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Cultura
marzo, 2019

Dimenticatevi destra e sinistra, il mondo si divide tra rallentisti e velocisti

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Se le categorie tradizionali sono sparite, racconta il senso comune, l loro posto avanzano altri bipolarismi: alto e basso, ma non solo. Il primo non riguarda lo spazio, ma il tempo. Ormai non più abitabile

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RALLENTISTI
Chi non pensa che tutto vada troppo in fretta? Chi non sogna una pausa? Se non altro per riprendere fiato, per respirare un po’? La frenesia è un tratto costitutivo della vita in questa tarda modernità. Come su un inarrestabile tapis roulant, si corre più che si può per mantenere la stessa posizione. Ogni istante richiede l’enorme sforzo di conformarsi all’accelerazione di un mondo la cui essenza riposa sulla velocità.

Siamo sempre in ritardo. Il tempo sembra già consumato prima ancora che venga concesso. Gli impegni urgenti si moltiplicano, le scadenze si accumulano. Sull’agenda le innumerevoli date minacciano quei pochi spazi bianchi rimasti. L’asfissia temporale è il male oscuro di questi anni. Inadeguatezza, ansia, panico pervadono la nostra esistenza condannata al timore dell’attimo successivo che, mentre incombe, è già dileguato. Non solo non riusciamo a fermarci. C’è di più: non riusciamo a soffermarci nel tempo, dove non troviamo più dimora. Tutti gli istanti sono ormai inabitabili.

Se sin dall’antichità il rapporto con il tempo è stato sempre conflittuale, adesso è diventato di aperta ostilità. Vorremmo sconfiggere una volta per tutte quel “tiranno” che ci incalza; vagheggiamo di abolirlo. Perciò ci sentiamo a nostro agio nelle atmosfere prodotte dalla nuova civiltà delle 24 ore su 24, dove non è prevista chiusura e l’orologio è bandito: dai supermercati non-stop ai notiziari a flusso continuo. Qui si perde il senso del tempo, che pare dilatarsi, mentre saltano i limiti degli orari. Per il resto, la nostra esperienza si riduce alla contabilità: il tempo che perdiamo o recuperiamo, quasi fosse un oggetto, è un tempo vuoto che, se non viene riempito con l’affaccendamento, finisce per essere vacuo e desolato. Inutile nasconderlo: il giorno di “vacanza” spesso ci getta nell’angoscia, quasi ci terrorizza. Frazioniamo il vuoto, lo riempiamo di attività, per rendere quel giorno il più possibile somigliante agli altri.

Nessuno si sottrae alla vorticosa economia del tempo nell’era del capitalismo avanzato. Apparentemente siamo liberi e sovrani. Ma a ben guardare l’obbligo della crescita, la smania della produzione, l’ossessione del rendimento fanno sì che subdolamente libertà e costrizione finiscano per coincidere. Viviamo in una libertà costrittiva o in una libera costrizione. Non potremmo altrimenti reggere la sfida quotidiana che ci lascia esausti, senza fiato. Se la sera avvertiamo un vago senso di colpa, non è certo per le leggi etiche aggirate, né tanto meno per i comandamenti religiosi elusi, bensì per non aver tenuto il passo, per non aver sbrigato quello che avremmo dovuto.

Paradigma della tecnica, che la rilancia, programmando l’obsolescenza di tutto quel che produce, dai cellulari alle auto, l’accelerazione è, dunque, il vero problema. Non solo investe ogni ambito dell’esistenza, ma permea anche la politica che, subalterna e gregaria, è pronta ad assecondare le logiche commerciali, a difendere i ritmi forsennati. Per tentare goffamente di adeguarsi, non esita a emanare provvedimenti, decreti, ordinanze e delibere. La riforma della riforma è divenuta ormai una consuetudine.

Ebbene, l’indignazione monta, la rabbia esplode. Quando è troppo e troppo. Siamo tutti rallentisti! O quasi. Bisogna pur rallentare per sopravvivere. La velocità è insostenibile – ne va del nostro futuro. Altro che accelerazione! L’unico compito della politica sarebbe semmai una moratoria, un rinvio, una proroga. Come mai nessuno ha pensato a un partito dei rallentisti? Sono la maggioranza; potrebbero persino vincere le prossime elezioni.

