
Dimentichiamo per un momento il Vesuvio che, dopo tre secoli di eruzioni, da settantacinque anni riposa senza sintomi di risveglio. L’attenzione è oggi rivolta ai Campi Flegrei, tra Napoli e Pozzuoli: un complesso sistema di crateri su cui è cresciuta e continua a crescere una delle aree più popolose d’Italia e d’Europa. Qui il livello di allerta della Protezione civile dal 2012 è passato da verde a giallo, valore che indica lo stato di potenziale disequilibrio del vulcano, su una scala che comprende anche i colori arancione e rosso. Nel caso in cui tremori, gas emessi e temperature rivelassero l’imminenza di un’esplosione, lo Stato dovrebbe ordinare l’evacuazione di intere città. In appena settantadue ore, seicentomila persone dovrebbero andare a vivere in altre regioni d’Italia, probabilmente per lunghissimi periodi o per sempre. L’ultima esercitazione si è svolta pochi giorni fa: ma davvero non esiste alternativa a questi provvedimenti shock? Un gruppo di esperti sostiene il contrario.
Tra i promotori di un diverso approccio al rischio vulcanico c’è l’ex direttore dell’Osservatorio Vesuviano, Giuseppe De Natale, dirigente di ricerca dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) e uno dei massimi studiosi dei Campi Flegrei: «L’alto rischio, che dipende principalmente da uno sviluppo eccessivo e caotico dell’edilizia residenziale», spiega De Natale, «non deve farci dimenticare che l’area napoletana è sempre stata, da diversi millenni, tra le più attrattive e popolate al mondo. Questo perché proprio l’impronta vulcanica del territorio le conferisce grandi vantaggi naturali. La gestione del rischio vulcanico, quindi, non deve mirare all’abbandono di questi territori. Al contrario, condotta con intelligenza e lungimiranza, può diventare un importante fattore di sviluppo per questa zona e per il Mezzogiorno. Può rendere in particolare queste aree urbane, liberate da un eccessivo peso residenziale, meno caotiche e più razionali e resilienti, in favore di centri limitrofi ben collegati da un’opportuna rete di trasporti. Restituendole così a una naturale vocazione turistica, culturale e di attività ad alto valore aggiunto».
In altre parole, i piani di evacuazione andrebbero trasformati in progetti di allontanamento volontario e incentivato degli abitanti, verso paesi interni della Campania svuotati dal crollo demografico e comunque collegati alla città da nuove infrastrutture, come la ferrovia ad alta velocità Napoli-Bari. Così nel caso l’allerta passasse al livello rosso, resterebbero molte meno persone da evacuare e tutti gli sfollati potrebbero comunque essere accolti nella regione. «La nostra è una visione multidisciplinare del problema», aggiunge De Natale, «molto più ampia di quella sottesa dai piani di Protezione civile oggi adottati, che non intendiamo criticare, ma semmai integrare con nuove idee e proposte».
Dal 16 dicembre 1631 al 7 aprile 1944 il Vesuvio è sempre stato attivo, con numerosi fenomeni esplosivi. L’ultima eruzione del complesso dei Campi Flegrei risale invece al 1538, con la formazione del Monte Nuovo. Ma in tutti questi secoli Napoli e la sua provincia non sono mai state abbandonate.
L’allerta gialla a ovest del capoluogo è stata dichiarata sette anni fa, a fronte di una nuova fase di rigonfiamento del suolo cominciata nel 2005 e tuttora in corso, con un sollevamento medio di 5-8 centimetri l’anno. Dal 1969 al 1984 il porto di Pozzuoli si è alzato di tre metri e mezzo e oggi le vecchie banchine sono molto al di sopra del livello del mare. Non è detto che tutto questo sia l’avvisaglia di una nuova eruzione. Nemmeno è chiaro se e in quanto tempo la grande caldera si risveglierà. Comunque dopo un lungo periodo quiescente, i vulcani non entrano in attività dall’oggi al domani: gli scienziati si aspettano una fase premonitrice, che a volte dura decenni, caratterizzata da frequenti terremoti, aumento delle temperature superficiali e variazione nella composizione dei gas emessi. Proprio per questo, Vesuvio e Campi Flegrei sono abbondantemente monitorati. Non può insomma succedere quanto è accaduto il 3 luglio scorso sullo Stromboli, quando un’esplosione ha scatenato il panico tra i turisti sull’isola e ucciso un escursionista.
«Lo Stromboli è un vulcano a condotto aperto caratterizzato da un’attività persistente ai suoi crateri sommitali», dice Eugenio Privitera, fino a settembre direttore dell’Osservatorio Etneo: «Ne consegue che questo vulcano non mostra transizioni tra periodi di quiete e periodi eruttivi, ma passa da eruzioni con un modesto livello energetico a eruzioni con un livello energetico più alto, proprio perché è sempre attivo e il suo condotto è sempre aperto».
Molto diverse sono le condizioni attuali del Vesuvio e dei Campi Flegrei: «Questi sono vulcani a condotto chiuso, ovvero il passaggio di risalita del magma attraverso la crosta è ostruito», spiega Francesca Bianco, direttore dell’Osservatorio Vesuviano.
