Inchiesta

Esclusivo: Lotti, l’Eni e il dossier segreto

di Paolo Biondani e Emiliano Fittipaldi   20 giugno 2019

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Nuove intercettazioni sul Csm rivelano le manovre dell’ex ministro per colpire il pm Ielo. E spunta il nome di Descalzi. Così ora indaga anche la procura di Milano 

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Aggiornamento 20 giugno ore 20: La replica di Eni al nostro articolo

Lo tsunami che ha investito la magistratura scoperchia ogni giorno un nuovo scandalo. Le intercettazioni della cricca guidata da Luca Palamara, Cosimo Ferri, Luca Lotti e membri del Csm stanno terremotando non solo la giustizia italiana, ma anche molti palazzi del potere, travolti da un vortice di ricatti incrociati, abusi, minacce e dossieraggi.

«Diranno che io sono la P5, che sono quello delle nomine», ragionava Palamara, senza sapere di essere spiato dal trojan inoculato nel suo cellulare dal Gico della Guardia di Finanza. Al centro dell’affaire, il risiko dei nuovi capi di uffici giudiziari di primo livello, come le procure di Roma, Firenze, Perugia e Torino.

Registrazioni alla mano, i comportamenti di toghe e politici (al di là della rilevanza penale ancora tutta da dimostrare) sembrano lontani da qualsiasi canone istituzionale e deontologico. E raccontano trame di potere intessute nell’ombra, per spartirsi poltrone e per curare interessi personali e giudiziari. Protagonisti degli incontri carbonari notturni sono il giudice Ferri, onorevole piddino e capo-ombra di Magistratura iindipendente, buon amico di Denis Verdini e già finito (senza conseguenze) nelle intercettazioni della P3; Luca Palamara, il re di Unicost, e - visto il consesso tutto togato - quello che sembra “l’intruso” della comitiva: il democrat Luca Lotti, braccio destro di Matteo Renzi e imputato nella Capitale per il caso Consip.
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L’ex ministro renziano, dopo la vittoria del governo gialloverde e l’ascesa alla segreteria del Pd di Nicola Zingaretti, a rigor di logica doveva essere fuori da ogni partita. Invece - anche grazie ai sui rapporti con David Ermini, ex renziano di ferro diventato vicepresidente del Csm, e alle entrature coltivate nei giri di potere romani e toscani - è ancora una volta al centro della scena.

DOSSIER E DOSSIERAGGI
Il rischio, ora, è che la palude stantia si allarghi e travolga altri soggetti. Se è noto, infatti, che le trascrizioni del Gico in queste ore vengono analizzate al microscopio dai pm umbri titolari dell’inchiesta della presunta corruzione di Palamara, e che le stesse sono state in parte inviate alla commissione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, L’Espresso ha scoperto che, da qualche giorno, anche la procura di Milano sta lavorando sui colloqui segreti della cerchia di Lotti.

I pm umbri hanno trasmesso infatti ai colleghi milanesi Fabio De Pasquale, Laura Pedio e Paolo Storari, alcuni passaggi ritenuti rilevanti: quelli, cioè, in cui il braccio destro di Matteo Renzi e Palamara discutono di un dossier contro Paolo Ielo, cioè il magistrato che ha chiesto il rinvio a giudizio di Lotti per favoreggiamento in merito alla fuga di notizie sul caso Consip.

Gli inquirenti milanesi si stanno concentrando sulle trascrizioni in cui i due discutono dell’esposto (in teoria segreto) che il pm capitolino Stefano Fava aveva mandato al Csm. Una denuncia in cui Fava (oggi indagato per rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento) attacca sia l’ex procuratore capo ormai in pensione, Giuseppe Pignatone, sia Ielo. Quest’ultimo viene accusato dal collega di conflitto d’interessi per la gestione di alcune inchieste, per via di alcune consulenze professionali del fratello Domenico, avvocato di un importante studio che ha lavorato anche con l’Eni e per una società di costruzioni, Condotte.

