Il (vago) manifesto dell’ex ministro non fa ?i conti con le illusioni degli anni Novanta e ?con il nodo posto dall’insorgenza populista
Oggi pochi ricordano “ The Aachen Memorandum”, il romanzo dello storico britannico Andrew Roberts, pubblicato nel 1995. Racconta le avventure del Dr. Horatio Lestoq, un accademico che si imbatte casualmente in documenti che proverebbero un complotto ordito dai vertici dell’Unione europea, che nel romanzo è dominata da Germania e Francia, per erodere le fondamenta costituzionali del Regno, in modo da realizzare più facilmente l’ingresso delle isole britanniche negli Stati Uniti d’Europa. Quando Lestoq scopre le prove, nel 2045, il complotto ha avuto successo: Waterloo Station si chiama Maastricht Terminus, la statua di Nelson è stata rimossa da Delors Square, e il giovane monarca William si è visto costretto ad abbandonare Londra per trasferirsi in Australia. Anche nel romanzo c’è un referendum, vinto con l’inganno dai remainers. La trama è di una spy story distopica, una sorta di crossover tra la saga di James Bond e il 1984 di Orwell, ma il tema è politico, e dava voce alle inquietudini che, proprio in quegli anni, parte della società britannica cominciava ad avere rispetto al legame con l’Europa.
Con il senno di poi, si potrebbe dire che “T
he Aachen Memorandum” era un sintomo della malattia che si sarebbe manifestata alcuni anni dopo. Non fu la preveggenza, tuttavia, che mi spinse ad acquistarne una copia in una libreria second hand di Manchester, dove risiedevo in quel periodo, e a leggerlo. Un collega inglese mi aveva detto che il personaggio di Lestoq era ispirato a Isaiah Berlin, un intellettuale per il quale ho un grande interesse. Dei contenuti politici mi accorsi. Tutti ci rendevamo conto che l’accelerazione del processo di unificazione europea, e in particolare la prospettiva di una moneta unica, creava qualche contraccolpo oltre Manica.
Ma non avrei immaginato niente di paragonabile a ciò che è accaduto in seguito al referendum sulla Brexit. Prima dell’11 settembre e della crisi economica le classi medie di buona parte dei Paesi del Continente guardavano ai cambiamenti che si annunciavano con un sentimento di fiducia. Eravamo sul punto di fare un altro passo avanti, la nostra fede nel progresso stava per trovare conferma. Non è un caso che oggi trovi in prima fila nell’opposizione alla Brexit tanti colleghi conosciuti allora. Nel mondo accademico l’unione politica dell’Europa era vissuta come un processo inevitabile, la semplice presa d’atto di qualcosa che era già avvenuto nella testa di ciascuno di noi: nel nostro modo di lavorare, nelle straordinarie opportunità che si aprivano a chi aveva curiosità e voglia di confrontarsi con il mondo.
Le voci dissenzienti come quella di Roberts, o del filosofo Roger Scruton, filtravano a malapena nell’armonia delle nostre convinzioni. Conservatori, o addirittura reazionari, gente che cerca di mettersi di traverso rispetto al cammino della storia. Persino la globalizzazione non ci turbava troppo. Non era la nostra - come dicevano Bill Clinton e Tony Blair - l’epoca in cui la crescita economica avrebbe portato tutte le barche, grandi e piccole, verso l’alto? Bisognava solo imparare ad accompagnare le oscillazioni provocate dalle onde. Si poteva essere di sinistra e amici del Capitale. L’ineguaglianza non sarebbe più stata un problema politico, al massimo un inconveniente tecnico, era giunto il momento di goderci a pieno tutte le nostre libertà.
C’è un’ironia amara nella circostanza, niente affatto casuale, che
nei giorni scorsi Angela Merkel e Emmanuel Macron abbiano firmato proprio ad Aachen (che noi chiamiamo Aquisgrana) il nuovo trattato tra Francia e Germania, che rafforza la cooperazione tra i due Paesi in settori chiave come l’uniformità delle regole commerciali e la difesa comune. Per chi conosce la storia - un fardello di cui i politici italiani si sono da tempo liberati - il nome della città tedesca evoca memorie importanti, che ci riportano indietro fino al Medio Evo, al tempo in cui, dalla fusione tra la cultura romana e quelle dei “barbari”, comincia a prender forma un’identità europea riconoscibile. Terra di confine tra popolazioni francofone e di lingue germaniche, Aquisgrana sembra il luogo naturale in cui dare un segnale di unità e provare a dare nuovo impulso all’Europa.