Non manca, però, anche tra i rallentisti, una certa varietà. Se ne possono scorgere almeno tre tipi. C’è anzitutto il rallentista esistenziale. Quanto alla politica, vada come vada. Preferisce ribellarsi individualmente, o insieme a pochi intimi. Riscopre il valore della lentezza e ne fa buon uso. Cinque minuti di meditazione, tecniche di rilassamento, interruzioni ripetute, se capita addirittura una breve siesta, che è quasi uno scandalo: così si protegge dalla fretta. Ovviamente non mette piede nei fast food, convinto che siano un attentato alla salute, ed è – neanche a dirlo – un cultore dello slow food. Tempo permettendo cucina un buon piatto, sperimenta una nuova ricetta. Anche questo è, in fondo, un gesto di resistenza. All’obbligo compulsivo del fare oppone, quando può, un non-fare, al ritmo forsennato risponde con una certa flemma. Non si fraintenda, però, non è un Oblomov dei nostri tempi. Il rallentista autentico non subisce la propria pigrizia; esercita la lentezza. Può assumere persino tratti semi-ascetici, quasi eroici, quando ad esempio partecipa alla giornata della disconnessione. Ore e ore senza smartphone, computer, tv – volendo si può. Certo, poi bisogna avere nervi saldi quando si riaccende, dinanzi all’onda di messaggi da cui si è sommersi. Impermeabile alla follia della velocità, che sembra travolgere gli altri, tenta di aprirsi oasi di decelerazione nei modi più diversi, ad esempio camminando, gustando la quiete della provincia, riscoprendo la noia.

C’è poi il rallentista a cui la scelta individuale non basta più. Anche perché i rapporti di forza sono sfavorevoli e l’imperativo del profitto finisce sempre per avere la meglio. Quelle oasi di decelerazione vanno protette con leggi e provvedimenti. I rallentisti si affacciano così sulla scena politica per chiedere la chiusura dei negozi e dei centri commerciali la domenica. È vero, gli inguaribili patiti dell’accelerazione seguiteranno a fare i loro acquisti in internet. Non è questo che importa ai rallentisti istituzionali. Piuttosto occorre dare un segnale prima che sia troppo tardi. La parola d’ordine non è “lentezza”, ma “rallentamento”. Così si possono limitare gli effetti di quell’ingranaggio malefico che vampirizza il nostro tempo e rovina le nostre vite. Un controllo sulla macchina dell’accelerazione: questo vogliono i nuovi rallentisti istituzionali. Non sarà un po’ ingenuo? L’accelerazione impone i suoi ritmi e non si lascia certo fermare così semplicemente. Se a guidare l’autobus è un rallentista istituzionale, che in curva gioca maldestramente con frizione e marce, il rischio è di precipitare nel burrone.
Non si possono infine dimenticare i rallentisti politici duri e puri, che sull’ingranaggio capitalistico non si sono mai fatti illusioni. Nulla a che vedere con quelli istituzionali. In quella forsennata situazione di stallo, dove l’autobus compie sempre lo stesso giro, il pericolo aumenta e le vite sono a rischio. Tanto più che, se le élite hanno interiorizzato le norme dell’accelerazione, i lavoratori sono costretti dai capi a ritmi alienanti, mentre sui disoccupati incombe l’esclusione. Frenare, sabotare? Come interrompere la folle corsa, evitando, però, quel salto autodistruttivo a cui l’autobus sembra votato? I rallentisti radicali sognano piuttosto un’interruzione che abbia i colori della festa.

ACCELERAZIONISTI
Il buon senso propende per il rallentamento, a meno, certo, che non assuma forme estreme. Dove andare allora a scovare qualche accelerazionista? Nei dipartimenti universitari, fra filosofi, sociologi e politologi. Ma la domanda è un’altra: che cosa potranno volere mai gli accelerazionisti in un mondo lanciato a gran velocità? Il loro fronte, già solo per questo, appare non solo minoritario, ma anche eccentrico, bizzarro, stravagante. Non è un caso che il Manifesto accelerazionista, pubblicato nel 2013 da Alex Williams e Nick Srnicek, sia stato in genere frainteso o preso tutt’al più per un gesto provocatorio.

