
«Mia sorella Aida aveva una laurea, un master in chimica, la curiosità dei giovani dei 25 anni e una vita davanti qui in Europa. Oggi è una vedova di trent’anni con due figli, un niqab nero che copre la bellezza dei suoi lineamenti, un marito morto combattendo nelle truppe dell’Isis e vive nel campo di al-Hol, nordest della Siria, con altre settantamila persone».
Maja Muracevic è una donna di quarant’anni, si muove con fare elegante, indossa abiti raffinati. Siede di fronte a un caffè al primo piano di un bar di Zenica, settanta chilomentri a nord di Sarajevo, Bosnia Erzegovina.
Stringe il telefono tra le mani, è il solo modo che ha per parlare con Aida. Zenica è una città industriale di centomila persone. A dominare la vista è l’imponente acciaieria, costruita sulle fondamenta di un impianto del periodo austoungarico, la cui produzione esplose sotto Tito che fece arrivare operai da ogni luogo della Jugoslavia. A Zenica tutto è fabbrica, persino la squadra locale di calcio, che si chiama Celik: produttore di acciaio. La polvere dell’impianto copre tutto: le giostre dei bambini nei parchi, le strade e i chilometri di edifici tutti uguali, migliaia di appartamenti di architettura sovietica, enormi palazzi di colore grigio ardesia.
Prima della guerra la fabbrica impiegava 22 mila persone, oggi meno di un decimo, in un paese con un tasso di disoccupazione al 36 per cento.
Nel 1994, nel pieno della guerra bosniaca, a Zenica - come in altre città tra cui Mostar, Sarajevo, Gornja Maoca e Zepce - arrivò dal Medio Oriente un flusso di mujaheddin per combattere a fianco dei musulmani bosniaci contro i nazionalisti serbi e croati. La Brigata Mujaheddin venne inglobata nel 3° corpo dell’esercito bosniaco e molti dei suoi combattenti (si stima tra 2 e 5 mila) una volta finita la guerra restarono in Bosnia, dando vita a comunità di estremisti salafiti che negli anni sono diventati reclutatori di centinaia di giovani e usato il paese balcanico come base di una rete internazionale di supporto al jihad e per triangolare soldi e merci verso la Siria e l’Iraq.

«La mobilitazione jihadista nei Balcani è composta da reclute locali. Non sono cioè migranti e non provengono da minoranze culturali o religiose emarginate e in cerca di riscatto, come in altri paesi europei», dice Adrian Shtuni, esperto di politica estera e sicurezza con un focus sui Balcani. «Non c’è correlazione tra reddito, livello di istruzione e radicalizzazione: anzi, la maggior parte dei combattenti aveva un buon livello educativo e non era disoccupata», spiega.
Secondo Shtuni l’eredità delle guerre balcaniche è chiara e non è una coincidenza che i tre paesi dei Balcani occidentali che hanno contribuito con il maggior numero di combattenti siano Kosovo, Bosnia e Macedonia settentrionale che hanno vissuto l’esperienza di un esercito secessionista interetnico.
Col tempo, i religiosi locali hanno sfruttato le tensioni etniche esacerbate dalla guerra manipolandole come espressioni di una tendenza globale dell’oppressione contro i musulmani: «L’Islam politico è divenuto centrale nell’identità di alcuni circoli bosniaci e i predicatori carismatici hanno cominciato all’inizio degli anni Duemila e galvanizzare centinaia di giovani invitandoli a partire».
