Troppa economia, poca politica, niente cultura  E una silenziosa diffidenza verso i Paesi dell’Est

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Difficile comprendere appieno la crisi del progetto europeo se non se ne colgono le prime radici, di gran lunga precedenti alla crisi internazionale del 2008 e all’ingigantirsi dei flussi migratori. I suoi prodromi iniziano a manifestarsi già in anni apparentemente “trionfali”: dal 1989 del crollo del Muro al 1992 del Trattato di Maastricht, dal 1998 dell’euro al 2004, con l’allargamento dell’Unione a dieci nuovi paesi. Esce appunto nel 2004 “Il sogno europeo” di Jeremy Rifkin: esso «sta lentamente eclissando il sogno americano», scriveva Rifkin, e invece i germi della crisi potevano esser colti da tempo.

Già nel 1990 ad esempio Bronislaw Geremek, uno dei leader più lucidi di Solidarnosc, vedeva profilarsi nei paesi post-comunisti i rischi del nazionalismo e del populismo, assieme alla tentazione di governi forti, proprio per la fragilità delle loro tradizioni democratiche. E sottolineava la necessità di una attenta gradualità nella transizione. In quello stesso 1990 Vaclav Havel osservava che le strutture europee esistenti erano in realtà europeo-occidentali, nate nella divisione precedente, ed era necessario ripensarle per dare corpo a una vera unificazione. Ben poco è stato fatto in questa direzione, e si aggiunga che lo smantellamento del sistema comunista avvenne spesso identificando arbitrariamente democrazia liberale e liberismo economico, come hanno sottolineato in varie forme Jacques Rupkin, Ivan Krastev, Bernard Guetta e altri ancora. Oltretutto mentre soffiava forte il vento del neoliberismo, non di rado con effetti devastanti. E vi furono poi altri limiti ed errori in quella transizione, soprattutto dove il dissenso e l’opposizione ai regimi comunisti erano stati deboli, se non assenti, e i problemi dunque si ingigantivano. Senza por mente a tutto questo non comprenderemmo appieno la parabola paradossale del “gruppo di Visegrad”, nato nel 1991 proprio per favorire il “ritorno in Europa” di quei paesi, per dirla ancora con Havel.

Le questioni sullo sfondo non riguardano però solo l’“Europa ritrovata” a est della Cortina di ferro, e si consideri l’avvio della zona dell’euro. All’indomani di esso Carlo Azeglio Ciampi annotava che era stato essenziale per l’Italia far parte dei “paesi fondatori”, ma era necessario ora un rinnovamento complessivo capace di investire non solo l’economia ma anche la cultura, i costumi, gli stili di vita. Ed Ezio Mauro osservava: è stato quasi inevitabile avviare l’unificazione «attraverso l’unico comun denominatore oggi possibile, quello della moneta» ma è urgente «dare un contesto istituzionale, culturale e politico a questa moneta. Perché rappresenti l’Europa e non soltanto un gruppo di Paesi comandati da una banca». Questo è mancato e altri rischi poi si aggiunsero, spesso connessi a una visione dell’allargamento come un bene in sé. A questo rinvia anche il tracollo della Grecia, che ha avuto origini e cause molto lontane: da un ingresso in Europa nel 1981 privo di verifiche reali (e con l’uso distorto dei fondi comunitari che ne seguì) sino a un’inclusione sostanzialmente precoce nell’eurozona.

Ci si illuse sulla “pedagogia dell’euro”, ha osservato Lucio Caracciolo: «La nuova moneta avrebbe trasformato lo spirito di un popolo, le cicale sarebbero diventate formiche. Non è accaduto». Si aggiungano i processi connessi alla globalizzazione, con i prezzi pagati dalle fasce più deboli dei paesi sviluppati e con il crescere al loro interno delle divaricazioni sociali. Diventa più comprensibile allora il progressivo avanzare di partiti populisti e antieuropei nelle aree periferiche del vecchio continente, spesso impoverite dalle smobilitazioni industriali: qui l’Unione europea ha iniziato ad esser vista sempre più come veicolo di una globalizzazione sregolata che minaccia di travolgere le protezioni sociali garantite dallo Stato. Irrompe in questo scenario la crisi finanziaria del 2008: con le profonde insicurezze che alimenta, con gli sconvolgimenti nei vissuti, nei rapporti sociali, negli immaginari.

