La data fondante di una comunità democratica deve essere uno spazio condiviso e protetto

25aprile-jpg
La festa della Liberazione rischia di svolgere una funzione inopportuna. Una sorta di termometro per misurare il livello di alterazione del confronto politico rispetto alle istituzioni democratiche e al loro corso. Se riavvolgiamo il nastro degli anniversari troviamo atteggiamenti opposti: Presidenti del consiglio che prendono le distanze per poi riconciliarsi con la data in questione, opposizioni che ne difendono il significato o al contrario scelgono di differenziarsi dal portato delle celebrazioni ufficiali. Un pendolo pericoloso che si muove lungo una dialettica di posizioni: favorevoli al segno del 25 aprile come festa per riconoscersi e ritrovarsi, al contrario richiamo per una sola parte quella degli italiani vincitori nella terribile guerra civile del biennio 1943-45.

Gli ultimi giorni hanno rilanciato le ragioni della polemica frontale mentre il confronto storiografico da tempo ha chiarito ambiti e contesti della fine della guerra in Italia, del ruolo delle parti coinvolte, dei richiami a quel nesso decisivo tra la fine del conflitto e la Costituzione della Repubblica. E allora perché insistere nella ricerca di una contrapposizione? Il tempo della politica immediata richiede polarizzazioni e derby dai toni calcistici che non risparmiano neppure la festa della Liberazione, per lungo tempo «la più popolare e diffusa nel cammino della Repubblica» (G. Santomassimo, “25 Aprile. Liberazione dal fascismo”, in Calendario civile, Donzelli, 2017).

Oggi dalle più alte cariche dello Stato si ascoltano parole di sfida. Il Ministro degli Interni non prende parte alle celebrazioni istituzionali, altri dal governo rilanciano la scelta di partecipare come se fosse materia contendibile. Vado o non vado? Scelgo di starne fuori o, al contrario, sostengo l’appuntamento istituzionale come emerso dalle parole del Presidente della Camera. Ma tale dialettica è un segno inequivoco di confusione e incoerenza: ricerca strumentale di un terreno conflittuale dove invece dovrebbe consolidarsi uno spazio condiviso e protetto. Uno spazio condiviso, quello del passato di una comunità nazionale che non vuol dire appiattimento di percorsi, biografie o memorie.

Sappiamo bene quanto conflittuali e irriducibili siano gli atteggiamenti degli italiani di fronte alla caduta del fascismo e al tratto conclusivo della seconda guerra mondiale. Ogni omologazione imposta non aiuta a comprendere, ogni tentativo di costruire fantomatiche memorie condivise ha prodotto più macerie che progetti di futuro. Nel 1987 Vittorio Foa in Parlamento incontrò un vecchio combattente della Repubblica sociale, che salutandolo calorosamente gli disse: «Che piacere, Vittorio essere insieme al Senato, dopo aver combattuto, da giovani, su fronti opposti!». Foa rispose: «Certo, fa piacere; ma se questo accade, è perché abbiamo vinto noi; se aveste vinto voi, se Hitler avesse conquistato l’Europa, io di certo non sarei qui».

Eppure la conoscenza storica può darci una mano contro dimenticanze, celebrazioni rituali o semplificazioni strumentali. In uno scritto per il cinquantesimo del 25 aprile Pietro Scoppola metteva in guardia sui rischi della stanca riproposizione di anniversari senza costrutto. «La storia comune è l’antidoto alla mentalità del “processo al passato” che può imbarbarire il quadro culturale e politico della convivenza» (“25 aprile. Liberazione”, Einaudi, 1995). Forse l’imbarbarimento è andato troppo avanti rispetto alle considerazioni di uno storico che lucidamente aggiungeva: «Nel processo chi giudica è fuori dell’evento; nella storia tutti sono partecipi e in diversa misura corresponsabili. La storia comune non è altro che la coscienza di una corresponsabilità». Ecco dove stridono le parole irrispettose e irriverenti dei nuovi potenti in cerca di voti strizzando l’occhio a nostalgici o a gruppi di estrema destra. Il 25 aprile come se si trattasse di una gita fuori porta o della presenza alla proiezione di un film. Partecipo, lo faccio notare o scelgo un’altra destinazione? Ma chi rappresenta il paese è dentro quella corresponsabilità, nel vivo di una storia che ha segnato e condizionato generazioni d’italiani.