Maja e sua sorella sono cresciute a Zenica, qui hanno vissuto e sofferto la guerra. Sono state più fortunate di altri, hanno studiato, la famiglia ha garantito loro la possibilità di un’istruzione universitaria, un lavoro ben pagato.«La religione non è mai stata centrale nelle nostre vite», dice Maja scorrendo le fotografie di Aida. Dice di non riuscire a convivere con il senso di colpa, con il rimpianto di non aver visto, non aver capito cosa stesse accadendo a sua sorella: «Siamo una famiglia benestante, Aida ha avuto tutto ciò di cui avesse il bisogno. Era una donna emancipata. Poi un giorno ha fatto le valigie ed è andata via. Ci ha telefonato giorni dopo dalla Siria. Ha detto di essere a Raqqa, di aver raggiunto un uomo. Di non cercarla perché non avrebbe cambiato idea. Voleva essere felice, diceva che lo sarebbe stata solo lì. Ho provato a discutere con lei nei primi mesi della sua fuga. Aida diceva che non c’era applicazione dell’Islam se non nello Stato Islamico. Che fosse giusto combattere i “takfir”, i miscredenti. Ho smesso di cercarla».
Maja non ha parlato con sua sorella per cinque anni, un po’ per la vergogna, un po’ per lo smarrimento, un po’ perché non si perdonava di non essere stata in grado di fermarla in tempo. Due mesi fa ha ricevuto una telefonata dal campo di Al Hol, nord della Siria: «Aiutami a venire via», diceva la voce flebile di Aida, «non ho di che sfamare i miei bambini. Riportaci a casa».

Così ha scoperto che Aida è ancora viva, che è madre, che suo marito l’ha costretta dentro Baghuz, ultima enclave dell’Isis fino alla fine della guerra, che è morto negli ultimi giorni di combattimenti e che Aida ha camminato stringendo i figli tra le braccia finchè non è stata presa dalle forze curde e spostata nel campo profughi di al Hol.
«Dobbiamo dare loro una seconda possibilità», dice Maja, «e garantire un futuro decente ai bambini. Sono figli della Bosnia, e il nostro governo così come gli altri governi europei devono aiutarci a riportarli indietro. I bambini non hanno fatto niente, non possono pagare le colpe dei padri. E nemmeno, se ci sono, quelle delle madri».
Maja fa parte di un gruppo di persone che coraggiosamente si sta battendo con le istituzioni bosniache per riportare in patria 15 donne e 35 bambini sopravvissuti alla guerra e detenuti nel nord della Siria. Donne e bambini che vivono in un limbo, mentre le istituzioni dei loro paesi di origine si interrogano su cosa fare dei combattenti stranieri di ritorno e delle loro famiglie che potrebbero essere ancora radicalizzate.
Dalla Bosnia - in cui metà della popolazione è musulmana – sono partite per unirsi all’Isis in Siria e Iraq circa trecento persone, rendendo il paese uno dei maggiori “esportatori” pro capite di combattenti jihadisti. Secondo i dati dell’Agenzia investigativa e di protezione della Bosnia, la Sipa, sarebbero andati con i genitori in Siria anche ottanta bambini, tra cui la nipote oggi tredicenne di Alema Dolamic, partita alla volta di Raqqa con sua madre e il nuovo marito - reclutato da una cellula salafita austriaca - quando ne aveva solo otto.
«Se non alziamo la voce, il nostro governo non farà nulla per riportarli indietro», dice Alema, sulla porta della sua modesta casa a Lepenica, un piccolo villaggio nelle campagne del nord della Bosnia.
Alema è magrissima, capelli scuri, zigomi alti. Si muove nervosamente, a scatti. Mangia poco, con la fretta di chi deve sbrigare una formalità nel flusso di cose più serie di cui deve prendersi cura, e quella più seria di tutte è riportare a casa sua sorella Alina, partita nel 2014 quindici giorni dopo aver sposato un uomo conosciuto in internet, Nermin Jahic, nome di guerra Abu Zekeri.
«Un giorno mi ha mandato una fotografia da una stazione degli autobus, in Austria. Ha scritto: “Verrò a trovarti”. Dopo due giorni invece era in Siria».
Alema non ha mai smesso di parlare con sua sorella in questi anni. Racconta una moglie «vittima dell’influenza del marito», che ha imposto alla donna, a sua figlia e ai due più piccoli nati in Siria, una vita in nome di una interpretazione corrotta dell’Islam.
