era pensabile studiare meno di otto ore al giorno. L’unica religione è la disciplina per guadagnarsi una credibilità e quindi non mi piace la mancata educazione al merito; così come – suonerà incredibile – non mi piace il proliferare delle finte orchestre giovanili tanto di moda. Quello lo chiamo “il piacere della zia”: suonare in un’orchestra è un traguardo, non uno spettacolo per parenti. Tu così illudi, porti un ragazzino là dove non si sta meritando di essere. E non parlo dell’educazione alla musica di insieme, sia chiaro, ma dell’ansia da esibizione che brucia la maggior parte di loro.

Facciamo un passo indietro nella filiera della formazione musicale. Riccardo Muti si scagliò contro gli “infami flautini” usati nelle scuole. Che posizione ha su questo?
Lo dico col massimo rispetto, ma non sono d’accordo per niente. Un bambino con un flauto in mano ha due cose: l’accesso al suono, uguale per tutti, e il maestro che ti fa leggere la musica. Denigrarlo è un errore, perché so cosa vuol dire non avere un piano in affitto perché i genitori non hanno i soldi, invece un flauto costa pochi euro.

Non sarà mica… comunista?
(ride) Si ricordi che i nazisti accusarono Carl Orff di bolscevismo perché istituì il flauto per tutti i bambini. Allora preferisco dirmi malatestiano; in fondo, un musicista vive con la responsabilità dell’altro.

Restiamo sull’attualità. L’Orchestra può essere paragonata ad una società, dove c’è un leader e un gruppo di persone che deve rispettarne le scelte?
Non parlerei di leader ma di diverse responsabilità e quindi certo! È una rappresentazione della società ideale e del principio di meritocrazia assoluta, in cui la stima e il rispetto sono fondamentali come le peculiarità di ognuno. In un’orchestra c’è la società meno visibile, sono gli archi: sono la massa, quelli che spingono il suono e devono uscire! Poi, più in evidenza, ci sono i fiati, che si sentono più degli altri; ma non è una gara di bravura. Ci sono precise caratteristiche e ognuno fa un lavoro preciso.

Posizione e rispetto dei ruoli…
In orchestra non c’è competizione, ma competenza.

E passando dell’ideale sociale dell’orchestra a quella della politica?
È uno dei grandi problemi. Manca completamente la meritocrazia e il rapporto si rovescia: c’è competizione senza competenza. L’idea per cui tutti possono fare tutto con l’effetto perverso che se nella classe dirigente riconosciamo l’incompetente il risultato non è allontanarlo, ma dire “anche io posso farlo”.

Una gara al ribasso?
Ribasso assoluto, che si ripercuote anche negli ambienti musicali. Io resto a difendere il mio modo di fare musica, che è un modo sacrificale, di impegno assoluto.

Insomma, i tempi che viviamo in Italia non le piacciono 
No. Sono imbarazzanti, mi rattristano profondamente, a partire dall’aggressività della comunicazione e dall’assoluta perdita di profondità. Ma è come se ci fossero due Italie, perché vedo anche la bellezza, penso alle platee sempre piene per ascoltare entusiaste Beethoven.

Resta di fondo l’idea della musica come strumento di integrazione. Chissà cosa pensa dei temi dell’accoglienza di questi tempi…
Lo dico chiaramente. Quando non hai accesso al sapere, alla cultura devi inventarti un nemico. Per questo io ho molta paura di questo periodo, perché anziché parlare dei problemi si soggettivizza tutto e tutto diventa “tifo”, un esercito di pro e contro. Che poi sarebbe semplice: pari diritti, pari doveri. Tutti siamo contro la criminalità, tutti apprezziamo la virtù senza guardare il colore della pelle. Ecco: io il tifo non lo tollero più, mi fa soffrire. C’è questa idea assurda del “basta metterci il cuore”: è una scusa: nelle cose non basta metterci il cuore, bisogna metterci impegno. A un musicista le mani devono funzionare, le note si devono poter fare tutte e bene. La perfezione importa eccome, nascondersi dietro l’imperfezione umana è una stupida scorciatoia; anche perché la missione è cercare sempre quella purezza che diventa trascendenza e trasfigurazione.

La mancanza di cultura, quindi, uccide il merito?
Il tema è quello dell’accessibilità alla cultura e lì vedo la malizia della manipolazione. Si va avanti a tifoserie perché è tutto più facile; se il mondo invece è consapevole, come un pubblico emotivamente consapevole, comincia a capire la differenza di tensione e se questo accade quel pubblico non è più manipolabile. Non ci sarebbe più spazio per uno che divide i bravi dai no, il bene dal male, risultato che farebbe perdere potere a chi dirige, a chi decide le carriere.

