I mafiosi condannati a vita continuano a esercitare il potere carismatico. E ammorbidire il regime penitenziario, allargando l'accesso ai benefici anche per chi non si pente, non depotenzia la loro carica criminale

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Lo scorso 23 ottobre la Corte Costituzionale ha emesso una sentenza dagli effetti potenzialmente dirompenti sullo strumentario sin’ora posseduto dal nostro ordinamento in tema di contrasto alla criminalità di stampo mafioso. La Corte è intervenuta sul regime penitenziario previsto per gli ergastolani mafiosi i quali, a fronte della loro decisione di non collaborare con la giustizia, vedevano restringersi l’accesso ai benefici, in virtù di una presunzione assoluta di permanenza dei legami con l’organizzazione criminale e, contestualmente, di una presunzione assoluta di pericolosità sociale.

La pronuncia ha sancito l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche qualora siano stati acquisiti elementi tali da escludere il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Il condannato dovrà dar prova di aver compiuto un percorso rieducativo.
Il caso
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In sostanza, la Corte ha ritenuto come la “pericolosità sociale” del detenuto non collaborante non debba essere più assoluta ma relativa, e dunque valutata caso per caso dal giudice in base alle relazioni del carcere, alle informazioni ed ai pareri di varie autorità.
Il raggio d’azione di tale pronuncia va inoltre circoscritto allo specifico beneficio penitenziario dei permessi premio, non essendo incidente sulla totalità dell’art. 4 bis.

L’importanza di questa decisione - in attesa della sentenza - va però contestualizzata in uno specifico momento storico, essendo stata emessa all’indomani di una disposizione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che il 7 ottobre, respingendo un ricorso avanzato dal Governo italiano, ha ritenuto “inumano e degradante” il divieto di accedere ai benefici penitenziari imposto dalla legge italiana agli affiliati di mafia che rifiutino una collaborazione con la giustizia. Lo Stato italiano è stato chiamato a rivedere la norma, consentendo quindi al reo di dimostrare la propria lontananza dall’organizzazione con strumenti anche diversi dalla collaborazione di giustizia.
Contro e a favore di queste pronunce si sono sollevate tanti voci. Molte hanno manifestato ampia soddisfazione per una pronuncia restauratrice dello spirito di umanità di uno Stato carnefice e spietato nell’aver segregato nelle patrie galere detenuti in un inesorabile “fine pena mai”; il riscatto di uno Stato che in questi casi avrebbe rinnegato uno dei principi fondamentali della Carta Costituzionale che, all’art. 27, sancisce come la finalità della pena andrebbe orientata alla rieducazione del condannato.

Il principio della umanizzazione della sanzione penale è indubbiamente connesso al doveroso principio del rispetto della personalità dell’uomo e nello specifico della dignità del detenuto. Ma accanto alla finalità rieducativa va riconnessa anche una funzione deterrente che, oltre a dissuadere i consociati dal commettere reati, svolge un effetto di orientamento culturale richiamandoli alla considerazione dei valori per la cui tutela è posta la pena. Così facendo, si andrebbe a provocare una spontanea adesione dei soggetti ai valori espressi dall’ordinamento, incentivandone il rispetto e l’osservanza.

Allo Stato, di fatto, viene assegnato un compito primario rispetto a quello che gli riconosce la potestà punitiva: quello di garantire i diritti inviolabili dell’uomo, impegnandosi a tutelarli, prima che vengano violati.
Prevenire il reato rappresenta una missione imprescindibile. Un dovere costituzionale che diviene cogente se riferito alla prevenzione di reati di elevata allerta sociale come quelli mafiosi.

Molti, seppur autorevoli, commenti della sentenza della Corte costituzionale non hanno tenuto conto della specificità del fenomeno mafioso. La drammatica storia del nostro Paese ci ha imposto di prevedere una normativa differenziata per gli affiliati di mafia appartenenti ad un circuito criminale che è sul piano sociologico, criminologico e culturale, innegabilmente differente da tutti gli altri contesti malavitosi. La mafia, come scriveva Falcone, è criminalità e cultura. L’adesione ad una organizzazione mafiosa è qualcosa di più della partecipazione ad un’entità criminale finalizzata al profitto illecito. È un credo irrinunciabile. Si diventa mafiosi in un processo progressivo di oggettivazione. Il sicario mafioso è una non-persona, come sono non-persone le vittime. Non c’è l’Io e non c’è l’Altro, c’è solo la “Famiglia”, la “Locale”, il “Clan”. Il boss in carcere continua ad esercitare il potere carismatico criminale ed il rifiuto di collaborare con la giustizia lo rende un modello positivo per il suo ambiente.
Dal carcere, prima del regime penitenziario del 41 bis, i boss controllavano gli affari ed emettevano ordini di morte. Vale la pena ricordare che i primi provvedimenti di applicazione del regime di isolamento vennero firmati all’indomani della strage di via D’Amelio, benché la norma facesse parte di un pacchetto antimafia proposto da Giovanni Falcone. Il 19 luglio del 1992, alla notizia della strage, nel carcere palermitano dell’Ucciardone si brindò con champagne introdotto in concomitanza con la preparazione dell’attentato. Il regime del 41 bis nacque con queste finalità: isolare i mafiosi dal contesto di provenienza; depotenziare la loro carica criminale; indurli a collaborare, fornendo notizie certe e riscontrabili, necessarie a prevenire delitti o ad identificare responsabilità per reati già commessi. Altro dalla finalità rieducativa.

Il mafioso, tradizionalmente veste gli abiti del detenuto modello. Basare la sua “redenzione” sulla valutazione del percorso trattamentale può essere del tutto fuorviante.

Solo con la collaborazione si attesta una nitida presa di distanza dal mondo criminale. In mancanza di questa essi continueranno ad essere capi rispettati ai quali si deve obbedienza. Al contempo, la collaborazione non comporta un “ravvedimento” o un pentimento. La legge non lo richiede. Nella maggioranza dei casi è il calcolo utilitaristico di avvantaggiarsi dei benefici connessi alla collaborazione ad indurre il mafioso a fornire informazioni rilevanti. Si tratta di una mera valutazione costi/benefici. Se i costi venissero ridotti e il carcere ostativo depotenziato, al mafioso non converrebbe collaborare. Alla luce di ciò, va pertanto scongiurato il pericolo dell’estensione del divieto agli altri benefici, in un cortocircuito che determinerebbe la fine di uno strumento antimafia tutt’oggi efficace. Basti pensare alla collaborazione dei mafiosi nei processi al Nord che hanno dato la possibilità di aprire nuovi procedimenti e svelare misteri da tempo archiviati.

Ora, alcuni attendono l’emanazione di una legge che delimiti l’area di intervento per la concessione dei permessi, stabilendo parametri e principi fissi. Si tratterebbe di un provvedimento del tutto illegittimo perché andrebbe a limitare la discrezionalità del giudice di sorveglianza, violando la pronuncia della Corte. Tuttalpiù il legislatore potrà solo indicare le modalità di valutazione della concessione, senza reintrodurre nuove preclusioni. Ma la magistratura di sorveglianza non può essere lasciata sola ad affrontare questa delicatissima sfida che può rappresentare un’occasione per migliorare, ma non per depotenziare il contrasto alla mafia.

*Professoressa ordinario di Sociologia del diritto, Alma Mater Studiorum-Università di Bologna

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