La discussione su che cosa sia arte e che cosa no, per fortuna, è stata chiusa mezzo secolo fa dal filosofo Dino Formaggio, con il rifiuto verso ogni pretesa di oggettività: «Arte è tutto ciò che le persone chiamano arte», e buonanotte.
Poi ciascuno di noi può tifare per Cattelan o al contrario per Banksy, o perfino per David Datuna che la banana di Cattelan se l’è masticata. Ma, schivando appunto la ricaduta nell’obsoleta questione della definizione artistica, è l’oggetto stesso dell’opera - commestibile e appeso a un muro con lo scotch - a suggerire pensieri che vanno oltre, cioè verso la sociologia e la politica.
Di fronte al più ovvio dei simboli fallici, peraltro spesso associato tanto con la sodomia quanto col razzismo, siamo costretti a confrontarci con l’epoca del grande ritorno all’orogenitale, come reazione istintuale e infantile alla complessità del presente - per non dir del futuro.
E il linguaggio della politica così banalizzato (o “bananizzato”?), così gastrointestinale e reciprocamente vaffanculesco, pare esserne uno dei sintomi (e, insieme, una delle cause).