Picchiati, seviziati, umiliati dai carcerieri-trafficanti. In Italia hanno trovato la salvezza. Ora però con la chiusura degli Sprar la loro odissea ricomincia. I racconti dei migranti sopravvissuti all’inferno nordafricano (Foto di Alessandro Serranò)

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Omar e le sue gambe segnate, Lanciné con l’orecchio da cui non potrà più sentire, Ali con il braccio sfregiato, Daouda che ha dovuto scegliere se vivere o camminare. Storie diverse, persone diverse, ma tutte con addosso il marchio degli accordi Italia-Libia. Un Paese in cui non andare e da cui scappare secondo la Farnesina, un porto sicuro per il Viminale di Matteo Salvini.

Divisa fra due governi e innumerevoli milizie, per il ministro dell’Interno la Libia continua ad essere il partner più affidabile nel Mediterraneo. Da difendere nei consessi internazionali. Da inondare di denaro. Da supportare con aiuti e mezzi. Con buona pace dei report ufficiali e ufficiosi che documentano le regolari, endemiche torture, il Viminale si limita ad asserire: «L’Italia è impegnata per assicurare da parte della Libia il pieno rispetto dei diritti umani».

Ma fra la propaganda e la realtà ci sono i segni che i sopravvissuti portano sul corpo. Ci sono le storie di quelle cicatrici, che disegnano un atlante dell’orrore che quotidianamente si ripete nei centri di detenzione ufficiali o nei garage, hangar, capannoni che milizie e trafficanti trasformano in prigioni, in cui si stoccano uomini come merci.

«Lì un africano è solo un bancomat, la sua vita ha senso fin quando può essere fonte di denaro, poi non serve più», dice Karim, 19 anni, «anzi - specifica - 20 fra tre mesi». Li compirà a Gioiosa Jonica in uno degli Sprar che Salvini con il suo “decreto sicurezza” ha deciso di chiudere, ma dove «fino all’ultimo», promette un’educatrice, «proveremo a dare un futuro a questi ragazzi».
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Da fornaio o falegname, sogna Karim, che con lo stesso proposito a 17 anni ancora da compiere è partito dal Senegal, diretto in Libia. «Non sognavo l’Italia», racconta, «volevo solo trovare un lavoro per aiutare la mia famiglia». E ci era riuscito, per quindici giorni ha fatto il muratore in un cantiere vicino a Khoms. «La paga non era granché, ma per iniziare poteva bastare». Poi una mattina all’alba è stato rapito. «È arrivato un camion con degli uomini a bordo, non erano in divisa, ma erano armati. Ci sono saltati addosso, ci hanno picchiati, legati e buttati sul pianale. Devo essere svenuto, non ricordo. Mi sono svegliato in uno stanzone pieno di gente. C’era un odore terribile».

Insieme a più di 50 persone ci ha vissuto per sette mesi. Fra le stesse quattro mura «si dormiva, si andava in bagno, si mangiava le poche volte che ci davano qualcosa. Spesso entrava qualcuno, sceglieva uno di noi, lo ammazzava e lo lasciava lì. “Per farci imparare” dicevano». Le torture invece erano quotidiane. «Ci pestavano con qualsiasi cosa. Bastoni, calci dei fucili, cavi elettrici. Mentre lo facevano ci costringevano a chiamare casa per chiedere soldi per il riscatto. Se rispondeva qualcuno, picchiavano ancora più forte. Io speravo che mia madre non alzasse mai quella cornetta».

Anche Mutali, 22 anni del Burkina Faso, quando è stato rapito era un ragazzino. «Avevo 16 anni, mi sembra una vita fa». Dopo aver lavorato in una piantagione di datteri, si è messo in viaggio verso Tripoli, ma non ci è mai arrivato. Un commando lo ha preso e lo ha portato a Bani Walid. «Era notte, non sapevo dove fossi. Ci hanno tenuto per tre giorni senza acqua e senza cibo, poi», ricorda, «si sono presentati in tre. Chi aveva qualcuno da contattare per il pagamento del riscatto è stato trasferito, noi siamo rimasti all’inferno. Ci pestavano con qualsiasi cosa, per qualsiasi motivo. Abdallah e Yussef», mormora, «erano i più feroci. Per fare più male usavano sbarre di ferro incandescenti, ci strappavano le unghie con le pinze oppure ci incaprettavano, ci pisciavano in faccia e poi ci esponevano al sole. Non lo sapevo, ma brucia, brucia tantissimo».