Ma come mai queste trascrizioni sono arrivate a Milano? In un’intercettazione (omissata nella prima informativa) Lotti confiderebbe a Palamara che lui è in possesso di alcune carte sul fratello di Ielo. E che queste carte gli sarebbero state date da Claudio Descalzi. Cioè l’amministratore delegato dell’Eni.
Ebbene, Descalzi è imputato nel capoluogo lombardo per una presunta corruzione internazionale in Nigeria. Non solo: i pm meneghini stanno lavorando da mesi anche a un altro filone d’inchiesta, su presunte attività di depistaggio volte a condizionare l’indagine principale sulle tangenti africane: in questa tranche sono indagati tra gli altri Piero Amara, faccendiere ed ex avvocato dell’Eni che ha ammesso di aver orchestrato depistaggi usando magistrati corrotti, e Massimo Mantovani, ex capo ufficio legale del colosso energetico.

L’intercettazione in cui Lotti cita Descalzi è arrivata ai pm milanesi solo qualche giorno fa e l’investigazione, è bene sottolinearlo, è in una fase preliminare, di riscontro. È possibile dunque che Lotti chiarisca la sua frase, o che stesse solo millantando, e che dunque nessuna manina interna all’Eni abbia mai dato all’ex sottosegretario a Palazzo Chigi informazioni sensibili sul fratello di Ielo. Tanto più che l’esposto di Fava (di cui non conosciamo la composizione, ma è certo che i magistrati di Perugia lo definiscono solo un tentativo per «gettare discredito» sul pm anti corruzione, considerato da Palamara l’origine dei suoi problemi giudiziari) al tempo dell’intercettazione era stato già depositato al Csm.
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L’OSSESSIONE PER IELO
In attesa che le indagini chiariscano i fatti, è certo che fonti vicinissime all’inchiesta hanno preso con serietà anche le ipotesi peggiori. Se la circostanza fosse confermata, sarebbe certamente grave. Anche perché Lotti e Palamara, nell’incontro del 9 maggio con Ferri e i cinque componenti del Csm in merito all’esposto su Ielo, Pignatone e rispettivi fratelli, sembrano nutrire una sorta di ossessione. Tanto che il Gico della Guardia di Finanza dedica ai dialoghi un intero paragrafo dell’informativa. «L’attività di ascolto del colloquio fra presenti della notte del 9 maggio 2019», puntualizza il Gico, «permetteva di rilevare l’esistenza di un esposto presente alla I Commissione del Csm di interesse, per come si rileva dalla conversazione, da parte dei soggetti presenti».
I congiurati sembrano in effetti intenzionati a usare le informazioni sui parenti per azzoppare i due magistrati del pool romano, screditarli, e favorire così una «discontinuità» nella Capitale. Dove sognano venga insediato Marcello Viola, che loro considerano l’uomo giusto, rispetto agli altri candidati Giuseppe Creazzo e Francesco Lo Voi, a cambiare la vecchia musica suonata dal procuratore uscente e dai suoi fedelissimi.
I documenti
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Lotti, parlando del dossier anti-Ielo e di misteriosi allegati contenuti in un Cd Rom, interviene con i presenti più volte. Prima chiedendo a tutti «che cosa deve arrivare al presidente della situazione di Roma», e dunque ipotizzando che le informazioni screditanti possano giungere anche alle orecchie del Quirinale (Luigi Spina, consigliere del Csm, gli risponde: «Poco, perché formalmente noi ancora poco sappiamo, perché quel cazzo di Cd che sta in cassaforte e domani dovremmo chiedere... è il Cd dove stanno gli atti»).
Poi, quando Palamara che si lamenta del fatto che al Csm in troppi «non sapevano nemmeno del Cd e questo è gravissimo», l’ex ministro dello Sport riprende la parola: «Io martedì mattina ti faccio arrivare questa cosa». E Spina risponde secco: «Fagliela arrivare lunedì».

