Alcolisti, tossicodipendenti, senzatetto: la malavita di Mosca convince migliaia di emarginati a partire, fingendo di offrire loro un lavoro. Ma chi accetta finisce prigioniero nel Daghestan. E fuggire da lì è impossibile

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Nella Russia zarista il commercio di esseri umani era largamente diffuso e le navi turche salpavano dalla costa georgiana per trasportare gli schiavi caucasici a Istanbul e da qui a Smirne, per poi fare rotta verso i mercati dell’Egitto. Oggi il fantasma della schiavitù in Russia riaffiora ad appena qualche chilometro dal centro di Mosca e dai suoi negozi di lusso: alcolisti, tossicodipendenti, senzatetto, persone con disturbi mentali vengono avvicinate e ricevono delle “proposte lavorative”. Nel caso di persone indebitate, viene presentata loro la possibilità di saldare il dovuto con un periodo di lavoro. Le proposte riguardano generalmente vaghi “impieghi” nelle regioni periferiche della Federazione o a ridosso delle sue frontiere.

Convinti a mettersi in viaggio, questi emarginati vengono trasportati alle destinazioni loro assegnate: a volte soli, altre con gli stessi reclutatori. Il Caucaso settentrionale è una delle mete più frequenti: soprattutto Daghestan ma anche Circassia, Cecenia e altre regioni. Appena arrivati a destinazione, vengono privati dei documenti, dei soldi e di qualsiasi strumento di comunicazione, per poi essere portati dove saranno costretti a lavorare in condizioni addirittura peggiori di quelle degli operai e dei contadini della Russia zarista: campi, fabbriche “informali”, miniere.

I ritmi sono terrificanti: spesso le migliaia di schiavi post-sovietici lavorano dalle sei di mattina alle nove di sera, quasi sempre senza alcun giorno di riposo e senza alcuna libertà di movimento. Senza alcun tipo di retribuzione, se non il cibo indispensabile per sopravvivere. Spesso vivono nelle baracche, in condizioni igieniche inadeguate persino per gli animali, sotto il torchio di umiliazioni, di violenze fisiche e psicologiche. Costretti a fabbricare mattoni, lavorare la terra o negli allevamenti, molti di loro trascorrono in queste condizioni interminabili anni.

Spiega all’Espresso Oleg Melnikov, giovane fondatore dell’organizzazione Alternativa, la principale Ong anti schiavitù russa: «Dall’inizio della nostra attività abbiamo liberato fisicamente quasi settecento persone. Vorremmo occuparci anche del loro sostegno psicologico e del loro reinserimento sociale e lavorativo ma la nostra attività è particolarmente dispendiosa e i nostri fondi sono limitati. Non abbiamo abbastanza risorse». Poi aggiunge: «Grazie al nostro lavoro l’attenzione dei media e delle istituzioni federali è un po’ cresciuta, ma continua a non essere sufficiente. Manca anche una legge specifica che definisca in termini chiari la schiavitù contemporanea».

Melnikov si è avvicinato a questa missione quasi per caso: «Una volta un amico mi disse che un suo parente era stato portato in Daghestan e ridotto in schiavitù. Inizialmente non ci credevo molto, ma il mio amico mi ha convinto ad andare in Daghestan con lui. Era tutto vero e lo abbiamo liberato insieme. Poco dopo siamo riusciti a liberare anche un’altra persona nelle stesse condizioni. Non credevo che da questa esperienza sarebbe nato un progetto strutturato, ma settimana dopo settimana il nostro lavoro andava avanti e si organizzava. Da quando abbiamo cominciato sono passati già sette anni», spiega. Per capire come funziona il reclutamento degli schiavi lo stesso Melnikov a un certo punto si è finto un senzatetto e per una settimana si è accampato alla stazione Kazanskij di Mosca. Pochi giorni dopo è stato avvicinato da un middle man, che gli ha offerto una bevanda calda che lo ha stordito. Poi è stato fatto salire su un minibus presumibilmente diretto verso il Caucaso: da lì Oleg è riuscito ad avvertire i suoi compagni col telefonino e a liberarsi.

Una volta arrivati in Daghestan, la fuga è quasi impossibile: lì, come altrove, spesso gli impresari e reclutatori coinvolti nello sfruttamento godono della complicità retribuita di autisti, tassisti e persone che lavorano nelle autostazioni, che in caso di fuga hanno il compito di rintracciare gli schiavi e riportarli indietro.

«Appena sono arrivato mi hanno tolto tutto: la borsa, i soldi, i documenti», ci racconta Alexandr Sukov, un ex schiavo liberato dalla Ong Alternativa un anno fa: «Mi avevano promesso una paga tra i venti ed i venticinquemila rubli (circa tra i duecentosettanta e i trecentotrenta euro) ma non ho mai visto un soldo. Come molti altri sono finito a lavorare in una fabbrica di mattoni in Daghestan e ci sono rimasto per mesi, in condizioni indicibili».

Nella Russia dei nostri giorni il costo di uno schiavo è compreso tra i quindici ed i ventimila rubli, tra i 200 ed i 270 euro. Escludendo dal conteggio la schiavitù sessuale e considerando la sola forma finalizzata allo sfruttamento della forza-lavoro, si stima che centinaia di migliaia di persone siano o siano state vittime del traffico.

I luoghi in cui si consumano gli orrori della schiavitù sono quelle zone della Federazione dove il potere centrale è costretto a compromessi con i poteri dei clan e dei gruppi criminali locali: Daghestan, Kabardino-Balkaria, Circassia, Cecenia. Sia durante la storia sovietica sia dopo, il Daghestan ha sempre avuto un complesso rapporto con il Cremlino, che è stato costretto a venire ad accordi con le élite locali, la corruzione, e i gruppi criminali. Abitato da tre milioni di persone, il Daghestan è una regione molto montuosa (il suo stesso nome significa “Paese delle montagne”) e le caratteristiche del territorio facilitano le bande criminali, che possono agevolmente nascondersi.

Lo stesso Vladimir Putin è andato a Makhachkala, capitale della regione che si affaccia sul mar Caspio: lo scopo della visita - almeno ufficialmente - era la situazione economica, politica e sociale della repubblica. Il Daghestan è infatti l’area che pesa di più in termini assoluti nel bilancio federale: un sostegno, quello di Mosca, che vale quasi un miliardo di dollari l’anno. Una parte rilevante di questi soldi viene risucchiata dal vortice della corruzione, lasciando irrisolti molti problemi della regione, come quello della disoccupazione, della radicalizzazione islamica, e appunto della larga diffusione della schiavitù.