Per Omar, ragazzino guineano di 19 anni, la cosa peggiore erano invece “le gare”. «Sceglievano una ventina di noi, ci legavano mani e piedi e ci portavano in cortile. Era di terra battuta, noi eravamo scalzi e scottava da morire. Dovevamo saltare ed essere veloci. Il “canguro” più lento non tornava indietro». Ha vissuto così per un anno e 7 mesi. «E ogni giorno», racconta, «mi svegliavo certo che quello sarebbe stato l’ultimo. Che non sarei mai uscito vivo di lì. Non sentivo più niente. Né paura, né speranza».
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Se è partito per l’Italia, lo deve solo ad un amico che lo ha trascinato su un gommone. «A metà della traversata ha iniziato a imbarcare acqua. Vedevo la gente terrorizzata e non sentivo niente. Siamo stati salvati da una nave militare. Sul ponte ci hanno dato da mangiare dei biscotti. Non ne ricordavo neanche il sapore, per più di un anno a Bani Walid ci hanno dato solo pane secco. Quando l’ho assaggiato, ho capito di essere vivo, vivo per davvero e che la Libia era lontana».

Lanciné invece forse da lì non è mai riuscito ad andare via. Diciannove anni che sembrano molti di meno, occhi come pozze, parla ancora con difficoltà di quello che ha vissuto. Anche di fronte alla commissione territoriale chiamata a decidere se il carico di sevizie e persecuzioni subite è sufficiente per ottenere protezione o asilo, forse qualcosa ha omesso. «È arrivato qui da noi con un altro ragazzino, guineano come lui. Stessa età, stesse prigioni, stesso sbarco. L’altro ha raccontato subito di essere stato abusato per mesi, lui no».

L’argomento è tabù. L’intero periodo della prigionia è tabù. Ci prova a parlarne, si sforza. Incoraggiato dalla mediatrice che non smette di vezzeggiarlo - «Habibi dai, serve anche a te» - prende fiato, gira la testa un po’ di lato per ascoltare le domande con l’orecchio che le botte hanno risparmiato e comincia. «Eravamo stipati in uno stanzone, eravamo così tanti da non poter dormire sdraiati. Poi arrivavano i carcerieri a svegliarci», mormora, «a secchiate d’acqua o a schiaffi».

Fa una pausa, lunga. «Avevamo il divieto assoluto di proteggerci il viso, altrimenti picchiavano di più e più forte», dice mentre unisce le braccia e serra i pugni, rigide e lontane dal viso come era obbligato a fare quando lo pestavano senza che potesse difendersi. «Faceva male, faceva sempre tanto male» aggiunge, poi scuote la testa, chiede scusa e va via, schiacciato da una storia che vuole solo dimenticare.
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Ester invece ride, ride sempre. Si guarda la pancia che cresce, la misura, la tocca. Si volta verso il marito Jeffrey e ride ancora. Destiny, il loro primo figlio, zampetta per casa. Presto, ne arriveranno altri due, gemelli. «Perché sono viva e sono miei» dice seria. Poi ride ancora. Insieme al marito è scappata dalla Nigeria dove Boko Haram ha distrutto la loro fattoria. «Avevo e ho ancora schegge di proiettili nel cranio. Quelle che si potevano rimuovere», racconta Jeffrey, «me le hanno tolte qui in Italia quando sono sbarcato».

Con Ester in Libia cercavano cure, hanno trovato prigioni. «La polizia ci ha catturato sulla strada fra Sebha e Tripoli, poi ci ha venduto ai miliziani. Eravamo feriti ma ci hanno massacrati di botte lo stesso e ci hanno portati in una prigione. Una specie di garage». Lì, ricorda, sono stati divisi. «Non sapevo nulla di Ester ed ero terrorizzato. Un mercante voleva comprarmi come “abid”, schiavo, ma l’ho supplicato di lasciarmi lì, non potevo andarmene senza mia moglie. Mi ha dato del pazzo, ma mi ha assecondato».