Non sappiamo di “cosa” stiano parlando, perché i finanzieri del Gico omissano gran parte dello scambio. Sappiamo però che, all’una e dieci di notte, discutendo da solo con Palamara, il renziano torna alla carica. «La roba che c’è in Prima (Commissione, ndr) Luca... su Roma... è pesante... sia il Quirinale, sia David (Ermini, ndr) lo vogliono affossare... a noi la decisione Luca... che si fa? Si spinge? Una volta che si è fatto anche gli Aggiunti», propone all’amico.

E subito dopo: «Poi il fratello... di... il fratello di Ielo c’ha ’na consulenza all’Eni...». Due minuti più tardi, dopo essersi augurato che una denuncia contro Creazzo (il procuratore di Firenze che ha ottenuto l’arresto dei genitori di Matteo Renzi) sia «una roba seria... che se è seria va via da Firenze... bisogna fa almeno la guerra», Lotti torna per l’ennesima volta sull’argomento. «Che si fa? Si fa uscire poi?... Dopo che si è fatto gli aggiunti...». E Palamara: «Andiamo da Fava... dopodiché fa uscì tutto quello che dico... è finita... là è finita...». Lotti teme che Fava, il pm romano diventato per la coppia lo strumento chiave per far esplodere la bomba e vincere la partita, si tiri indietro sul più bello: «E fai uscire anche un po’ i fratelli... voglio vedè, voglio sentirlo Fava che dice... i fratelli, le cose... non sarà così pazzo...».

ARRIVA IL COMMERCIALISTA
Leggendo l’informativa, è chiaro che il tentativo di costruire un carteggio per distruggere Ielo sia cominciato molti mesi prima. Nel marzo del 2019 il Gico intercetta una telefonata tra il leader di Unicost e un suo caro amico, Andrea De Giorgio. Commercialista e curatore fallimentare, De Giorgio spiega con toni soddisfatti che ha scoperto «per puro caso incarichi... cose molto particolari... sul fratello». Secondo gli investigatori i due parlano, senza nominarlo direttamente, proprio di Ielo e del consanguineo. «Vabbè sappiamo di chi parliamo... il soggetto X che sta rompendo i coglioni!», dice in codice De Giorgio. «C’ha consulenze colossali... e nel merito non si sa manco completamente che cacchio fa...cioè fanno tanto i puritani... però poi alla fine... questo è il tema».
Palamara, all’amico che non vuole spiegare al telefono che consulenza ha scoperto, chiede se è «oltre l’Eni, non ho capito». Una frase che fa ipotizzare come il magistrato fosse da tempo a conoscenza dei contratti (ovviamente legittimi) che l’Eni di Descalzi aveva fatto a Domenico Ielo. Palamara continua: «Però questa mo... a chi è... glielo devo dì... so io come fare... vabbè dai ci penso io...».

I due si incontreranno in seguito di persona. Visto che De Giorgio chiarisce che non si tratta delle consulenze dell’Eni, è probabile che avesse “scoperto” quelle di Condotte. Che vengono citate - sarà un caso - anche nell’esposto di Fava. Condotte è una società commissariata finita in un’inchiesta della procura di Roma, ma di cui Ielo non s’è mai occupato. Proprio per evitare conflitti d’interessi di ogni sorta.

INTRIGO ENI
Torniamo all’intercettazione in cui Lotti dice che avrebbe avuto dai vertici dell’Eni alcune carte sul fratello di Ielo. I colloqui arrivati sulle scrivanie dei pm milanesi sono solo l’ultimo capitolo di un complicato intrigo giudiziario, che va avanti da almeno quattro anni. Le partite sono almeno due. In primis, il colosso italiano del gas e petrolio è accusato dal pool, guidato dal pm De Pasquale, di corruzione internazionale per una serie di presunte tangenti multi-milionarie pagate in Algeria, Nigeria e Congo francese. Il processo Eni-Nigeria, ora in corso a Milano, coinvolge i manager più importanti dell’Eni: non solo Descalzi (nominato dal governo Renzi), ma anche il suo predecessore Paolo Scaroni.

