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Cultura
giugno, 2019

Edicole Grevi, lo zingaro del Barocco che ha scelto Roma. Nonostante tutto

A poco più di trent’anni col suo patrimonio di liuti, arciliuti e tiorbe riempie le sale di tutto il mondo. Ma nella Capitale nessuna data in programma: «Qui per suonare in spazi importanti devi avere buone conoscenze»

Della pasticceria siciliana di San Giovanni a Roma, dove è fissato l’appuntamento, arrivano solo i profumi delle brioche calde, perché in un attimo, appena si mette a raccontare, il chiasso del traffico cede il passo agli echi delle carrozze papaline e al viavai a Piazza di Spagna dei giganti della storia, Van Dyck, Velàzquez, Weiss, Goethe, Rubens. Sono lì, a un palmo, che quasi non credi a quello che vedi fuori. La Storia stramba e per un’ora soffia via piccioni e mondezze, si posa gentile su un ragazzone alto, capelli scarruffati, fisico da rugbysta e modi gentili. Diego Leveric ha scelto come nome d’arte Edicole Grevi (con cui è appena uscito “Lute Concertos”, Barnum for Art). E’ il suo nome anagrammato: “per un certo periodo”, dice, “mi sono interessato alle cifrature, agli arcana, alla Cabala”; a poco più di trent’anni, gira come una trottola i continenti, col suo patrimonio di liuti, arciliuti e tiorbe e la consolidata fama di essere uno dei più importanti ed accreditati musicisti di barocco al mondo.

In effetti, la dimestichezza con la cultura cosmopolita lo porta, suo malgrado e senza compiacimento, ad acciambellarsi tra le pieghe della storia, in un flusso ininterrotto dove ti racconta di quando Roma era come New York, negli anni della Controriforma, del piano pontificio di attrazione per artisti e intellettuali, balzando in un soffio alla corte di Augusto II il Forte, Re di Polonia, fino al principe Leopoldo di Cothen. Dagli Hohenzollern a Virginia Raggi, diciamo. Una corrente continua in un corrugato che arriva agli echi del conflitto nella ex-Jugoslavia, che da istriano leva ’88 ricorda solo di striscio, fino ad Aleppo. In quel Paese martoriato dalla guerra civile al confine orientale della Turchia (è felice della vittoria elettorale fresca di cronaca dell’opposizione a Istanbul) fu invitato a suonare nell’auditorium di Damasco e ad incontrare gli studenti. Di quei giorni in Siria ricorda la voglia di normalità accanto ai buchi dei proiettili nei palazzi.

«I ragazzini, bravissimi, avevano preparato un concerto in mio onore», dice coi lucciconi, «mi hanno ringraziato e conteso su chi dovesse ospitarmi». Non che sia banale partire, liuto in spalla, e passare il confine in macchina attraverso il Libano per suonare Haydn o Vivaldi, «al ritorno verso Beirut, notte fonda, strade buie per risparmiare, mi hanno fatto trasferire da una macchina all’altra, senza poter chiedere spiegazioni», ricorda, «mi sa che era illegale, ma ha organizzato tutto il Conservatorio di Damasco. Ma sai cosa? Tutti dicevano che ero matto ad andar là a fare concerti; poche volte sono stato così felice di farli». Legatissimo alle sue origini (parla spesso di Rovigno dove è nato, del padre Michele e della madre, Arijeta Antolovic, mentore e prima fan), è tornato da poco dalla Cina, pronto ad un mese di concerti in Brasile tra luglio e agosto.

Date programmate a Roma? «Per ora no, qui per suonare in spazi importanti devi avere buone conoscenze», chiosa senza neanche cercare polemica. Dovresti chiamarlo Professore o Maestro e, invece, è fatale finire a chiacchierare solo con Diego, che ha delle manone così grandi che a stento immagini le dita tanto agili e precise da tradurre ogni sfumatura del liuto in un suono preciso, cristallino, risonante. Parrà curioso a chi delle cronache musicali arrivano solo le epifanie scatologiche della trap e suoi paraggi, ma in ogni suo discorso Leveric allude a un mondo vasto di giovani e giovanissimi: musicisti, storici, barocchisti e appassionati che riempiono le sale dei suoi concerti; sarà anche per quello che alterna le preoccupazioni sulla corretta esecuzione filologica di intavolature rinascimentali e l’insegnamento dei rudimenti musicali e della chitarra classica ai più piccoli «è una cosa che mi piace tantissimo», dice sicuro (beati loro). Le preoccupazioni esecutive, invece, riguardano tutte il ruolo dell’improvvisazione nella musica barocca (“Sono andato anche recentemente a Vienna per parlarne con Luciano Contini”, altro liutista sassarese di fama mondiale. «Lui continua a sostenere che suonare correttamente Bach vuol dire eseguire, nota dopo nota, l’esatta trascrizione. Ma nella ripetizione del tema sono convinto che possano essere interpolati abbellimenti», cioè le fioriture che sono all’origine dell’idea contemporanea di improvvisazione).

Dai suoi studi di specializzazione in liuto dopo la laurea in musicologia, ha riportato la convinzione che due giganti come J.S. Bach e S.L. Weiss si siano potuti conoscere tra Lipsia e Dresda e, verosimilmente, suonare insieme improvvisando. Anzi, tanto ne è convinto, che nei bis ai suoi concerti, da geniaccio estroverso e talentuoso, chiede al pubblico di dire delle note a caso, le mette in sequenza con una struttura armonica coerente e, puf!, si mette a improvvisare fughe, ciaccone, fantasie; «è uno dei modi in cui coinvolgere chi ascolta e di solito sono sbalorditi dei risultati, ma alla fine è frutto di uno studio e di una tecnica precisa», si schermisce. «In realtà», aggiunge, «i miei concerti sono delle passeggiate lungo la storia del repertorio del liuto che partono dal rinascimento e finiscono ai tempi più recenti. La maggiore difficoltà è spesso nell’arrangiamento, che va da piccoli ensamble di due o tre archi al concerto vero e proprio».

Poi, come se fosse una cosa comune, lo sguardo (metà è fisso su chi ascolta, il resto lo percepisci perennemente dentro ai suoi studi e alla sua musica) vola sui manoscritti: «È abbastanza comune tra chi suona barocco tirarne fuori di inediti, non sempre leggibili e poi eseguirli sia in studio di registrazione sia live». Anche così, prima di questo bellissimo “Lute Concertos” fresco di stampa, Leveric aveva pubblicato nel 2016 “Weiss à Rome”, unica registrazione disponibile di otto parti del kappelmeister di Dresda, le cui composizioni per liuto sono rimaste per secoli inesplorate perché ritenute, tecnicamente, troppo difficili da suonare.

E via nei racconti di Weiss e della sua abitazione romana, città delle quale si innamorò e che con un piglio simile Leveric ha scelto come sede privilegiata dei suoi spostamenti intorno al mondo: «sono uno zingaro, mi piace il chiasso e il casino di questa città, che nonostante tutto è viva”». Per un attimo, attraverso i suoi racconti, si può percepire con esattezza il suono della transitorietà, di come tutto, salvo la bellezza e l’arte, sia destinato a trasformarsi, a passare; e quel senso di sconforto per l’attualità allenta la morsa. Roma, per fortuna, è anche questo.

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