L'importanza di allargare il Pd, l'idea di esporre la bandiera europea, il giudizio sul governo gialloverde. Dialogo a tutto campo con Romano Prodi

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«Serve un nuovo Risorgimento. La bandiera dell’Europa, da affiancare a quella italiana. Nel mondo che non era ancora globale per difenderci bastava la bandiera italiana, ora ne servono due, c’è bisogno dell’Europa».

Romano Prodi tra qualche mese compirà ottant’anni, è nato il 9 agosto 1939, tre settimane prima dell’invasione della Polonia, la seconda guerra mondiale, il compiersi della tragedia più grande della lunga storia del continente. E venti anni fa, il 24 marzo 1999, fu nominato presidente della Commissione europea in un momento drammatico, quella sera cominciò il bombardamento della Nato sulla capitale della Serbia Belgrado.

«Lo sa che non ci avevo pensato? In quegli anni c’era un disegno che teneva insieme tre aspetti: l’introduzione dell’euro, l’allargamento dell’Unione ai paesi che nei decenni della guerra fredda avevano fatto parte dell’Est controllato dai sovietici, la Costituzione europea che fu firmata nel 2004 a Roma, in Campidoglio. Nel 2005 in Francia, nel referendum popolare di approvazione del trattato, la maggioranza votò contro e quel processo si bloccò definitivamente. Era il primo segnale che nelle opinioni pubbliche dei singoli paesi qualcosa si era spezzato, prima della crisi in Grecia, della Brexit, delle vittorie dei sovranisti oggi. Da allora in poi c’è stato il passaggio dei poteri dalla Commissione ai governi nazionali, dove vince il leone, il governo del paese più forte: ha vinto la Germania. Ha ragione Mario Draghi, nel suo bellissimo discorso a Bologna di tre settimane fa il presidente della Bce ha detto che mettersi fuori dall’Ue rende impossibile la sovranità nazionale: l’Unione europea restituisce ai paesi che ne fanno parte proprio quella sovranità nazionale che oggi avrebbero altrimenti perso, nel mondo globalizzato. È un paradosso che i sovranisti farebbero bene a considerare».

Con l’ex presidente del Consiglio nel 1996 e nel 2006 e ex presidente della Commissione Ue parliamo dell’idea che ha lanciato qualche settimana fa. Sventolare dal balcone e dalle finestre di abitazioni e uffici la bandiera dell’Europa il 21 marzo, il primo giorno di primavera. L’iniziativa è partita in sordina, adagio adagio com’è nello stile del Professore, ma poi è decollata, ha raccolto il consenso di associazioni laiche e cattoliche, di numerosi sindaci del centro-sinistra, da Beppe Sala a Leoluca Orlando, ma anche del centro-destra. La riconquista di uno spazio simbolico, lasciato sguarnito, abbandonato rispetto agli apparati dell’immaginario dei sovranisti, con il loro carico di date storiche, stendardi, rosari di riparazione, santi nazionali e oscuri richiami al passato.

«È solo l’inizio», spiega Prodi, «il processo continuerà fino alle elezioni europee di maggio. Sentivo il bisogno di un momento che scaldasse i cuori e che non fosse di parte, perché l’Europa è di tutti gli italiani. C’è stato un momento, non lontano, in cui la moneta era diventata una bandiera. Quando fu introdotto l’euro, nel 2002, ricordo l’entusiasmo, io ero a Vienna con mia moglie Flavia e con le prime banconote le comprai un mazzo di rose. Ma non mi nascondevo che senza una politica fiscale, una politica estera e una politica di difesa comune la moneta unica sarebbe stata un successo di corto respiro. Lo ripetevo a Helmut Kohl e lui mi rispondeva: come si dice da voi, “Roma non è stata fatta in un solo giorno”. Dopo il no alla Costituzione nel referendum francese, è tornata la divisione. In politica estera gli europei si sono divisi in Libano, in Siria, in Libia. Nella sfida per l’innovazione tecnologica la corsa è tra americani e cinesi. Alzare la bandiera con le stelle significa dire: ci siamo anche noi. Adesso l’Europa non c’è, però potrebbe esserci con le sue caratteristiche, non come potenza mondiale, ma con un ruolo di equilibrio. L’Europa è questo: un punto di sintesi, di equilibrio. Il welfare, la più grande invenzione del secolo scorso, c’è solo in Europa, non c’è negli Stati Uniti e neanche in Cina. L’Europa sono i valori che vivono nella vita quotidiana della gente».

Eppure, faccio notare al Professore, è proprio su questo terreno che l’Europa si è allontanata dal sentire dei suoi popoli: il patto tra cittadini e istituzioni che su scala nazionale aveva garantito per decenni pace, sicurezza, Stato sociale, benessere, non si è ripetuto su scala europea e in molti si sono sentiti delusi. «È vero, è qui che c’è stata la sconfitta. I gruppi dirigenti politici, economici, intellettuali hanno pensato che l’Europa fosse stata conquistata una volta per tutte. Invece non era così. E questa errata convinzione ha messo a rischio la democrazia liberale in alcuni paesi. Oggi la democrazia è di fatto esclusa in Polonia e in Ungheria ed è fortemente minacciata in Italia».