Le fratture non devono spaventare, sono ben più pericolose le rimozioni. Ne scriveva un protagonista come Ferruccio Parri: «E arriva il 25 aprile. Fanfare, smobilitazione. Se ho creduto di non tacere, se non di mettere in rilievo tutte le ragioni di attrito tra le forze così eterogenee che hanno dato vita a questa insurrezione, credo tuttavia che mancherei a un dovere maggiore se non dicessi, soprattutto ai giovani, che le ragioni e le forze centrifughe non tolgono affatto valore a una interpretazione unitaria superiore» (F. Parri, “Come farla finita con il fascismo”, Laterza, 2019). Celebrare per conoscere, per approfondire e chiarire ciò che rimane e ciò che invece si è perduto attraverso l’inesorabile scorrere del tempo. Due opposte chiavi di lettura hanno monopolizzato la scena del confronto sulla liberazione dal nazifascismo: una autonoma e autosufficiente che pone al centro la Resistenza e i suoi successi militari come prova della partecipazione italiana alla fase decisiva della guerra, l’altra segnata dall’immagine di un paese in balia di eserciti stranieri liberatosi grazie alla controffensiva lanciata dagli alleati verso il cuore della Germania nazista. Piani forzatamente separati, spesso contrapposti: le basi del mito della Resistenza o la sua demolizione sistematica; esaltazione da un lato, irrilevanza dall’altro. I due piani non sono separabili, non è credibile isolare la Resistenza dal contesto della guerra, né pensabile costruire una scala di meriti e priorità tra il contributo degli italiani nella guerra di liberazione e gli esiti della campagna d’Italia, le dinamiche di presenza delle armate straniere sul territorio della penisola.

Il 25 aprile - giorno dell’insurrezione generale proclamata dal Comitato di liberazione nazionale dell’Alta Italia nelle grandi città del Nord - viene dichiarato festa nazionale dal primo governo De Gasperi (1946), preferito alla data della resa incondizionata della Germania (8 maggio). Il decreto istitutivo contiene un’ambiguità di fondo: la carenza di indicazioni sulle modalità di svolgimento della commemorazione, demandata dalle istituzioni alle autorità locali e ai rappresentanti del movimento partigiano. L’assenza di un cerimoniale definito, la rottura della concordia postbellica e le ricadute della guerra fredda, avrebbero contribuito a fare del 25 aprile un’occasione di scontro tanto sul senso da attribuire al passato quanto sulla gestione del presente comune, legando a doppio filo i destini della festa e quelli della Repubblica.

Il significato pieno di quel tornante richiama una sfida che si gioca anche fuori dai confini nazionali, oltre i campi di battaglia e i bombardamenti aerei del biennio 1943-1945. La Resistenza italiana copre un arco temporale di venti mesi, coinvolge più di 250 mila uomini. Tiene insieme la componente nazionale della sua identità (la libertà dallo straniero oppressore) con una variegata composizione politico-ideologica che va dai liberali ai comunisti e che nasce come volontà di rinascita in un paese che aveva avuto un ruolo decisivo nell’invenzione e nella diffusione del fascismo. Un fenomeno composito che la storiografia più attenta declina al plurale, antifascismi e resistenze, per sottolinearne tanto la dimensione internazionale quanto il pluralismo interno, lo spessore delle resistenze civili nelle forme più o meno consapevoli. Viene così ridimensionata la contrapposizione geografica e numerica di una Resistenza di pochi collocata al nord in un quadro in cui l’attendismo diffuso sarebbe l’elemento prevalente (la «zona grigia»). Le opzioni possibili sono plurali e non riconducibili a impostazioni manichee: la scelta degli italiani affonda le proprie radici nel vissuto di quei mesi, nella difesa dei renitenti alla leva, dei cittadini di religione ebraica, dei disertori e degli oppositori politici, in quella «lotta non armata» per la sopravvivenza che sarà una base preziosa nel cammino del lungo dopoguerra.