L’orizzonte, come sappiamo bene, è quello delle prossime elezioni per il Parlamento Europeo, e le forze politiche e sociali che sono in favore della continuazione del processo di unificazione hanno disperatamente bisogno di un simbolo cui aggrapparsi per recuperare consenso e sconfiggere i “populisti”. A giudicare dalle prime reazioni, non è scontato che il tentativo riesca.
Come Andrew Roberts sapeva bene, Aquisgrana è un simbolo ambiguo, che non trasmette lo stesso messaggio al centro e in periferia. L’idea di un cuore franco-tedesco per l’Europa non è certo una novità, e oggi viene riproposta in condizioni economiche e geopolitiche profondamente mutate rispetto ai tempi di De Gaulle e di Adenauer. Per la generazione di europei uscita dalla guerra, fidarsi gli uni degli altri era una scelta, resa più facile dalla guerra fredda e dall’egemonia militare statunitense. La situazione odierna è più simile a quella del dilemma del prigioniero in teoria dei giochi, nessuno si fida pienamente degli altri, e tutti gli equilibri finiscono per essere in qualche modo insoddisfacenti.
Questo ha delle conseguenze anche per la politica italiana.
Noi non c’eravamo ad Aquisgrana, e il ministro dell’Interno ha lasciato intendere che non ci saremmo andati neanche se qualcuno ci avesse invitato. Le relazioni con Francia e Germania del governo Lega-Cinque Stelle non sono idilliache al momento.
All’opposizione, invece, comincia a prender forma l’iniziativa, per la verità ancora piuttosto vaga, di un fronte europeista per le elezioni. Ma
le affermazioni generiche contenute nel manifesto di questa nuova iniziativa, promossa dall’ex ministro Carlo Calenda, richiederebbero per concretizzarsi una reale alleanza transnazionale tra socialisti e liberaldemocratici di cui non c’è traccia. Per ora le grandi famiglie della politica europea si avviano alle elezioni ciascuna per conto suo, e non sarà certo qualche decina di migliaia di firme raccolte in Italia a mutare la situazione. Le alleanze per funzionare richiedono alleati con una chiara identità e contezza delle proprie priorità.
L’iniziativa di Calenda può essere un espediente per guadagnare tempo, nella speranza di superare senza troppi danni lo scoglio delle elezioni europee. In fondo c’è la possibilità che una parte degli elettori che hanno votato l’attuale maggioranza riveda le proprie posizioni prima del voto. Questa tattica, tuttavia, comporta che si rimandi ulteriormente la resa dei conti all’interno del Pd, e quindi la definizione di una chiara fisionomia del fronte progressista. Anche se funzionasse sul piano elettorale, un successo alle urne, come mostra l’esperienza di Renzi, non è il sostituto di una chiara strategia. Sciogliere il nodo posto dall’insorgenza populista significa fare i conti fino in fondo con le illusioni degli anni Novanta del secolo scorso. Un bilancio che, come ha scritto su queste pagine Antonio Funiciello, ci impone di rivedere criticamente le idee della Terza via di Clinton e Blair.
Dopo la Prima guerra mondiale, intellettuali come Stefan Zweig, Joseph Roth e Franz Werfel si illusero che la nostalgia del “mondo di ieri”, che per loro era quello di un’Europa tollerante e progressista, in cui le frontiere contavano sempre meno e la libertà sempre più, fosse un’arma efficace contro i fascismi. Si sbagliarono, con tragiche conseguenze. Noi dobbiamo evitare di commettere lo stesso errore. La difesa dell’Europa unita oggi richiede un contratto sociale equo, e quindi una sinistra forte, non il richiamo al Sacro Romano Impero.