Sta dicendo che in Italia c’è un rischio democratico? «Non mi riferisco a una deriva autoritaria. Parlo di una diminuzione forte di ruolo dei pilastri della democrazia liberale, il Parlamento e il governo che si riuniscono e discutono solo in modo sporadico. La mia è un’analisi oggettiva: c’è un indebolimento dei principi liberali e democratici, l’Italia si va orientando verso modelli diversi, in linea con quanto avviene in altre parti del mondo, nelle Filippine, in Brasile, in Turchia, in Russia e negli Stati Uniti. Ovunque è forte il desiderio di autorità. Anche per questo spero che alla guida della futura Commissione non sia chiamato un politico di secondo piano, ma un leader vero che conosce il mondo: Angela Merkel, ad esempio. Potrebbe essere lei la nostra Thomas Becket: da uomo di potere alla corte del sovrano a vescovo convertito. Era considerata la custode degli interessi nazionali della Germania e la nemica dell’Europa, oggi ne può incarnare lo spirito».

Difficile arrivare a un risultato di questo tipo, se i numeri continueranno a scendere per i partiti tradizionali europei, i popolari del Ppe, i socialisti del Pse. «Speravo che per la presidenza della Commissione ci fossero candidati comuni del centrosinistra e del centrodestra. Nel Parlamento per fare una maggioranza bisognerà allargare: dal Ppe e dal Pse ai liberali e ai verdi».

Nei popolari c’è un grande dibattito: provare ad allargare ai sovranisti, ad esempio la Lega di Matteo Salvini, oppure chiudere e andare allo scontro. «Kohl non amava Silvio Berlusconi, ma accolse Forza Italia nel Ppe. “Voglio battere i socialisti, a Berlusconi ci penso io”, mi spiegò. Forse le cose potrebbero finire così anche questa volta, ma gli eccessi di Orbán, che aderisce al Ppe, hanno creato allarme».

A proposito: Prodi chiederà al suo rivale giurato degli anni Novanta-Duemila, Silvio Berlusconi, di sventolare la bandiera europea? «Io lo chiedo a tutti gli europeisti, di centro sinistra e di centro destra. La bandiera è per tutti. Il presidente del Parlamento Antonio Tajani la esporrà, penso che anche Berlusconi lo farà. Su questa partita si gioca il nostro futuro dei prossimi secoli, non il piccolo futuro dei partiti italiani nel prossimo scontro elettorale».

Tuttavia, le elezioni sono alle porte. Il Pd ha appena eletto il suo nuovo segretario, Nicola Zingaretti, sulla costruzione della lista per il Parlamento europeo c’è il primo banco di prova, gli incontri con +Europa di Emma Bonino non sono andati bene, Carlo Calenda scalpita, il padre fondatore dell’Ulivo e del Pd come la vede? «La manifestazione di Milano e le primarie della domenica successiva hanno dimostrato che l’unica alternativa a questa maggioranza di governo è il Pd», risponde il Professore. «Ora deve finire il folle mito dell’autosufficienza e deve cominciare un’altra stagione. O c’è un Pd allargato, più pluralistico, aperto nelle liste a figure europeiste non di partito, oppure può esserci la nascita di un nuovo movimento o di una lista che affianchi il Pd, potrebbe essere un’iniziativa utile per allargare il perimetro di consensi potenziali. L’importante è che cambi l’ispirazione, mi sembra che stia avvenendo».

E nell’altra metà del campo cosa vede Prodi? L’Italia è il laboratorio dei nuovi populisti, come dichiarano gli ideologi del governo di Vladimir Putin, spettatore influente e interessato? «Per fare un laboratorio bisogna lavorare insieme», replica l’ex presidente del Consiglio. «Nel laboratorio si collabora, in questo governo invece ci si divide. L’Italia è un ventre molle, non un laboratorio. Serve a indebolire l’Europa, c’è chi ha interesse per questa debolezza. Il pericolo non è l’uscita dall’Europa o dall’euro, come si diceva fino a quando la catastrofe della Brexit ha dimostrato a tutti che non era un passaggio così facile, ma il restare dentro con comportamenti che puntano a minare le fondamenta dell’Unione».

Chi ha più filo, tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio? «Salvini sta cercando alleanze, non è facile perché neppure con i polacchi e gli ungheresi può andare d’accordo, ma ha l’idea di avere un ruolo nella nuova Europa, anche se io lo considero un ruolo negativo. I Cinque stelle, invece, non hanno alleati e non hanno più idee, hanno cercato l’accordo con la parte violenta di un partito inesistente, i gilet gialli».

In questa Europa di ragazzi e ragazze che viaggiano, si scambiano informazioni, trovano lavoro, la grande assente è la politica, un ideale pari a quello della prima generazione di europeisti, i De Gasperi, gli Adenauer, gli Schuman e gli Spinelli, e alla seconda di Ciampi, Prodi, Andreatta, Delors. «Quelle furono generazioni motivate dalla creatività, dal sogno. Le sembrerà strano, ma oggi i nemici dell’Europa sono i principali alleati di chi vuole una nuova generazione di impegno. L’Europa che è stata distrutta dalla paura dell’immigrazione può essere ricostruita a partire dalla paura che tutto venga cancellato. Una paura che dia origine a una nuova speranza». Dove metterà la bandiera il 21 marzo il Professor Prodi? «La mia è già pronta nella mia casa di Bologna. Spero che saranno in tanti a esporla con me. L’inizio di un grande cammino»