Cinquant’anni fa, mentre l’uomo metteva piede sulla luna e Woodstock galvanizzava i giovani, da un pc collegato con quattro università partiva il primo messaggio

Il 29 ottobre 1969, Charley Kline, uno studente ricercatore a UCLA (University of California, Los Angeles), inviò a Stanford il primo messaggio su ARPANET (Advanced Research Projects Agency Network), la rete che collegava quattro università statunitensi. Era il primo vagito di Internet. Fu un mezzo fallimento. La connessione cadde quasi subito e arrivarono solo le prime due lettere di “login”. L’ironia è che in inglese “lo” significa “ecco!”. Un po’ come se la rete avesse voluto annunciarsi. Ma l’annuncio non fece notizia. Due altri eventi avevano monopolizzato l’attenzione. Il 20 luglio Armstrong era atterrato sulla luna. E tra il 15 e il 18 agosto 400 mila persone si erano radunate a Woodstock per condividere un’esperienza musicale senza precedenti. Due avvenimenti straordinari. Eppure, a cinquant’anni di distanza, è facile vedere che l’evento di maggiore impatto fu proprio quel messaggio: oggi Internet tocca la vita di 4,39 miliardi di utenti, su un totale di 7,7 miliardi di persone.

Per un ventennio, Internet fu un mezzo per controllare a distanza i computer e scambiare dati. Nel 1986, quando l’Italia divenne il quarto paese a collegarsi a Internet, dopo Gran Bretagna, Norvegia e Francia (come questo primato abbia potuto essere sprecato merita uno studio a parte), Internet era ancora roba da militari e accademici. Oggi è l’ambiente dove passiamo sempre più tempo grazie al Web, che nasce nel 1989. Nei sondaggi, le persone a volte indicano che non usano Internet, ma che fanno la spesa su Amazon (nasce nel 1994), vedono film su Netflix (nasce nel 1997), spediscono tweet (Twitter nasce nel 2006) e postano foto su Instagram (nasce nel 2010). Pensano che il Web sia un’altra cosa.

In realtà Internet è un po’ come la sfoglia della crostata: non si vede, ma sostiene, circoscrive e organizza la marmellata che è il Web. Senza Internet, con i suoi computer, cavi, software, e protocolli, non sarebbero possibili tutte quelle esperienze e quella vita che ho definito “onlife” (cioè sia online sia offline, come nel caso di un orologio smart che ci geolocalizza e monitora le nostre funzioni biologiche durante il giorno) che ormai diamo per scontata. È su Internet-Facebook (nasce nel 2004) che ho visto la foto recente di Nick and Bobbi Ercoline, la coppia che appare sulla copertina del famoso album soundtrack di Woodstock; e su Internet-YouTube (nasce nel 2005) ho rivisto l’allunaggio di Armstrong per il suo cinquantenario.

Per capire la trasformazione di Internet in un ambiente al contempo analogico e digitale, che ho chiamato “infosfera”, pensiamo a delle gocce d’acqua su un vetro. Quando le gocce sono vicine si attraggono e si fondono. Più gocce si aggiungono, maggiore è la quantità di acqua, fino al punto in cui iniziamo a parlare di un ambiente: un fiume, un lago, un mare, un oceano. In cinquant’anni di storia, Internet è passata da 4 gocce, le università di ARPANET nel 1969, a 50 miliardi di vari sistemi nel 2020, con zettabyte di dati: tablet, telefoni, orologi, automobili e biciclette, citofoni e casalinghi, satelliti e robot di ogni genere, allarmi antincendio, traffico stradale, raccolta dei rifiuti e intere città (smart cities) … è quella che si chiama la Internet of Things, la Internet delle Cose.

Oggi Internet è l’oceano in continua espansione in cui viviamo immersi, anche senza accorgercene. È per questo che ho parlato della nostra società come della “società delle mangrovie”. Le mangrovie nascono nell’acqua salmastra, dove il fiume si mescola con il mare. In quell’ambiente, non ha senso chiedere se si tratti di acqua dolce o salata, anzi chiederlo significa non aver capito dove ci si trova. Oggi la domanda “sei online?” appartiene a un passato remoto non più in contatto con il presente. Grazie a Internet, viviamo sempre più onlife e sempre più nell’infosfera.

Le opportunità e i rischi di Internet si possono capire solo se si coglie il fatto che da decenni Internet non è più soltanto un sistema di comunicazione ma è soprattutto un habitat che stiamo costruendo ma al quale ci stiamo anche adattando. Iniziamo con il considerare chi siano i veri indigeni su Internet. Si parla molto di nativi digitali. Ma invece delle tassonomie generazionali che si accumulano e accavallano (i sociologi e futurologi fanno a gara nell’affettare le generazioni in lassi di tempo sempre più sottili), preferisco distinguere tra coloro che hanno conosciuto e esperito il mondo prima di Internet – basti pensare al gettone telefonico – e quelli per i quali il mondo ha sempre incluso Internet. Io appartengo alla prima, e i miei studenti di Oxford alla seconda. Per loro, il mondo ha sempre incluso iTunes e Wikipedia (nascono nel 2001) e mai una musicassetta (la distribuzione di musica su cassette è terminata nel 2002).

