Prima una pagina Facebook, poi un’associazione culturale, ora il sogno di presentarsi alle elezioni. Per lo Ius Soli e la buona accoglienza, contro ogni discriminazione (non solo etnica). Ispirandosi al rapper Ghali

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I buonisti? «Non sono una minoranza e devono farsi sentire: questa deve essere una casa per chi subisce discriminazioni». Parte da qui la risposta per invertire la rotta di un Paese dove essere razzisti non è più un tabù e ci si vanta di non tollerare le diversità. È la “Cara Italia” che stanno costruendo insieme un gruppo di italiani e migranti perché, come canta il rapper Ghali, «quando-mi-dicon: “Vai-a-casa”- oh-eh-oh, rispondo: “Sono-già-qua!”».

“Cara Italia” è un movimento di base spontaneo nato pochi mesi fa e che oggi, in una babele di origini, religioni e lingue, delinea programmi e strategie per arginare la deriva dell’ordinario razzismo e il fuoco dell’intolleranza. Quello che in nome del “prima gli italiani” certifica centinaia di aggressioni e il proliferare di gruppi nazi-fascisti. Un odio sdoganato dalla propaganda che ha determinato una profonda lacerazione democratica.

«Politici come Matteo Salvini sono riusciti a far credere che chi ha la pelle nera è la causa di tutti i mali, a togliere diritti già acquisiti, a rendere accettabile discriminare donne, gay, transessuali e chi professa una diversa religione», dice il giornalista di origine keniana Stephen Ogongo, 44 anni. Storie quotidiane di dignità calpestata che si preferiva dimenticare e che invece Ogongo decide di raccogliere in un gruppo Facebook. In poche settimane gli iscritti sono migliaia: vittime che denunciano violenze e chiedono come difendersi, professionisti pronti ad aiutarle.

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Riuniti in assemblea, dentro a un palazzo nel centro di Roma, ora organizzano corsi di cultura italiana, educazione civica, formazione per decodificare le manipolazioni dei messaggi dei politici. Si confrontano su diritti e partecipazione «per creare un Paese basato sui valori umani». Obiettivi: «Lottare contro l’intolleranza, il razzismo e tutte le altre forme di discriminazione», «rendere le persone consapevoli dei loro doveri e dei loro diritti», «lottare per una legge di cittadinanza coerente con la realtà del Paese», «combattere contro tutti gli ostacoli che impediscono la partecipazione attiva degli immigrati», «promuovere le iniziative di buona accoglienza e di buona integrazione degli immigrati». Perché «l’Italia è di chi la ama e noi amiamo l’Italia», come recita il loro slogan. A conferma, sul tavolo, nella sede, una copia della Costituzione repubblicana.

Questo Paese «è diventata casa mia e non mi sta bene che si respiri un clima di rabbia verso gli ultimi», ragiona Ogongo. È arrivato in Italia per frequentare l’università Pontificia Gregoriana nel lontano 1995. A sostenerlo negli studi, allora, c’erano quattro famiglie di Padova e «l’incontro con persone che avevano la curiosità di imparare dall’altro». Oggi invece, in un dibattito inquinato dagli slogan sull’invasione immaginata, si temono persino i bambini che vanno a scuola e sono integrati. Esclusi e considerati stranieri anche se nati e cresciuti in Italia, tanto che lo ius culturae sta già facendo aprire una crepa nella maggioranza giallo-rossa con il Pd che, pur con qualche frattura interna, spinge e il M5S che frena.

«Questa riforma dovrebbe essere una priorità, continuare a escluderli è un atto d’ingiustizia»: a rimbombare nella stanza è la voce di Mauro Caruso, figlio di un italiano migrato in Africa e di una somala. Aveva solo tredici anni, quando alla sua famiglia venne espropriata un’azienda di 110 ettari, lui e i suoi fratelli deportati e spediti in diverse città italiane.

Quella degli italiani figli di donne somale, tolti alle madri perché “simbolo della vergogna” è una storia rimossa dalla coscienza collettiva. A Roma non sapevano come gestirli, a Mogadiscio li chiamavano con disprezzo “mezzo sangue”, umiliati nel limbo tra il mondo dei colonizzatori e quello dei colonizzati. Caruso è categorico: «Questo è il periodo peggiore, nemmeno durante gli anni del terrorismo c’era il razzismo di oggi. Siamo stati rappresentati da fantocci che hanno sdoganato un sentimento represso in una guerra tra poveri».