E come si possono diffondere il sapere e della cultura?
Andrebbe valorizzato meglio il ruolo della televisione. Non dimentichiamoci che resta il primo mezzo di informazione; facebook e i social, che io chiamo idiocial, sono ormai principalmente luogo di scontri e di insulti. La televisione mi ha portato nelle case e deve essere quella pubblica a farsi carico dell’educazione delle persone. Bisognerebbe trovare regole più strette per avere degli obblighi nei confronti del Paese, non liquidare tutto con “tanto c’è Rai 5”, con i suoi concerti ammuffiti e qualche documentario sul rock. Quanti la seguono?

In effetti, la sua serata su Rai 3 con Che storia è la musica è andata oltre ogni previsione…
Perché ho voluto rischiare mettendomi in gioco, senza compromessi di sorta sulla musica; non mi interessava far sentire solo un movimento di una sinfonia in televisione, ma tutta quanta intera, dimostrando che le persone si appassionano.

Crede che chi fa musica dovrebbe esporsi politicamente? 
Il mio impegno è la musica, torniamo alla competenza; già su quella mi interrogo se sono adatto figuriamoci su altro. Sei un musicista, non sei onnisciente. Poi, se uno vuole esprimere il proprio giudizio può farlo, ma la manipolazione è dietro l’angolo. Invece, la musica è politica in senso alto, è “polis”. Se parlo di società ideale sto parlando di politica, di idee, di visioni. In fondo, la polifonia è nata per mettere d’accordo correnti diverse della Chiesa. Oltre quella si torna al tifo. Io voglio parlare del mio mestiere di Direttore.

Sembra abbia una gran voglia di abbattere il “personaggio” Ezio Bosso
Che personaggio sei lo decide la percezione delle persone. Ma io non sono mai stato diverso, semplicemente quando faccio musica sono più felice di quando sto in casa. E quando accade altro, questo altro mi fa soffrire. La mia vita privata è mia, non dirò mai se e quando vado in ospedale, perché questa roba fa schifo, è mercificazione del dolore.

Eppure recentemente…
Sì. Sono stato travolto da poco da una sciacallata sulla storia del pianista malato. Stavo parlando del voler bene alle cose, del rispetto verso la musica ed è nato un momento di delirio e isteria collettiva, perpetrata con un cinismo senza precedenti per portare clic. Eppure era tutto arcinoto da anni. Da quell’attenzione mi è arrivata ansia, bruttezza, tristezza, perché io sono uno strariservato. Guardi, sono uno che poteva prendersela comoda, fare il fenomeno e invece passo il tempo a dire più no che sì; io voglio prendermi cura della mia Orchestra e dei miei musicisti.

Ecco, torniamo alla musica. Come prepara un concerto?
Rinnovo completamente la lettura del repertorio. Faccio ricerche, riscrivo, unisco gli editori e i revisori che preferisco. È un lavoro pesante, ma avvincente, di scoperta; poi ci sono le prove. E per quelle ci vuole tempo; come dico sempre, la bacchetta fa tutto, ma devi fartela guadare! Devi conquistare credibilità, incontrare gli occhi dei musicisti, creare un rapporto. L’orchestra è una società; mi piace l’idea che tutti debbano star bene, decidere se al mattino c’è bisogno di fare prove a sezione, guardarsi i bambini l’un l’altro. Costruire una casa.

La musica ha un futuro? C’è un clima culturale adatto a far crescere nuovi talenti? 
Ce l’ha di natura, alle volte è stupido chi la gestisce, pare quasi la voglia far morire. Ci penso sempre: la musica è una necessità, non si suona Bach perché “fa cultura”, ma perché ne abbiamo bisogno. La responsabilità che avverto è quella di farla vivere, non tenerla nella teca insieme al vecchiume stantio, che sa di “frac”.

Mentre prepara la moka, prima d’accendersi un’altra Winston blu resta in silenzio, pensa ad altro, forse vuol essere lasciato solo con quei pensieri, poi dice: 

Sa che ho fatto una scoperta che cambia tutta la mia visione su Schubert? In alcune vecchie carte si parla dell’esecuzione dello sforzato: va suonato per tutta la durata, non solo sulla prima nota. Fin qui si suonava forte-piano e invece se hai, che so, una quartina va suonata tutta sforzata. Questa è una visione completamente nuova. È bellissimo, sa, è bellissimo.

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