Sennonché un sentimento accelerazionista attraversa la cultura e l’arte contemporanee. E sebbene non si sia ancora tradotto in un’articolata posizione politica, si tratta di un pensiero tutt’altro che ingenuo e sprovveduto. Le strategie di rallentamento, le fughe estemporanee, sono un palliativo fittizio e anacronistico. Perché non mutano il nostro rapporto con il tempo. Inoltre la lentezza non è di per sé un valore, né tanto meno un fine in sé. Se un medico di pronto intervento indugia, compromette la vita del paziente, se un politico rinvia una decisione importante, è un irresponsabile.

Gli accelerazionisti drammatizzano le immagini. Non siamo su un tapis roulant, bensì su scale mobili che scendono sempre più rapidamente. Corriamo in salita per sfuggire l’abisso. E rovesciano la prospettiva: il problema è il capitalismo, non l’accelerazione. Oltre a essere ingiusto, questo sistem a economico è obsoleto e perverso. Gli effetti deleteri sono sotto gli occhi di tutti: collasso climatico del pianeta, esaurimento delle risorse, guerra e terrore, fame e ingiustizia sociale. Bisogna essere ciechi per non riconoscere la catastrofe alle porte. Ecco perché gli accelerazionisti non nutrono alcuna fiducia nel progresso, come si va delineando, e si oppongono ai programmi neoliberisti. Sono però ben lontani anche dai rallentisti, pur convergendo in parte con le loro critiche più radicali.

Come descriverne allora l’esistenza? Come si comporta l’accelerazionista? Animato dall’impazienza, propenso alla veglia, chi accelera vorrebbe finalmente intravvedere l’oltre. Dato che siamo immersi nel capitalismo, che senso avrebbe nuotare in senso opposto? Meglio muoversi rapidamente tra le onde per non soccombere. Per delineare il movimento dell’accelerazionista si può riprendere un passo del racconto di Joseph Conrad, Lord Jim: «Nascendo l’uomo si trova immerso in un sogno, come se fosse finito in mare. Se annaspa alla ricerca dell’aria, come fanno gli inesperti che cadono in acqua, annega. […]. La salvezza è nell’assecondare la violenza dell’elemento distruttivo piegandosi ad essa, e con gli sforzi delle mani e dei piedi nell’acqua far sì che il mare profondo, profondo, ci tenga a galla».

Si deve allora distingue tra velocità e accelerazione. Quella che sperimentiamo è la maligna velocità del capitalismo che non sa, non può andare oltre, e ci avvolge nella sua spirale devastante che va sempre più a fondo. L’accelerazione, repressa e inibita, va invece liberata. Così si possono affrancare anche le forze produttive. La tecnica, più che una minaccia, è un’opportunità. Questo vale per la rete e per tutte le connessioni globali. Occorre andare al di là del capitalismo senza rinunciare a ciò che ha unito e unisce. D’un tratto gli accelerazionisti sembrano essere molti di più. Sono quelli che nelle periferie del pianeta, dietro i muri e i fili spinati, negli innumerevoli campi profughi, sono condannati all’immobilità. Attendono mesi, anni per una nuova chance di vita, ma anche per accedere alle reti globali, per condividere la promessa di una comunità dei media.
L’accelerazionista punta l’indice contro la politica stagnante, che manca d’immaginazione. Non sorprende che la destra sia arretrata ed eserciti un potere frenante. Il problema è una sinistra arroccata in un localismo primitivo. Come se bastasse sventolare la bandiera di una fantomatica autenticità per fermare la violenza del capitale. La sinistra accelerazionista accoglie invece la sfida dei fenomeni complessi. Si proietta nella globalità valorizzando la narrazione, il giornalismo investigativo, il potenziale dei nuovi media.

Chissà? Se prima la nostra simpatia andava ai rallentisti, alle loro titubanze e perplessità, adesso ci hanno forse convinto gli accelerazionisti, questi provocatori che vedono già emergere dalla disseminazione del capitale un cronocomunismo dei media.

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