È passato quasi un mese prima che Jeffrey avesse sue notizie. «Una guardia me l’ha anche fatta vedere per un momento. Per lei, mi ha raccontato, era già stato fissato il prezzo, 500 dinari, poi un carceriere l’ha scelta per sé. E io ho ringraziato Dio. Perché sarebbe stato solo uno e non cento o mille ad “usarla”. Perché avevo ancora speranza di rivederla».

Speranza, Daouda non sembra averne più. «Da quando sono in Italia mi sembra di non esistere, per la gente noi siamo zero. E io», dice con quieta rassegnazione», uno zero senza una gamba». Da poco è entrato nella squadra locale di basket in carrozzina, in Senegal giocava a calcio. «Non da professionista, ma non ero male. Volevo trovare un lavoro per far stare meglio la mia famiglia e sono partito, ma appena arrivato in Libia mi hanno imprigionato».

È passato di mano in mano, di carceriere in carceriere, fino ad arrivare a Tripoli. «Eravamo in tanti, tutti chiusi in uno stanzone. Ogni giorno arrivava gente a comprarci e ogni giorno speravo che qualcuno mi scegliesse come schiavo. Nel frattempo ci picchiavano, senza alcun motivo e con ogni mezzo. Bastoni, catene, cavi, il calcio del fucile. E un pomeriggio, uno dei carcerieri mi ha sparato ad una gamba». Non ci sono medici nelle carceri libiche, non esistono cure. «Non devi mostrare neanche di stare male, altrimenti ti ammazzano. I miei compagni hanno fermato l’emorragia, ma lì era tutto lurido e la ferita si è infettata».

Forse qualcuno ha pagato, Daouda è riuscito ad uscire e salire sul gommone, ma non ricorda nulla della traversata. «Appena sbarcato mi hanno portato in ospedale. Io non mi ero neanche reso conto di essere in Italia. Me lo hanno detto circa una settimana dopo, quando ho riacquistato lucidità. Per la gamba, mi hanno spiegato, non c’era nulla da fare, la cancrena era troppo avanzata».

Anche ad Alì hanno sparato. Cinquant’anni, le mani di chi nella vita ha sempre lavorato e in volto le rughe di chi ha visto tanto, è un gigante, con spalle enormi e braccia come tronchi. Sul bicipite del sinistro c’è la cicatrice lasciata da quel proiettile. «È il prezzo di un no». Era in Libia da 17 anni quando la caduta di Muhammar Gheddafi ha travolto la vita che si era costruito.
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È stato rapito, imprigionato, torturato, messo all’asta e poi venduto. «Il mercante cercava qualcuno che sapesse governare una barca e io nasco pescatore». Ma non immaginava che avrebbe dovuto trasportare uomini. «Mi sono rifiutato, mi hanno spaccato i denti con il calcio del fucile e poi mi hanno sparato. Una decina di giorni dopo, quando la ferita si è rimarginata, me lo hanno chiesto di nuovo e quella volta», ricorda, «la pistola era puntata alla testa». Non ha potuto far altro che dire sì. E in Italia è stato arrestato come scafista. «Non capivo niente di quello che succedeva, non so neanche il nome dell’avvocato che mi ha assistito. So solo che sono finito in carcere, al Nord».

Quando è uscito, per lui è iniziato il periplo dei braccianti che si spostano secondo i diktat della stagione. Alla fine si era stabilito nel ghetto di San Ferdinando, nella Piana di Gioia Tauro perché «fra kiwi, agrumi e cipolle, si lavora tutto l’anno». Tramite i comitati stava cercando di mettere ordine nel caos legale in cui è finito e aveva iniziato a studiare l’italiano in una scuola gestita da volontari. «Per essere in grado di spiegare quello che mi è successo». Poi lo sgombero del ghetto ha travolto nuovamente la sua vita. E la deve reinventare. Forse in un casolare nelle campagne circostanti, forse in una grande città del Nord. Per lui, il viaggio non è ancora terminato.