La morte dello statista rapito dalle Brigate Rosse ha segnato la fine della Prima Repubblica. E l'inizio dell’incerta ricerca di nuovi equilibri che dura tuttora. L'analisi di uno storico

Da quel momento tutto diventa più difficile, da quel tornante nulla sarà più come prima: un’eredità incerta di una stagione ben più lontana di quanto non ci dicano gli anni che ci separano dalla conclusione del decennio e dall’impatto di quella Renault rossa parcheggiata nel centro di Roma. Dal giorno del ritrovamento del corpo di Moro l’attenzione si sposta sul tessuto che unisce una comunità, sui rischi delle lacerazioni e sulle possibilità di mantenerlo in vita nonostante tutto, magari cercando di proteggerlo o rafforzarlo. È come se si vedesse in chiaroscuro un conflitto profondo che muove i primi passi, si manifesta senza dare ancora lo scossone che maturerà negli anni e nei decenni successivi.

A ben guardare si apre l’inizio di quella clamorosa divaricazione tra il Paese e il palazzo, tra le forme codificate della politica e le dinamiche di una partecipazione che prende nuove strade spesso in conflitto più o meno consapevole con le forme costituite. Per molti storici, analisti e osservatori del percorso della Repubblica si tratta di un crinale decisivo, un punto di non ritorno: la discontinuità con il passato si conferma e si consolida nel tempo; quella cesura che si manifesta prenderà nuove strade: incomunicabilità, crisi dei soggetti della partecipazione (i partiti), prevalere di logiche e comportamenti individualistici (in senso deteriore), le premesse di quella che superficialmente si chiama anti politica, il peso delle fratture generazionali che metteranno in discussione le forme del welfare all’italiana.

Si tratta dell’inizio della fine di un mondo, di un equilibrio politico e istituzionale, di un rapporto tra cittadini e istituzioni, di una rappresentatività inclusiva delle forme che la politica e la democrazia post-bellica avevano assunto. Paradossale ma non troppo il fatto che la voce più lucida e autorevole, chi meglio di altri aveva messo a fuoco l’esaurimento di una intera fase, di una parabola di crescita, sviluppo, diffusione di benessere e ricchezza è proprio Aldo Moro in diverse occasioni e con lungimiranza e puntualità in vari passaggi delle sue dense pagine durante la prigionia.

Moro vede i limiti, le incongruenze, le difficoltà strutturali di un cammino che è diventato difficile, affannoso, spesso irto di ostacoli insormontabili. La sua voce di denuncia chiama in causa molti, nel contesto della tragedia che lo colpisce diventa un richiamo inascoltato a responsabilità individuali e collettive, il suo sguardo attento scruta l’orizzonte lasciando come eredità ipotesi incerte e complicate. Un cammino difficile per una comunità nazionale minacciata da due versanti: piegata e in difficoltà sotto i colpi di un feroce attacco terroristico senza precedenti, nelle dinamiche di una crisi (o almeno i primi sintomi di difficoltà) dei suoi punti di riferimento, dei cardini che ne avevano garantito la tenuta e la credibilità.

Il crinale tra la fine degli anni Settanta e il decennio successivo è un passaggio risolutivo, una svolta irreversibile. Con questa chiave interpretativa studiosi di diverse ispirazioni hanno letto la cerimonia funebre dedicata ad Aldo Moro in San Giovanni in Laterano quasi come fosse un «funerale della Repubblica» fuori dai confini nazionali, in territorio Vaticano. Un estremo saluto quello del 13 maggio 1978 che chiude un’epoca, una fase intera del lungo dopoguerra italiano.

Un funerale senza feretro, con la famiglia che si ritrae a protezione dei propri spazi di dolore privato; basti il richiamo alla scena finale del film “Buongiorno, notte” di Marco Bellocchio - girato nel 2003 a venticinque anni da quegli avvenimenti - con lo stridente contrasto nelle espressioni dei volti di protagonisti inquadrati durante l’omelia di Paolo VI. In quei giorni in tanti scrissero che la Repubblica non sarebbe rimasta la stessa. Giuseppe Saragat usò parole inequivocabili: «Accanto al cadavere di Moro c’è anche quello della prima repubblica». E a questo punto le strade si dividono tra chi pensa che molto possa e debba cambiare e chi invece tutto sommato privilegia la chiave della continuità. Ma l’illusione di uscirne in modo surrettizio o gattopardesco (cambiare tutto a parole perché nulla cambi) fa presto i conti con il peso di un’assenza e con le difficili strettoie di un sistema politico incapace di rinnovarsi nel profondo.

Il tempo e la distanza dagli eventi hanno chiarito la portata di quella discontinuità, il peso di un passaggio così destabilizzante. Per la verità alcuni avevano colto già allora i segni di un tornante storico senza precedenti, capace di definire un prima e un poi nel cammino dell’Italia repubblicana.

 

Sono sorprendenti fino ad apparire senza tempo, o sospese in un tempo senza limiti le parole con le quali uno storico del calibro di George Mosse affronta l’impostazione di Moro e il suo lascito nel cammino della democrazia italiana: «Aldo Moro è vissuto e ha operato nel corso di una crisi permanente della democrazia parlamentare italiana. Questa crisi che egli ha cercato di superare è ancora attuale». Mosse riflette su Moro nel 1979, ma il contenuto potrebbe spingersi fino a coprire i decenni che abbiamo alle nostre spalle, fino a un tempo molto ravvicinato.

Un secolo dopo la nascita di Moro le ragioni per tornare su quelle pagine sono molteplici: lasciarsi da parte il monopolio e il ricatto esclusivo dei 55 giorni, liberarsi dalla morsa della falsa alternativa tra apologeti e denigratori inserendo finalmente la parabola politica e il pensiero di Moro in «una dimensione non solo nazionale, ma connessa, in chiave comparativa all’evoluzione politico-sociale europea e ai suoi problemi». Non è semplice, ma ne può valere la pena per chi voglia tentare di comprendere qualcosa in più non tanto su Aldo Moro quanto sull’Italia e sul mondo di oggi.

L’ombra di Moro si allunga sui decenni successivi fino a condizionarne parti costitutive. Gli effetti della tragica conclusione toccano i vertici delle istituzioni. Pochi giorni prima dell’esecuzione Aldo Moro aveva scritto al segretario del suo partito Benigno Zaccagnini una lettera dai toni drammatici e ultimativi: «Se voi non intervenite, sarebbe scritta una pagina agghiacciante nella storia d’Italia. Il mio sangue ricadrebbe su di voi, sul partito, sul Paese. Pensateci bene cari amici. Siate indipendenti. Non guardate al domani, ma al dopo domani». Uno sguardo lungo che si spinge fino all’orizzonte delle compatibilità di allora. Il leader della Dc mette in guardia i suoi interlocutori: se mi uccidono non può reggere più l’equilibrio che ha permesso e garantito lo sviluppo del dopoguerra, nulla sarà più come prima e la stessa difesa della Dc rischia di essere travolta da sentimenti e reazioni incontrollabili.

Così al tramonto traumatico della stagione del compromesso storico segue un’incerta ricerca di nuovi equilibri, con numeri e progetti politici irrealistici e insufficienti e con la persistenza dell’ombra di Moro che condiziona la politica e l’insieme della democrazia italiana.

Il testo è tratto da "Storia dell'Italia contemporanea 1943-2019" appena pubblicato dal Mulino