Aborto clandestino, migliaia di donne ancora oggi rischiano la vita
Giorgia, Alaa, Sara. Tre itinerari di dolore come moltissimi altri. Che nessuno vuole vedere. Dalle roulotte dei campi nomadi ai “laboratori” cinesi, dove per interrompere la gravidanza si usa un farmaco per l'ulcera
Il bus numero 105 è una linea molto frequentata, copre un tratto lunghissimo dalla Stazione Termini fino al Parco di Centocelle, una miriade di fermate che percorrono come un elettrocardiogramma la vecchia periferia di Roma. Il 105 è l’autobus che Giorgia prende tutti i giorni per andare al lavoro come addetta alle pulizie di un hotel low cost all’Esquilino dove la natura degli avventori è sempre incerta, Giorgia ha poco meno di trent’anni e uno sguardo affilato che apre in due. Non cerca pietà e compassione, ma lotta, lotta per se stessa e per le altre di cui non conosce il nome. Un giorno di un anno e mezzo fa la sua vita è cambiata per un aborto.
«Stavo col mio compagno da tre anni e le cose non andavano bene, col passare del tempo come capita a tante l’ho visto cambiare e diventare violento e ossessivo, la storia che raccontano tutte», dice mentre gesticola ampiamente, «dopo un ritardo del mio ciclo prolungato faccio un test di gravidanza e mi accorgo di essere incinta. Ovviamente lo comunico e lui è felice, dice che finalmente potremmo iniziare una nuova vita. Passa la prima settimana e devo dire che il suo atteggiamento era cambiato, più calmo e proprio felice della notizia. Tra me e me dicevo “volesse il cielo che questo ha messo la testa apposto”, ma era solamente un’illusione». Giorgia racconta che dopo quella settimana di idillio a un certo punto la obbliga a mettersi in malattia dal lavoro «perché sosteneva che quel posto era squallido e che il bambino avrebbe rischiato di prendere chissà quale malattia». Da qui parte un’escalation di privazione graduale della libertà prima le toglie il cellulare: «mi faceva chiamare mia madre la sera e sotto il suo controllo».
Questo incubo, racconta Giorgia, va avanti per due settimane quando da incubo passa al dramma. «A un certo punto gli dico che sta impazzendo, che non posso vivere così e che abortirò perché non ci sto a farmi segregare fino al parto e poi chissà quanto altro ancora. Gli dico che io non sono sua, che il figlio lo voglio buttare perché se averlo significa dover fare i conti con lui tutta la vita non lo volevo».
Dentro Giorgia, mentre racconta, sale una rabbia enorme che le riga il volto perché «quel bastardo mi ha fatto dire e fare delle cose orrende». La reazione dell’uomo non si fa attendere: «Mi strattona e mi getta a terra, inizia a tirarmi tutto quello che trova a disposizione. In quegli istanti mi dice che sono una troia e che il bambino lo “cagherò fuori” anche se non lo voglio, perché il figlio è roba sua. Dopo mi tira su a forza e mi dà un cazzotto sulla bocca dello stomaco dicendo che se mi azzardavo a dire qualcosa mi avrebbe dato il resto». Giorgia non lo ha mai denunciato perché la sua famiglia nonostante avesse saputo delle violenze, della gravidanza e della sua segregazione ha sempre invitato a portare pazienza. «Mio fratello diceva che ero un’isterica, che ero una matta insomma e che lui faceva bene a stare attento a quello che facevo, insomma, mi sono sentita sola».
L’incubo di Giorgia continua fino a che una mattina l’uomo si attarda ad alzarsi, lei si alza e vede che ha lasciato le chiavi attaccate alla porta. In quel momento, in pochi attimi si cambia in bagno, apre la porta e scappa senza soldi, senza documenti, inizia solamente a correre. Prende il 105 e si mescola alla vasta umanità che lo popola. «Mi sono sentita come loro», racconta, «c’erano gli immigrati e pure io ero un immigrata, pure se sono di Roma». Giorgia va nell’albergo dove lavora e racconta la storia che sta vivendo al suo datore di lavoro che ovviamente non le crede: «“La parola tua contro la sua”, mi dice, “e io a chi dovrei credere?”. Inizio a piangere, esco dalla sua stanza e trovo Alina, una mia collega rumena a cui racconto tutto. Mi calma e mi dice che ci penserà lei. Mi porta a casa sua, un minuscolo appartamento a Casalbruciato e lì inizio a sentirmi quasi in salvo. Mi dice che anche lei quando era appena arrivata ha abortito, con un farmaco, il Cytotec e che andremo in un campo dove alcuni amici suoi lo vendono. Mi rassicura dicendo che basteranno poche pasticche perché sono ancora di poche settimane. Le chiedo se non sarebbe meglio andare in ospedale e mi convince che tra medici obiettori, psicologi passerebbe troppo tempo e io di tempo non ne avevo molto. Dovevo salvarmi».