L’altro filone, come detto prima, riguarda un depistaggio avvenuto tra il 2015 e il 2016. Una manovra orchestrata ad arte per mettere i bastoni tra le ruote ai pm di Milano, contando sull’appoggio di magistrati corrotti di piccole procure del Sud. Ecco: a gestire le operazioni occulte sono due avvocati siciliani dell’Eni, Amara e il suo braccio destro, Giuseppe Calafiore. Che scrivono una serie di esposti in cui si denuncia un fantomatico complotto contro Descalzi, presentato come vittima di false accuse, collegate proprio alle tangenti nigeriane.

I primi tre esposti, anonimi, vengono spediti alla Procura di Trani, dove l’allora pm Antonio Savasta apre un fascicolo che viene però sbugiardato dalle verifiche della Guardia di Finanza. Per la cronaca, Savasta è stato poi arrestato per altre corruzioni che ha ormai confessato. E in questi giorni alcuni giornali hanno ricordato come Lotti lo abbia incontrato mentre questi indagava (poco e male) su un imprenditore, Luigi Dagostino, ex socio di Tiziano Renzi.

Fallito il primo tentativo, Amara non demorde. Così, nel marzo 2016, il fanta-complotto per boicottare l’indagine milanese trasloca alla procura di Siracusa. Dove lavora un pm, Giancarlo Longo, che da anni è a libro paga di Amara e Calafiore. Per radicare la competenza territoriale, viene denunciato addirittura un falso sequestro di persona. L’inchiesta siracusana viene usata dal pm corrotto e dai suoi amici per cercare di strappare ai magistrati milanesi l’indagine sulle tangenti nigeriane. A Milano però il procuratore capo Francesco Greco e l’aggiunto De Pasquale respingono l’attacco del magistrato siciliano.

A febbraio 2018 il “Sistema Siracusa” salta in aria: Amara e Calafiore vengono arrestati per associazione per delinquere, corruzione giudiziaria e altri reati assortiti. Sono accusati di aver gestito per anni un sistema di corruzione di magistrati, in particolare giudici amministrativi del Consiglio di Stato, sia a Roma che in Sicilia. A luglio finisce in manette anche il pm Longo.

Dopo l’arresto, Amara ammette di essere lui il vero autore dei dossier sull’Eni e perfino dei verbali d’interrogatorio ricopiati e firmati dal magistrato siracusano. Calafiore confessa di aver versato pacchi di soldi alla toga sporca. E il 31 luglio 2018 lo stesso pm Longo ammette di aver intascato tangenti dai due avvocati dell’Eni anche per inventare la falsa indagine che presentava Descalzi come vittima. C’è uno strano risvolto politico: nei suoi tentativi di dossier depistanti l’avvocato Amara ha inserito anche «persone vicine al premier Matteo Renzi, segnatamente Marco Carrai e Andrea Bacci», da sentire come testimoni a conferma del fanta-complotto. Secondo un articolo del Fatto Quotidiano, Bacci è stato effettivamente ascoltato dal pm Longo, che in una lista sequestrata nel suo computer aveva programmato di chiamare a deporre anche l’allora ministro Lotti.
Non sappiamo cosa Longo sperava che Lotti gli dichiarasse. Sappiamo invece che Bacci, imprenditore vicinissimo al Giglio Magico dei renziani, con Amara faceva affari: L’Espresso due anni fa scoprì che i due erano soci in una società chiamata Teletouch. Società su cui voleva investire, attraverso una società maltese, anche l’ex presidente di sezione del Consiglio di Stato Riccardo Virgilio, indagato per una presunta compravendita di sentenze a favore di Amara.

Il nome di Lotti, saranno sfortunate coincidenze, spunta altre volte nelle avventure di Amara. Il renziano, autosospesosi dal Pd, è stato infatti ascoltato nei giorni scorsi dai pm di Messina come testimone in merito alla nomina (poi saltata) di un giudice al Consiglio di Stato. Si tratta di Giuseppe Mineo, ora indagato per corruzione in atti giudiziari, che l’allora capo di Ala, Verdini (dopo - dice l’accusa - aver avuto 300 mila euro da Amara) sponsorizzò proprio a Lotti. Lo scorso agosto confermò che il governo designò per l’ambita poltrona il togato, ma solo perché «è prassi, quando si affrontano nomine politiche di valore politico, ascoltare le indicazioni fornite dai gruppi» che sostengono la maggioranza. E Amara? L’ex sottosegretario a Palazzo Chigi ha sostenuto di averlo visto una sola volta «a una cena di Natale nel 2015. Mi fu presentato dall’avvocato Mantovani dell’Eni, come legale o collaboratore dell’Eni».