Eppure, anche questa distinzione è insoddisfacente. Tra un paio di generazioni, tutta l’umanità avrà vissuto in un mondo post-Internet, allo stesso modo in cui oggi viviamo in un mondo post-elettricità. Per questo, credo che la distinzione più importante sia un’altra. I veri indigeni, che abitano su Internet in modo naturale e senza sforzo, sono gli agenti artificiali, fatti di digitale per interagire con il digitale. Sono loro i veri pesci, noi ci siamo solo abituati a fare i sommozzatori. E questo non cambierà in futuro, perché anche le generazioni post-Internet resteranno comunque e sempre analogiche. Saranno naturalmente abituate a navigare, per usare un’altra metafora liquida, ma non avranno le branchie.

Parte dei problemi che abbiamo con l’Intelligenza Artificiale (che intelligente non è, neppure se paragonata a un pesce rosso) è che è in grado di apprendere e agire autonomamente per noi, al posto nostro, e meglio di noi perché si nutre, produce, e scambia byte, sguazzando nell’oceano digitale di Internet come noi non potremo mai fare. Così le auto del futuro funzioneranno anche grazie a Internet, non perché avremo degli androidi, come in “Guerre Stellari”, che guideranno come noi ma al posto nostro, ma perché avremo trasformato le auto in sistemi digitali in armonia con l’infosfera, molto più come in “Tron”.

In un infosfera in cui vivono e interagiscono miliardi di persone e nuovi agenti artificiali, il problema delle regole di comportamento diventa presto fondamentale. Con Internet abbiamo sbagliato. Erano gli anni Novanta e bisognava decidere se regolare Internet oppure lasciarla prima crescere. In passato, si era preferito non imbrigliare la libera competizione durante la fase di crescita, dai giornali all’elettricità, dal telefono alla televisione. Si confuse Internet con una semplice utility. E si decise di posticipare la sua regolamentazione. Fu un errore. Arrivò il Web, la natura eco-sistemica di Internet come ambiente divenne presto chiara anche ai non-filosofi, ma era troppo tardi, perché Internet, ora sinonimo di Web, era stata commercializzata. Un’altra analogia può aiutare a capire la differenza. Se Internet è come il telefono, allora ci può essere competizione tra diversi provider, e la libertà di espressione e la privacy sono fondamentali.

Come nel caso della telefonia, uno può scegliere il provider che vuole, dire quello che vuole, e aspettarsi che la conversazione non sia registrata. Ma se Internet è come l’unico parco in città, la libertà di espressione è molto limitata dalle regole di buona convivenza (non posso fare quello che voglio, come e quando mi pare), la privacy è di gran lunga minore, e la scelta è praticamente nulla (c’è solo un parco). Internet ha finito per essere come un parco, ma invece di gestirlo in modo comunitario, lo abbiamo affidato a poche multinazionali statunitensi. Non credo facciano un pessimo lavoro, ma certamente non è quello che ci aspettavamo negli anni Novanta.

Oggi le politiche di Internet, intesa come habitat sociale globale, sono determinate dal settore privato. C’è solo un parco, è pubblico, ma gestito da aziende che spesso operano come se la privacy fosse un ostacolo (Internet come ambiente pubblico) e la libertà di parola un diritto non negoziabile (Internet come comunicazione e espressione individuale). La contraddizione è ovvia, i pasticci che ne derivano sono sotto gli occhi di tutti, ma l’attuale risoluzione sta dando ancora più potere a queste aziende, dal diritto all’oblio (Google, nasce nel 1998) alla rimozione delle notizie false (Facebook, Twitter).

Una lezione fondamentale, parlando del passato, è capire quanto sia difficile prevedere il futuro. Chi sa quali vagiti oggi stiamo ignorando. Come scrive Shakespeare nel “Macbeth”, bisogna avere poteri magici per guardare nei semi del tempo e prevedere che cosa crescerà ( “look into the seeds of time, And say which grain will grow and which will not”). Noi mortali dobbiamo accontentarci di cercare di costruirlo, il futuro. Nel 1994, fui invitato a parlare all’assemblea plenaria dell’Unesco sul futuro di Internet, per celebrare i suoi 25 anni.

Rileggendo quella relazione, mi accorgo che le potenzialità sociali e positive di Internet sono ancora enormi, ma che molti dei principali attori in grado di svilupparle, per il bene dell’umanità e del pianeta, sono ormai nel settore privato. È chiaro che dobbiamo cooptarli. Perché Internet potrebbe essere una forza determinante nella risoluzione delle sfide più importanti del nostro tempo: il riscaldamento globale, l’ingiustizia sociale, l’intolleranza e i conflitti umani. Ma queste sfide richiedono sforzi enormi, possibili solo grazie a notevoli forme di collaborazione coordinata, che Internet potrebbe realizzare.

Internet diventerà quell’agorà che speravamo solo se pubblico e privato si impegneranno a lavorare insieme, per trasformare il parco in un giardino e non in una giungla. Si può fare, ma servono le politiche giuste e le strategie aziendali adeguate. Perciò la vera sfida per il futuro di Internet non sarà l’innovazione, ma la governance. Speriamo di non sbagliare di nuovo. Dita incrociate e ci risentiamo tra venticinque anni.