Giorgia ricorre in modo insicuro al Cytotec, un farmaco che ha come principio attivo il misoprostolo che di solito viene utilizzato per la prevenzione delle ulcere gastriche, per trattare l’aborto spontaneo, per indurre il travaglio di parto, e come farmaco abortivo. Un farmaco pericoloso che è diventato oggetto di commercio spesso illegale come nel caso di Giorgia.
«Arriviamo in questo campo nomadi alla Romanina, avevo tanta paura di morire. Alina mi diceva di non preoccuparmi, entriamo in una roulotte e una donna mi accarezza il viso. Non dimenticherò mai la carezza di quella donna, aveva una mano gelida. Alina ci parla e gli da 250 euro in cambio di sei pasticche di Cytotec». Nella roulotte della donna, racconta Giorgia, sembra esserci una specie di ambulatorio, comprensivo di reggigambe ginecologico e un lettino con degli asciugamani. «Quando ho visto quei ferri ho pensato chissà quante donne avrebbero abortito dentro quel posto squallido, chissà a quante come me sarebbe rimasta quella ferita perché fare un aborto sicuro è complicato e questa cosa mi ha addolorato». Giorgia torna a casa e assume le pasticche come “prescritto” dalla donna nella roulotte.
Dopo poco il suo ventre inizia a contrarsi, Alina la tranquillizza, iniziano le perdite di sangue, la sua pressione cala. «Sembrava che avessi dentro un incendio, il sangue iniziava a uscire e dentro quel sangue ci sarebbe stato anche il feto pensavo e mi dicevo che quella era la punizione giusta per non aver badato a me stessa, alle compagnie che avevo vicine». Ma il sangue continua a uscire e anche Alina si spaventa e chiama un’ambulanza che dopo qualche minuto la porta in ospedale. «In ospedale», continua Giorgia, «mi puliscono l’utero, mettono fine all’emorragia e anche a una parte di me. Ho rischiato di morire perché per una donna non ci sono gli stessi diritti degli uomini, perché una donna deve andare in un campo nomadi per abortire? Perché è difficile denunciare una violenza domestica? Perché se sei povera non hai gli stessi diritti di una donna ricca? Sono le domande che mi faccio ogni notte prima di andare a dormire anche se non dormo mai». Giorgia ha ricominciato a vivere lontano dal quartiere dove viveva, ha un nuovo lavoro, «ma ancora non mi faccio toccare da nessuno perché quel sangue sarà andato via da dentro ma è rimasto fuori, sulle ferite che ho».
Questa storia di aborto insicuro e clandestino non riguarda solo Giorgia, ma anche Alaa, che ha ventiquattro anni e viene dal Sudan. Alaa ha rischiato di morire in Puglia. È arrivata in Italia con un barcone e si è portata dietro un cammino di stupri e una gravidanza. Alaa oggi è a Roma e ha una nuova vita, ma nella sua memoria ha «i trafficanti addosso tutte le sere, sento ancora le loro mani», racconta mentre con le mani sembra volersi pulire da quella presenza, «sono scappata per la guerra e sono stata stuprata dopo pochi chilometri dalla partenza quando il primo trafficante ci vende ad altri trafficanti. Ogni scambio era uno stupro. Fino all’arrivo in Libia dove siamo stati ammassati in una sorta di buca dove i nostri carcerieri ci stupravano a turno e dove ho visto nascere e morire dei bambini».
Alaa riesce ad arrivare in Italia e poi viene trasferita in Puglia e chiede alla sua mediatrice culturale se può abortire. «Lei mi risponde che si può fare ma la trafila è lunga e forse sono fuori dal tempo massimo per la legge italiana e allora chiedo ad altre donne che mi mettono in contatto con un uomo che mi fa avere queste pasticche che dicono essere abortive». La difficoltà di comunicare di Alaa è ovviamente il primo ostacolo, ha superato la dodicesima settimana e quindi la dose di Cytotec deve essere massiccia altrimenti il feto non potrà essere espulso. Alaa prende le pasticche fuori dal centro, fuori dal controllo medico, inizia come Giorgia a sanguinare e ad avere dolori atroci. Si trascina fino all’ingresso di un pronto soccorso di Bari dove sviene. «In ospedale», racconta Alaa, «sono stati gentili e mi hanno aiutata davvero. Non sapevo la lingua ma le donne del reparto mi hanno accudita».
La carrellata di storie come quella di Giorgia e di Alaa è imponente. Gli aborti clandestini sono ancora migliaia ogni anno: gli ultimi dati disponibili del ministero della Sanità riguardano il 2012 e stimano fra i 10 e i 13 mila casi, dei quali più di 3 mila riguardano donne straniere. Sono numeri che raccontano un Paese sommerso e ipocrita, dai vasti coni d’ombra dove c’è un tacito accordo fino a quando andrà tutto bene.
«Ho abortito dentro un laboratorio all’Esquilino in mezzo a tante altre donne cinesi che abortiscono e di cui nessuno sa niente e che magari muoiono, io ero minorenne tre anni fa», dice Sara, «la mia storia è uguale alle altre, ci rimane solo la pena e solo la lotta. Però raccontatelo perché ogni volta che si attacca la 194 si indebolisce la vita delle donne. Scrivetelo mi raccomando. Per tutte, scrivetelo».