Torniamo al depistaggio. Amara sostiene di essersi inventato da solo la fanta-inchiesta di Siracusa, per fare un regalo ai vertici dell’Eni, a loro totale insaputa. Una versione ritenuta reticente dai pm milanesi Pedio e Storari, che hanno infatti perquisito e indagato l’allora capo dell’ufficio legale dell’Eni, Massimo Mantovani, considerato un fedelissimo di Descalzi. Mantovani respinge ogni accusa, dichiarando che non sapeva nulla delle trame di Amara.

Le indagini sulle toghe sporche, intanto, si sono allargate e intrecciate. Disegnando un sistema complesso di tangenti e favori. E la procura di Roma ha acceso un faro su un’altra vicenda oscura: nel maggio 2018, mentre l’avvocato Amara è ancora detenuto, una società controllata dall’Eni ha versato circa 25 milioni di euro a una ditta, chiamata Napag Italia, che secondo l’accusa farebbe capo proprio al legale arrestato.
I magistrati di Roma e Milano ipotizzano che parte di quei soldi possano essere il prezzo per far tacere Amara, per convincerlo a non coinvolgere alcun dirigente dell’Eni nella storiaccia del fanta-complotto di Siracusa. E proprio sulla Napag si spacca il fronte dei magistrati anti-corruzione. A Roma il pm Fava propone infatti di riarrestare Amara e altri presunti complici. Pignatone e Ielo non sono d’accordo: gli rispondono che su quella corruzione sta già indagando Milano. Fava, che lavora da mesi con i colleghi lombardi, rilancia dunque anche a loro l’idea di una retata. I pm milanesi però non condividono i reati da lui ipotizzati, e ritengono necessarie indagini più approfondite, anche perché la Napag risulta aver trasferito tutti i soldi a misteriose società offshore.
A quel punto il pm Fava, senza preavviso, chiede a Milano di trasmettergli l’indagine sull’Eni, oppure di sollevare un conflitto di competenza. È un atto considerato ostile, che i magistrati milanesi non si aspettavano. Quindi il procuratore Francesco Greco chiede lumi a Roma, scoprendo che Pignatone e Ielo non sanno nulla delle ultime mosse di Fava. L’amico di Palamara di fatto ha cercato di togliere ai colleghi milanesi l’indagine sul caso Amara-Eni senza dire nulla ai suoi capi. Da allora i pm meneghini interrompono ogni rapporto con lui, per continuare a lavorare con gli altri magistrati di Roma, Messina e Perugia.

A Milano l’indagine dunque continua, e punta in alto. Al netto delle nuove trascrizioni su Lotti e Descalzi, sappiamo con certezza che i 25 milioni girati alla Napag, la presunta società-schermo dell’avvocato Amara, sono stati pagati da una controllata, Eni Trading & Shipping (Ets). Il suo presidente e amministratore delegato, all’epoca, era proprio Mantovani, nominato nel novembre 2016 e rimasto in carica fino a un mese fa. Oggi l’ex capo dell’ufficio legale è ancora nel gruppo, ma è stato trasferito a Londra. Mentre il contratto da 25 milioni a favore della Napag è ormai considerato sospetto dallo stesso gruppo statale, che dopo una rapida inchiesta interna avrebbe sanzionato il dirigente commerciale che firmò l’affare.

Il gruppo Eni ha escluso qualsiasi coinvolgimento nelle varie ipotesi di corruzione di magistrati o avvocati, dichiarandosi «parte lesa» in tutti i procedimenti in corso.