«Il Vesuvio è uno strato-vulcano con la sua tipica forma a cono», continua Francesca Bianco, «mentre i Campi Flegrei sono una caldera, ovvero un sistema vulcanico caratterizzato da decine di crateri distribuiti su una regione estesa e anche da rare grandi eruzioni, che hanno prodotto il collasso della struttura. Le nostre reti di monitoraggio e sorveglianza su ciascun vulcano devono intercettare la risalita del magma e l’apertura di un nuovo condotto, nelle fasi più precoci possibili di un’eventuale eruzione».
Si tratta comunque di vulcani di tipo esplosivo, molto pericolosi non tanto per la fuoriuscita di lava, ma per altri due prodotti delle loro eruzioni. Una è la formazione di “flussi piroclastici”, le nubi ardenti che nel 79 dopo Cristo hanno sommerso Ercolano: «Rappresentano il collasso, lungo le pendici del vulcano, del magma frammentato per l’esplosione, mescolato ad aria, che prima viene lanciato fino ad alcune decine di chilometri di altezza e poi ricade», spiega il professor De Natale: «Sono il prodotto più pericoloso delle eruzioni esplosive, poiché possono avere velocità di propagazione al suolo di centinaia di chilometri orari e temperature di centinaia di gradi centigradi».
L’area esposta ai flussi piroclastici coincide con la zona rossa dei piani di evacuazione: 700 mila abitanti per il Vesuvio, compreso il nuovo Ospedale del Mare che quindi non potrà accogliere eventuali feriti; 600 mila per i Campi Flegrei; 70 mila per l’isola di Ischia, il terzo vulcano napoletano quiescente dal 1302, per il quale però non è stato preparato nessun piano di sgombero.
L’altro prodotto dei vulcani esplosivi è la ricaduta di cenere, spinta dal vento fino a grandi distanze: ben tre milioni di napoletani abitano entro i venti chilometri da un cratere. Bastano 30 centimetri di cenere accumulata sui tetti per provocare crolli. Con 50 centimetri collassa praticamente qualunque edificio, anche il più resistente.
A inizio ottobre scienziati dell’Ingv hanno condiviso con Adriano Giannola, presidente dell’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno (Svimez), Salvatore Villani, economista dell’Università Federico II di Napoli, e altri ricercatori, tra cui Massimo Buscema, professore all’Università di Denver (Colorado) e direttore del Centro ricerche di intelligenza artificiale “Semeion”, la prima bozza del progetto da presentare al governo per un’analisi di fattibilità: «Speriamo che il nostro contributo venga valutato senza preconcetti, per ciò che è: un’analisi ragionata e multidisciplinare di un problema gigantesco, con la proposta di soluzioni efficaci, o efficaci per quanto possibile», osserva De Natale.
Lo studio dimostra che l’eventuale evacuazione forzata in altre regioni dell’1 per cento della popolazione italiana (600 mila persone che rappresentano grossolanamente l’1 per cento del Pil) provocherebbe danni economici indiretti e costi di assistenza, completamente a carico dello Stato, per una spesa totale insostenibile di almeno trenta miliardi l’anno.
«Per questi motivi», è scritto nella proposta, «l’unica soluzione razionale per la mitigazione dell’estremo rischio vulcanico in queste aree è una pianificazione accurata, preventiva, della ri-sistemazione delle popolazioni delle zone rosse in cui si preveda la ricollocazione residenziale, lavorativa, sociale e con i relativi servizi... accompagnata da opportuni incentivi ad abbandonare anche prima di un’emergenza le zone rosse e disincentivi a chi vuole entrarvi».
Il piano, che avrà bisogno del necessario sostegno dell’Unione Europea, dovrà però convincere le amministrazioni locali. Da loro dipenderà il lieto fine di questa storia. E non è detto che sindaci, consigli comunali e Regione correggano i loro errori. In Campania si parla di mitigazione del rischio vulcanico dal 1988, con la prima commissione tecnico-scientifica. Ma lo sviluppo urbanistico è andato nella direzione opposta. Ai piedi del Vesuvio, da San Giorgio a Cremano fino a Pompei, si è costruito fin a ridosso degli alvei dei pochi corsi d’acqua. E pensare all’evacuazione via terra di settecentomila persone in meno di tre giorni fa sorridere, se si osservano le code immobili che qualsiasi temporale, un giorno di pioggia forte o un incidente provocano lungo le strade a Sud di Napoli.
Dentro la caldera attiva dei Campi Flegrei, il sovraffollamento non è da meno. Cementificazione ed espansione edilizia oggi circondano addirittura i crateri e le fumarole. I sei comuni della zona rossa, che una settimana fa hanno partecipato con Napoli all’ultima esercitazione nazionale “Flegrei 2019”, non hanno mai smesso di crescere. Mentre la Protezione civile da anni studia come sgomberarli in caso di allarme, costruttori (e amministratori) li hanno riempiti di abitanti. Ecco i numeri dei primi tre centri metropolitani. Quarto: 18 mila residenti nel 1981, 30mila nel 1991, 41mila oggi. Pozzuoli: 69mila nel 1981, 75mila nel 1991, 81mila oggi. Giugliano: 44mila nel 1981, 60mila nel 1991, 123mila oggi. Tutti prigionieri di una lobby edilizia che sfida i vulcani. Ma anche la scienza. E il buon senso.