E sull’“amarezza dell’Occidente”, ha osservato Edward Luce, le aspettative deluse pesano ancor più del declino reale. Le conseguenze sono ancor più marcate a est: si incrina allora il mito di un Occidente “naturalmente” florido e sembra emergere un’Europa sempre più “matrigna”, se non tiranna, in uno scenario profondamente mutato. Rivolgendosi idealmente al suo maestro, Ralf Dahrendorf, Jan Zielonka ha scritto: tu sei cresciuto nella Germania nazista ma hai assistito poi «allo sviluppo del welfare, all’azione di parlamenti capaci di regolare il mercato e all’epoca d’oro della stampa come luogo privilegiato del discorso democratico. La mia vita da adulto si svolge in paesi che smantellano i sistemi di welfare, con parlamenti che de-regolano i mercati e con Internet che è diventato il luogo essenziale della comunicazione». In questo mondo, conclude Zielonka, è inevitabile pensare che l’Europa e il suo progetto liberale debbano essere reinventati e ricreati: cercando di capire perché la crisi finanziaria internazionale si è trasformata in una crisi della democrazia europea. Si aggiungano poi altri segnali rimossi, nell’euforia dell’allargamento del 2004 (e mentre si prevedeva la sua rapida estensione a Turchia e Croazia): già la bocciatura della Costituzione europea nei referendum francesi e olandesi del 2005 segnava una battuta d’arresto decisiva, l’inizio di un’abdicazione. E la crisi del 2008 avrebbe mostrato tutta la fragilità di un progetto di unificazione basato largamente su processi economici, nell’illusione che favorissero di per sé l’unificazione politica.

Si aggiunga infine un grande nodo, colto da Peter Schneider poco dopo l’ingresso in Europa dei paesi ex comunisti: vi è a Ovest, si chiedeva, la volontà culturale e politica di «realizzare realmente la riunificazione»? Non sembra davvero, aggiungeva: «Non viviamo affatto un clima comparabile al grande, vitale e fecondo scambio di idee che nel dopoguerra democratico della Europa occidentale animò e unì intellettuali tedeschi e francesi, inglesi e italiani». Rischia di rimanere in piedi così una “Cortina di ferro mentale”, concludeva. Ed è difficile negare che l’Europa occidentale abbia vissuto a lungo «con le spalle rivolte al muro di Berlino», per dirla con György Konrad. È cresciuta in modo realmente adeguato in questi anni la “qualità”, l’intensità della conoscenza reciproca? A me non sembra. È necessario inoltre misurarsi ancora con le lacerazioni del passato europeo e far avanzare confronti di memoria capaci di avviarne il superamento. Capaci di contrastare un’esplosione dei nazionalismi che in Ungheria e altrove ha portato anche alla riscrittura dei manuali di storia: e già il crollo delle “memorie di Stato” dei regimi comunisti aveva fatto riemergere visioni di sé e del passato mai sepolte, e sin dei peggiori fantasmi. Fantasmi che i traumi della globalizzazione sembrano a loro volta alimentare e che vanno combattuti con un impegno costante, non ignorati.

È difficile negarlo, nella crisi dell’Europa non mancano responsabilità del mondo della cultura: non potevano esser sottovalutati questi e altri fossati originati dalla storia, questi e altri terreni su cui tenere aperto un confronto serrato e continuo per andare oltre. Per costruire un tessuto di relazioni culturali, di dialoghi intellettuali e umani capaci di costruire una sempre più solida “rete di protezione” di fronte ai rischi costanti e oggi inaspriti di lacerazione. È un terreno che abbiamo frequentato troppo poco in questi anni ed è necessario riconoscerlo alla vigilia di elezioni che possono imprimere un ulteriore impulso alle derive disgregatrici: qualunque sia il loro esito, su quel terreno si giocherà comunque una partita decisiva. Se si giungesse davvero alla disintegrazione della Unione europea, ha scritto Ivan Krastev, forse non sarà frutto di una vittoria aperta delle forze antieuropeiste ma conseguenza involontaria della sua paralisi. E delle nostre inerzie.