«All’inizio non si lamentava, sostenendo che vivessero agiatamente e secondo il volere di Allah, e che suo marito stesse combattendo gli infedeli. Ma dopo la sua morte in battaglia, nel 2017, ha cominciato a raccontare dettagli che aveva taciuto e per la prima volta a dire che voleva tornare». Dopo la morte di suo marito Alina, con altre donne e bambini, è stata spostata di città in città, e rinchiusa in case speciali per vedove e orfani di miliziani morti in battaglia. Intorno a loro guerra e morte.

Alema prende il telefono, cerca un messaggio audio di quei giorni.
Rumore di spari in lontananza. Poi la voce debole di una donna: «Alema, ci hanno dato delle cinture, ho paura».
Alema sapeva a cosa servissero quegli oggetti, erano cinture esplosive.
Il messaggio continuava: «Ci hanno detto che non dobbiamo arrenderci, ci hanno detto: non fatevi catturare, quando si avvicinano fatevi saltare in aria». Erano gli ordini per tutti e per tutte: una volta sconfitti, il mandato era diventare kamikaze. Poco importava se sarebbero morti tutti, bambini compresi. Era il volere di Allah.
Poi di nuovo silenzio per settimane e improvvisamente una telefonata: l’avevano spostata di nuovo. «Un giorno disse che un uomo le aveva proposto di portarla in Turchia in cambio di soldi. Così ho scoperto una rete di trafficanti che dall’interno dello Stato islamico contrabbandavano persone. Lavoravano su entrambi i lati, in Turchia e per conto dell’Isis. Quell’uomo aveva detto a mia sorella e ad altre quattro donne che una volta in Turchia le avrebbe portate di fronte all’ambasciata bosniaca. Ho seguito le indicazioni del trafficante e spedito 1.500 dollari in Turchia. Ma dopo aver ricevuto il denaro il trafficante le ha abbandonate nel deserto siriano. Ho perso i contatti con lei per settimane, poi una mattina mi ha scritto: “Alema non ce l’ho fatta. Ci hanno preso i curdi, sono nel campo di Roj.” È ancora lì, da allora.”
Alema, una donna umile nata e cresciuta in un villaggio agricolo sui monti bosniaci, da allora, inizio del 2018, combatte la sua quotidiana battaglia con i ministeri (dell’informazione, degli affari esteri, della sicurezza) con le ambasciate, con i servizi segreti e l’intelligence, per riavere sua sorella e i suoi nipoti. Non si vergogna, è anzi consapevole delle contraddizioni.
«Penso che la maggior parte di loro siano vittime, ma so anche che ci sono donne che ancora sostengono le ragioni dell’Isis. Rappresentano un problema, ma va risolto nei paesi di origine, non spostato nei campi profughi siriani dove la radicalizzazione può solo aumentare. Mia sorella è una cittadina bosniaca che ha fatto un errore. Ci hanno detto che i bambini nati in Siria devono essere sottoposti a test del Dna, per accertare che siano veramente figli suoi, perché la Bosnia non può riportare indietro bambini che non hanno certificati di nascita. Ho detto: va bene, fatelo. È passato un anno e mezzo e stiamo ancora aspettando. La verità è che non li vogliono indietro. E che preferiscono saperli prigionieri che sobbarcarsi l’onere di portarli a casa e pensare di reinserirli nella società».
La nipote ormai tredicenne di Alema - quella che ha lasciato la Bosnia a otto anni - da allora non è più andata a scuola. Oggi è un’adolescente traumatizzata, che ha ricordi di un’infanzia spensierata e poi di guerra. Gli altri due bambini nati in Siria non sono registrati se non nei documenti dello Stato Islamico, è come se non esistessero. Sono apolidi, privi di diritti.
«Non mi vergogno del mio impegno pubblico, penso che il destino dei nostri cari sia parte dell’orrore che il mondo ha vissuto in questi anni a causa dell’Isis, chiudere gli occhi non risolverà il problema. I bambini e le donne, anche quelle radicalizzate, non meritano di vivere in quelle condizioni: senza cibo, senza acqua. Senza medicine».
