Oggi sembra che le foto del politico che ostenta comportamenti simili a quelli dei suoi elettori sia un fine più che un mezzo. Non c’è niente di più erroneo

Sono passati quasi quindici anni dal giorno in cui l’agenzia di comunicazione per cui lavoro (Proforma) decise di rompere uno storico tabù a sinistra: anteporre il volto del leader al simbolo dei partiti. Erano le Regionali in Puglia e Nichi Vendola fu comunicato attraverso manifesti con il famigerato “faccione” che accompagnava alcuni aggettivi utilizzati dalla destra per denigrarlo - “pericoloso, diverso, sovversivo, estremista” - e che furono rovesciati nel loro senso (“estremista” nell’amore per la Puglia).

Quella scelta funzionò e Vendola, leader di Rifondazione Comunista, omosessuale dichiarato, diventò governatore della “Emilia Nera”, come una volta la Puglia fu descritta da Pinuccio Tatarella. Otto anni dopo, nel 2013, rompemmo un altro tabù della politica italiana: trasformare il cognome di un politico in un brand. Erano le primarie del Pd e il cognome “Renzi” appariva sui materiali elettorali con un suo specifico font e con uno spazio molto maggiore rispetto al partito che aveva convocato quelle elezioni.

In entrambi i casi la valutazione fu tecnica: la fiducia nel leader di turno, in quel momento, era superiore rispetto a quella dei partiti di riferimento. Sarei quindi ipocrita se oggi affermassi che la personalizzazione della politica è il male assoluto e, anzi, devo accettare l’idea che qualcuno ci ritenga corresponsabili di questa deriva.

Ma fatta questa doverosa premessa, c’è qualcosa che mi pare stia sfuggendo di mano agli addetti ai lavori, ai politici e ai consiglieri del principe: il leaderismo (e il suo portato più aggressivo: la cosiddetta “politica pop”) ha senso solo quando c’è un contesto che lo giustifichi. Oggi sembra che le foto del politico che ostenta comportamenti simili a quelli dei suoi elettori sia un fine più che un mezzo: si pubblicano quasi a prescindere, perché è passata l’idea che farlo sia giusto a prescindere.

Non c’è niente di più erroneo. Il contesto è quella variabile che rende totalmente sballato il tweet di qualche giorno fa del premier Conte che mangia un hamburger preso da un fast food (cioè uno dei simboli dell’insostenibilità ambientale del nostro sistema economico) dopo aver partecipato al congresso Onu sul clima, o è ciò che porta Boris Johnson a fare una figuraccia in un ospedale britannico davanti alla requisitoria di un cittadino che lo criticava per i costanti tagli al servizio sanitario pubblico da parte di chi l’aveva preceduto (e cioè i Conservatori, lo stesso partito di Boris).

Johnson ha provato a giustificarsi dicendo che era andato lì in visita privata, per ascoltare e capire. Non era vero: si era portato dietro un codazzo di telecamere, il suo interlocutore se n’è accorto e gli ha chiesto «e quelli allora chi sono?», riferendosi ai media che avrebbero dovuto sostenere il suo storytelling e che sono improvvisamente diventati i testimoni dell’ennesimo rovescio della personalizzazione intesa come bene assoluto.

Il leaderismo è un’opzione, non è una condanna, a meno che non si decida di autoflagellarsi da soli dimenticandosi di ciò che ti succede attorno.