Elenca i danni provocati dai decreti sicurezza, l’incapacità di un Paese di riconoscere il valore di oltre 5 milioni di stranieri residenti che producono il 9 per cento del Pil, ma sono esclusi da ogni processo decisionale. E poi le politiche dei porti chiusi, la necessità di istituzionalizzare i corridoi umanitari. Insieme ragionano all’idea di presentarsi già alle prossime elezioni amministrative «non come “partito dei migranti”, ma di un’Italia multiculturale».

Nascono così proposte politiche con comitati e incontri dalla Sardegna al Veneto. E per «coinvolgere i giovani, cittadini o meno, affinché possano diventare la futura classe dirigente del Paese o contribuiscano almeno a rafforzarla» hanno già dato il via a una scuola gratuita di formazione politica. A frequentarla sono ragazzi come Piera Cuccia, siciliana di Trapani trasferita a Roma per studiare. Si è iscritta per capire cosa significhi essere migranti dopo aver assistito a un episodio «apparentemente marginale. Prendo spesso i mezzi pubblici e quando vedo fermare persone senza biglietto anche io cado nella trappola di pensare che siano sempre stranieri. Poi un giorno un passeggero si è lamentato perché l’autista non ha fatto la fermata e si è sentito dire “brutto negro di merda”. Mi è tornata in mente mia nonna che raccontava di quando i siciliani andavano in America e li chiamavano mafiosi. Siamo un popolo di migranti e dobbiamo ricordarcelo».

Piera si è seduta tra i banchi insieme a coetanei che arrivano dalla Moldavia, dalla Libia, dal Perù ma le abitano accanto. «Mi ha colpito un’antropologa che ci ha spiegato come la formica riesca ad essere solidale nel gruppo, un comportamento di fratellanza che si è perso», racconta. E così quando ha saputo che cercavano insegnanti di italiano ha deciso di mettersi in gioco e donare il suo tempo. Ogni domenica entra nel tempio Sikh incastrato tra i palazzoni popolari della periferia romana. La aspettano in tanti. Sono seduti a terra, in mano il quaderno a righe.

«All’inizio erano solo uomini, alcuni anche analfabeti. Piano piano si sono unite alcune donne. C’è una ragazza di quattordici anni che è arrivata da un mese e non sa una parola di italiano, ma sta imparando in fretta». Una frase dopo l’altra per un’ora e mezza e alla fine anche Piera conosce un po’ di più della loro cultura: «Dopo la cerimonia di preghiera pranzano tutti insieme e gli uomini lavano i piatti. Mi hanno spiegato che è così perché è una giornata di riposo per le donne», sorride. E aggiunge: «Dovremmo impararlo anche noi».

Un giorno è entrata a curiosare anche Dorota «per tutti Dorothy che è più facile da dire». È polacca, lavora in un ufficio turistico e vive in Italia da trent’anni. «Io non ho la pelle nera, ma se dico che sono dell’Est Europa avverto subito che alcuni non si fidano più. C’è una forma di superiorità verso quelli che vengono da Paesi più poveri», dice. Dorothy non conosceva i Sikh, non è mai stata in India ma ha scelto di «aprirsi a un mondo nuovo». E spiega: «È anche un modo per scoprire me stessa. Mi sento arricchita da questa mescolanza». Una bambina le siede accanto. Ha dieci anni e si è autoproclamata assistente. Dorothy parla rigorosamente in italiano, ma ogni tanto la bimba rompe le regole e aiuta gli adulti traducendo in punjabi.

«Molti lavorano tutto il giorno e rimangono isolati», spiega Harvinder Singh Kapil. Quarantasette anni, esperto di formazione a distanza e documentarista è l’ideatore del corso. Racconta il suo arrivo in Italia per seguire l’amore «come uno shock. In India ero ben pagato, sono rimasto sconvolto che gli stipendi fossero così bassi. Da un giorno all’altro sono diventato povero». Kapil non aveva rapporti con i Sikh che vivono qui e solo dopo anni ha scoperto le campagne dell’Agro Pontino, il caporalato e i soprusi quotidiani. Quelli che provano «gli stranieri spaesati in un Paese che dovrebbe essere capace di attrarre sempre di più professionalità e non schiavitù». E invece l’anno scorso, stando al Rapporto sull’economia dell’immigrazione della Fondazione Moressa, i permessi di lavoro rilasciati in Italia sono appena il 6 per cento. Dieci anni prima erano il 47.

In fondo la “Cara Italia” che vorrebbero i “nuovi italiani” c’è già. È quella fondata sui principi democratici per cui hanno combattuto i nostri nonni, solo che accecati dall’odio per il diverso la stiamo dimenticando.

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