Alema osserva le fotografie di sua sorella dal campo, è magrissima. Uno dei bambini sembra denutrito. Alema scuote la testa, il suo volto si fa teso. Sul tavolo di fronte al divano una cartellina con i documenti raccolti, accumulati durante le decine di visite ai ministeri a Sarajevo. «Lo stato bosniaco è colpevole perché ha tollerato il reclutamento, che era sotto gli occhi di tutti. I salafiti hanno gestito per anni para-moschee, centri religiosi illegali. Tutti ne conoscevano l’esistenza, e da lì gli estremisti hanno riempito la testa dei giovani e portato intere famiglie in Siria. Tutti lo sapevano, allora come oggi. Con la differenza che prima agivano pubblicamente, tollerati dal governo, oggi stanni nell’ombra».
Gli studi di Adrian Shtuni confermano che una caratteristica della radicalizzazione bosniaca è l’esistenza di una vasta rete di “para-jammats”, enclave salafite che vivono in conformità con la Sharia: «Una parte considerevole dei combattenti e delle loro famiglie hanno aderito a queste comunità e sono partite dopo aver trascorso lì del tempo. In Bosnia la radicalizzazione è frutto di un investimento sostenuto da entità islamiche mediorientali che diffondono una forma ultraconservatrice di Islam politico».
Eldin stesso, autista, manovale, muratore spesso all’estero per lavoro, racconta di essere stato avvicinato da cellule salafite, in Germania e in Austria, uomini di Mohamed Porca, religioso bosniaco che aveva studiato in Arabia Saudita a capo della moschea al Tawhid di Vienna. Uno dei principali finanziatori e organizzatori di viaggi verso la Siria per i radicalizzati di tutta Europa. « Se parti per il grande progetto dello Stato islamico», dissero a Eldin nel 2011, «daremo 40 mila euro alla tua famiglia». Eldin si è consultato con alcuni imam poi ha deciso di resistere alla tentazione del denaro. «Non era vero Islam, lo sentivo», dice. È rimasto in Bosnia, a Zenica anche lui. Vive in una casa, che sembra una baracca, insieme a sua madre. Che non parla mai, ma stringe le foto della figlia.
Eldin è sincero, non descrive sua sorella come una donna sottomessa e non in grado di scegliere: «Quando suo marito era ancora vivo», racconta, «Elzedina non voleva tornare qui, diceva di aver compreso solo in Siria il significato profondo dell’Islam. Ricevevano uno stipendio militare, il marito aveva ruoli di responsabilità. Dicevano di percorrere “la strada della vita nel nome di Allah”». Poi lei è rimasta vedova, mentre l’Isis iniziava a indebolirsi. Si è risposata con un combattente siriano, ma subito dopo sono iniziate le richieste d’aiuto.
Voleva andare via, ma non poteva. Le donne erano minacciate, gli uomini volevano strappare loro i bambini e punirle. Dicevano: andate via ma lasciateci i bambini. Elzedina non l’avrebbe mai permesso. Alla fine il marito è fuggito e lei e i bambini sono rimasti intrappolati a Baghuz fino alla fine della guerra. Ora sono in un campo che in pochi mesi è passato da dieci a settanta mila persone.
«La guerra è guerra, e noi la conosciamo bene, siamo figli di una terra di guerre. Ma un campo di detenzione è una prigione e non posso pensare mia sorella e i bambini lì. La chiamano terrorista, la gente mi tratta con orrore e disgusto. Io che ho saputo resistere a quel richiamo dico che queste donne hanno sperimentato il peggiore odio e dobbiamo aiutarle a guarire».
Cosi le famiglie aspettano, mentre i governi sembrano sordi e riluttanti a rimpatriare i loro cari.
«I bambini non sono colpevoli, non possono pagare», dice Eldin. «Sono stati addestrati alla guerra, ora devono essere addestrati alla pace».